Corte Costituzionale e Parlamento – Resoconto convegno

15.02.2007

La Lectio Magistralis “Corte Costituzionale e Parlamento” tenuta dal Presidente emerito della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti in occasione dell’inaugurazione del V Corso di formazione e specializzazione in “Diritto e Organizzazione della Funzione Parlamentare” promosso dall’A.R.S.S.A.E. in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli Federico II e con il patrocinio della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Lunedì 5 febbraio 2007 è stato inaugurato, a Napoli, presso l’aula Rolando Quadri della Facoltà di Scienze Politiche, la quinta edizione del Corso di formazione e specializzazione in “Diritto e Organizzazione della funzione Parlamentare”, promosso dall’Associazione per le Ricerche e gli Studi sulla Rappresentanza Politica nelle Assemblee Elettive (A.R.S.S.A.E.), con la collaborazione dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e con il patrocinio della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Dopo una breve presentazione del Prof. Vincenzo Lippolis, Presidente dell’ARSSAE, e dopo i saluti del Preside della Facoltà di Scienze Politiche, il Prof. Raffaele Feola, la prolusione del Corso è stata affidata alla Lectio Magistralis tenuta dal Prof. Piero Alberto Capotosti, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, sul tema “Parlamento e Corte Costituzionale”.
Il Prof. Capotosti ha esordito affermando che, la questione del rapporto Consulta-Parlamento, necessita d’un inquadramento preliminare, in quanto problematica che, non solo si sostanzia in una relazione tra organi, ma, in primis, è essenzialmente da sviluppare quale rapporto tra funzioni. Risulta, pertanto, aspetto ineludibile, analizzare la funzione di controllo di costituzionalità delle leggi svolta dalle Corte Costituzionali nel corso della loro storia.
La funzione di controllo di costituzionalità deriva dal principio di costituzionalità, principio che si è affermato definitivamente nel secondo dopoguerra mondiale. Si tratta d’un principio che ha finito con l’integrare il principio di legalità su cui poggiava lo Stato di diritto. Il Prof Capotosti non esita ad affermare che, in un certo senso, il principio di Costituzionalità si è evoluto a discapito del principio di Legalità, e richiama, a supporto delle sue affermazioni, la Teoria dello Stato Costituzionale di P. Haberle.
Il Prof Capotosti risale alle origini del principio di costituzionalità. Seconda tale linea direttrice, elementi di tale principio, si ritrovano già nel “The Federalism” dell’americano Alexander Hamilton. E’ un principio che trae la sua forza, da un lato, dalla classica tripartizione dei poteri secondo la lezione di Montesquieu, e, dall’altro, dalla visone giusnaturalistica dell’esistenza di diritti inalienabili dell’uomo che, trovando la loro solenne consacrazione nelle Costituzioni, non possono essere violati da nessun atto del Legislatore.
E’ sempre negli Usa che, il principio di Costituzionalità, riceve la sua prima concreta manifestazione nella famosa Sentenza Marbury VS Madison del 1803. Il Presidente della Corte Suprema dell’epoca, il giudice John Marshall, affermò che: “Come ogni giudice può controllare ogni legge nel momento della sua applicazione, allo stesso modo, è suo imprescindibile compito, verificare il rapporto di conformità delle leggi alla Costituzione”.

Nonostante la decisione non dispiegasse un effetto erga omnes, in virtù del principio dello stare decisis, la sentenza funse da significativo precedente ed ebbe una portata ed una cogenza tale da radicare stabilmente il principio di costituzionalità nell’Ordinamento Giuridico statunitense.
Questo principio, in vigore negli Usa sin dall’Ottocento, in Europa faticò ad imporsi. Nel vecchio continente, sin dal 1689 con la “Glorious and Pacific Revolution”, attraverso una processo plurisecolare di erosione di poteri dalla Corona alla Camera dei Comuni, si era affermato il principio della superiorità-onnipotenza dei Parlamenti. In tale ottica, pertanto, qualsiasi limitazione dell’attività del Legislatore, prima fra tutte il controllo di legittimità delle leggi, veniva liquidata quale operazione tesa a scalfire la suddetta onnipotenza del Parlamento.
Le cose non erano diverse sull’altra sponda della Manica. Anche nella III Repubblica Francese, nonostante una Costituzione rigida, il controllo di costituzionalità non vi trovava espressione. Tutto questo in omaggio alla lezione giacobina della onnipotenza dell’assemblea in quanto luogo naturale d’espressione della sovranità popolare.
