Il 4 aprile 2007 si è svolto il seminario “Prospettive di riforma della House of Lords”, organizzato dalla Facoltà di Scienze Politiche e dal Centro di Studi sul Parlamento della LUISS Guido Carli di Roma per discutere delle prospettive di riforma della House of Lords alla luce della recente mozione votata dalla House of Commons che impegna il Governo a riformare in senso totalmente elettivo la Camera dei Pari.
Il Seminario, introdotto dal Prof. Gian Candido DE MARTIN e moderato dalla Prof.ssa Melina DE CARO, ha visto la partecipazione del Prof. Alessandro TORRE, dell’Università di Bari, e dei Professori Giovanni RIZZONI e Romano FERRARI ZUMBINI.
La Prof.ssa Melina DE CARO ha posto al centro del suo intervento iniziale la questione del bicameralismo, con gli inevitabili riferimenti al sistema parlamentare italiano.
Il fondamento del bicameralismo può individuarsi nell’esigenza che a livello parlamentare sia garantita una rappresentanza di tipo politico (la rappresentanza del popolo, attraverso una Camera che con il Governo instaura il rapporto fiduciario) ed una di tipo territoriale (la rappresentanza dei “territori” che compongono lo Stato). Nello stesso assetto istituzionale dell’Unione Europea può individuarsi un modello parallelo a quello appena descritto, con il Parlamento Europeo come istituzione rappresentativa dei popoli che compongono l’Unione e con il Consiglio a rappresentare i “territori” dell’Unione che, ovviamente, sono gli Stati membri.
Più complesso è il discorso per quanto attiene l’Italia. Solo con la riforma costituzionale del Titolo V sono stati introdotti elementi di rappresentanza “territoriale” nel sistema parlamentare italiano, attraverso l’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 secondo il quale i regolamenti parlamentari possono “prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali”.
Alla luce di tale innovazione – rimasta peraltro inattuata – e degli sviluppi che si stanno affacciando nel dibattito politico in favore di una riforma costituzionale che introduca un “Senato delle Regioni” (o, meglio, un “Senato delle autonomie locali”), viene da chiedersi se non sia opportuno estendere la partecipazione nel Senato ad altre tipologie di rappresentanza. Preso atto della trasformazione della società verso un assetto “neocorporativo”, sembrerebbe opportuno che la composizione del Senato sia costituita non solo da rappresentanti di autonomie locali ma anche di autonomie funzionali, quali ad esempio l’Università. Garantire in un “Senato delle autonomie” la rappresentanza delle autonomie funzionali (spesso accusate di agire a difesa esclusiva dei propri interessi) potrebbe costituire l’occasione per “educare” queste ultime all’interesse collettivo.
Il Prof. Alessandro TORRE ha iniziato il suo intervento ripercorrendo i principali passaggi che nella storia del costituzionalismo britannico hanno caratterizzato lo “scontro” tra la Camera dei Comuni e la Camera dei Lords.
Il primo momento di ostilità tra le due Camere può farsi risalire al periodo compreso tra la seconda metà del diciottesimo secolo fino agli inizi del diciannovesimo, quando per circa dodici volte la Camera dei Comuni tentò di porre mano ad una riforma elettorale, regolarmente osteggiata dai Lords. Fu solo nel 1832 che i Comuni riuscirono ad ottenere l’assenso dei Pari, approvando quella che è passata alla storia del costituzionalismo inglese come la “grande riforma elettorale”. Fu però soltanto minacciando la nomina di un cospicuo numero di nuovi Lords da parte del Re e su proposta del Primo Ministro (il c.d. potere di patronage), che la maggioranza governativa riuscì a vincere l’ostilità dei Lords.
Un secondo momento di scontro si ebbe per la forte opposizione dei Lords all’approvazione degli Home Rule Bills, proposti dal Primo Ministro Gladstone, volti a concedere ampia autonomia all’Irlanda. Fu in seguito a questo nuovo scontro che nel dibattito politico si affacciò l’ipotesi di riformare la seconda Camera.
Ma il momento più aspro si registrò nel corso degli anni 1909-11 quando, per la prima volta, la Camera dei Lords si oppose all’approvazione del bilancio statale, in seguito alla proposta del Primo Ministro Lloyd George di tassare la proprietà privata. I Lords ruppero in tal modo la secolare prassi di self-restraint vigente sin dai tempi del Re Edoardo I, per effetto della quale essi avevano di fatto rinunciato al potere di veto in materia di bilancio. In quel caso, tuttavia – fu questa la giustificazione addotta dagli stessi Lords – era stato il Primo Ministro, con la scelta di tassare la proprietà privata, a trasformare in documento politico il documento di bilancio. La crisi fu risolta solo in seguito a nuove elezioni e alla minaccia del Primo Ministro di esercitare il potere di patronage, proponendo cioè al Sovrano la nomina di numerosi nuovi Lords.
Nel 1911, con l’Atto sul Parlamento, la secolare prassi che escludeva dalla materia del bilancio il potere di veto della Camera dei Lords e da questi ultimi interrotta dalla crisi del 1909-1911, fu recepita in una legge scritta. Nel preambolo all’Atto del 1911 veniva contemporaneamente affermata la volontà di sostituire la Camera dei Lords con una Camera di rappresentanza politica “ma non immediatamente”.
Sebbene nel 1911 si sia solennemente affermata l’esigenza di riformare la seconda Camera inglese, alcun intervento significativo di riforma è stato adottato fino agli anni Novanta.
Merita di essere menzionata l’affermazione della prassi (la c.d. convenzione di Salisbury) per la quale è escluso il potere di veto dei Lords sulle proposte di legge che rappresentino attuazione del manifesto elettorale del Governo. Tuttavia, in occasione dell’approvazione del Local Government Bill del 1984, proposto dal Primo Ministro Thatcher allo scopo di abolire le autorità delle aree metropolitane di Londra e di altre importanti città inglesi, i Lords si opposero tenacemente al disegno di legge tanto da portare il Governo a ritirare la proposta e a sostituirla con una diversa che fu poi approvata. L’episodio (che vide i Lords contrapposti al Governo conservatore ed appoggiati dal Labour Party) ebbe tuttavia il merito di far emergere come l’azione della Camera dei Lords si caratterizzi per una marcata indipendenza ed autorevolezza. Per quanto riguarda i Lords ereditari, infatti, l’ereditarietà della carica non impone loro alcuna sorta di “riconoscenza” verso nessuno, mentre per quanto riguarda quelli nominati, la durata vitalizia dell’incarico ed il fatto che il potere di patronage del Primo Ministro sia esercitato consultando il leader dell’opposizione impediscono la “dipendenza” dei Lords stessi dalle pressioni politiche di chi li ha nominati.
Alcune riforme hanno tuttavia caratterizzato la composizione della House of Lords negli ultimi dieci anni. Nel 1999 si ebbe il