Solo a partire dal primo dopoguerra, grazie alla diffusione della Dottrina Pura del Diritto della Scuola di Vienna e del suo principale esponente, Hans Kelsen, il principio del controllo di costituzionalità fu inserito nella Costituzione Austriaca del 1920. Secondo Kelsen le fonti del diritto dovevano essere organizzate gerarchicamente: esse dovevano andare da una cosiddetta Legge Fondamentale (Grundnorm) sino al livello più basso rappresentato dai regolamenti. In una tale prospettiva, se la Costituzione veniva considerata la legge Fondamentale d’uno Stato ed era posta al di sopra di ogni altra fonte, risultava naturale la presenza d’un organo che assolvesse alla funzione di controllare la conformità delle leggi (norme subordinate) alla Costituzione (norma principale). In tal modo, la Corte Costituzionale assumeva il ruolo di “Guardiano della Costituzione”: contro lo strapotere delle maggioranze che piegavano al proprio volere l’attività del Legislatore, fine principale della Corte, per Kelsen, doveva essere proprio quello di contrastare possibili derive a discapito dei diritti della persona. In opposizione alle tesi kelseniane, l’altro grande costituzionalista di lingua tedesca, Carl Schmitt, sostenne che garante della Costituzione – atto di natura politica – non potesse essere altro che un organo che rappresentasse direttamente l’unità politica del popolo. Il Capo dello Stato, pertanto, e non un organo giurisdizionale quale la Corte Costituzionale, possedeva tutti i caratteri per assolvere a tale compito.
In Europa, quindi, in contrasto col modello”sperimentale” statunitense, si sviluppò un sistema in cui gli elementi ideologici assunsero carattere principale.
Il Prof. Capotosti passa poi ad esaminare il modello italiano. Lo Statuto Alberino, Costituzione flessibile per eccellenza, permetteva al Legislatore di modificare le norme statutarie. A supportare tale considerazione, Capotosti richiama la legislazione del periodo fascista, che, attraverso procedure perfettamente regolari, mutò profondamente parti dello Statuto in vigore dal 1848. Fu solo col crollo del fascismo e con la fine della seconda guerra mondiale che, in sede di assemblea costituente, si tornò a discutere sul principio di costituzionalità. Il dibattito che si svolse tra il 1946 e il 1948 fu molto appassionante e diede luogo ad un’accesa polemica.
Gli esponenti del Liberalismo pre-fascista tra i quali Nitti e Orlando, preoccupati che l’operato della Corte Costituzionale si sovrapponesse pericolosamente all’attività delle assemblee, si schierarono contro l’istituzione della Consulta. Su analoghe posizioni si attestarono gli esponenti del Fronte Popolare Democratico. Palmiro Togliatti non esitò a bollare la Corte quale una “cosa bizzarra”: per il PCI e il PSI era inconcepibile attivare un meccanismo che si ponesse da ostacolo al libero espandersi della sovranità popolare. Analoghe titubanze si manifestarono anche per ciò che atteneva alla composizione della Corte: Gaetano Salvemini, data la configurazione meramente “tecnica” e non politica dell’organo, non ebbe remore nel sostenere la possibile infiltrazione di “elementi camorristici” al suo interno. Solo grazie all’intervento dei giuristi Mortati e Tosato si riuscirono a superare le anzidette resistenze. Secondo Mortati e Tosato, infatti, il controllo dispiegato dalla Corte non doveva essere un controllo di merito ma un controllo, appunto, di legittimità. Per quel che concerneva la composizione dell’organo, invece, per la nomina dei suoi membri venne adottato una disciplina mista. Pertanto venne stabilito che la Corte fosse composta da 15 membri di cui cinque nominati dal Presidente della Repubblica, altri cinque dal Parlamento in seduta comune e i restanti (sempre cinque) dalle supreme magistrature ordinarie ed amministrative (Art. 135.1 Costituzione). Dall’entrata in vigore della Costituzione, la Corte Costituzionale iniziò ad operare solo 7 anni dopo: nella su prima sentenza, datata 5 giugno 1956 , in conformità al dettato costituzionale (Art. 134), la Corte affermò la propria competenza a giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge (estendendo il suo sindacato di costituzionalità anche a leggi e agli atti aventi forza di legge anteriori all’entrata in vigore della Costituzione ).
Per il Prof. Capotosti, nel corso di questi anni, la Corte si è rivelata un organo centrale del sistema istituzionale italiano, e si è dotata, in conformità alla medesima evoluzione delle altre Corti Costituzionali Europee e del resto del mondo, di una strumentazione che è andata ben al di là delle originarie attribuzioni.
Per ciò che attiene al rapporto Corte-Parlamento, argomento di per sé già estremamente delicato, secondo il Prof Capotosti, è in materia di immunità parlamentari che si sono registrate le dispute più accese. Si tratta d’una diatriba che traeva origine nel conflitto di poteri (regio e parlamentare) nell’Inghilterra del 1600.
In Italia, in particolare, il sistema dell’immunità parlamentari fu consolidato con l’entrata in vigore dello Statuto Albertino: I deputati ed i senatori non erano sindacabili per le opinioni espresse ed i voti dati (Art 51 Statuto Albertino); inoltre, i parlamentari non erano perseguibili senza autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza ( art 45-46 Statuto Albertino).
In tema di immunità parlamentari, la Costituzione Repubblicana riprende sostanzialmente la disciplina statutaria. La norma cardine è l’articolo 68 della Costituzione. Capotosti cita alla lettera l’articolo. In base al primo comma dell’68 della Costituzione, – comma tutt’ora immutato – “i deputati non possono esser chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” ( Insindacabilità o immunità parlamentare in senso stretto). Invece, in base all’originario comma 2 dell’art. 68 (abrogato poi nel 1992), “senza l’autorizzazione della camera di appartenenza, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale, né può esser arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell’atto di compiere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura. Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile”.
Tale articolo ha trovato applicazione integrale dal 1948 sino al 1992.
Fino agli anni 80’ l’insindacabilità parlamentare non ha dato adito a particolari polemiche. Capotosti rileva che in dottrina si era tendenzialmente concordi nel distinguere tra gli effetti prodotti dalle fattispecie del primo e del secondo comma; l’insindacabilità non produceva in sé effetti antigiuridici in quanto da opinioni e voti non nascevano reati e, di conseguenza, non si poteva dare luogo a procedimento. Con la non autorizzazione a procedere, invece, veniva sospesa la procedibilità dell’imputato; procedibilità che, pertanto, poteva tornare a dispiegare di nuovo i suoi effetti solo con la fine del mandato del parlamentare. Tutto ciò reggeva sino a quando, per procedimento, si intendeva essenzialmente solo il procedimento penale.
A partire dalla fine degli anni ‘80 questa prospettiva venne ribaltata. Vi fu un mutamento di prassi giudiziaria dovuta all. Avv. Adolfo Gatti che sconvolse la materia: Gatti in luogo del procedimento penale, pose l’accento sulla procedura civile; Si diffuse così la prassi di adire alle via civile per agire contro il parlamentare.
Secondo il Prof Capotosti, si trattò di un meccanismo dirompente che sconvolse la materia dell’immunità e oppose in un serrata disputa magistratura e parlamento. Nello scontro si inserì la Corte che, con la Sentenza 1150 del 1988, affermò due principi basilari:
· La camera d’appartenenza ha competenza esclusiva nel giudizio di insindacabilità sui voti dati e le opinioni espresse dal parlamentare
· Qualora tale potere del parlamentare si ritenga utilizzato secondo modalità inappropriate, altri organi dello Stato possono investire la Corte, la quale, altresì, deve limitare la sua attività ad una “mera attività esterna” evitando, in questo modo, di interferire nelle prerogative parlamentari.
Il 1992 fu un anno cruciale. Con lo scoppio dello scandalo di Tangentopoli vi fu un aumento abnorme delle richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di deputati e senatori. Per questa via, in richiesta ad una maggiore moralizzazione del Paese auspicata dalla società civile, con la Legge Costituzionale 3 del 1993 si pervenne, in tempi record e con schiacciante voto a favore, alla modificazione dell’articolo 68 della Costituzione: l’autorizzazione a procedere per i parlamentari venne abolita; restava solo la richiesta di autorizzazione per privare il Parlamentare della liberta personale (salvo in caso di condanna definitiva).
A seguito dell’abrogazione del comma 2 dell’Art. 68 della Costituzione, il Governo emanò un decreto legge per regolamentare l’attuazione del nuovo articolo 68. In base a tale decreto legge, era stabilito il dovere per il Giudice di interpellare le Camere qualora si fosse imbattuto in una caso rientrante nelle fattispecie ex. Art. 68 comma 1. La materia restava incandescente: Il decreto fu reiterato per ben diciotto volte sino alla famosa Sentenza 360 della Corte Costituzionale (Sentenza anti-reiterazione dei decreti legge). Pertanto il decreto decadde e con esso il relativo obbligo per l’autorità giudiziaria di interpellare le camere.
Negli ultimi anni, la Corte, dapprima, si è limitata a ribadire il suo ruolo di “controllore esterno” dell’attività delle assemblee. Poi, a partire dal 1997-1998, a fronte di sempre più numerose richieste, la Consulta introdusse il concetto di “nesso funzionale”: tra l’azione del Parlamentare e le opinioni espresse/voti dati vi doveva essere una stretta connessione. In tal modo, la Corte sanciva che l’insindacabilità non poteva proteggere l’intera attività del Parlamentare poiché, secondo tale via, si sarebbe configurata una violazione dell’articolo 3 della Costituzione. Secondo il Prof. Capotosti questo indirizzo inaugurato dalla Consulta sul finire del secolo resta tutt’ora in vigore.
A conclusione della sua Lectio Magistralis, il Prof Capotosti, nel richiamare la sua esperienza, recentemente conclusasi, di Giudice della Corte Costituzionale, ribadisce la centralità della Corte nel sistema istituzionale italiano: Il Giudice Costituzionale finisce per giuocare un ruolo estremamente delicato dovendosi rapportare con la legge dello Stato, legge che rappresenta l’atto politico per eccellenza e che, perciò, annida in essa una ben determinata visone della società e della realtà in cui viviamo.


Dario Cetta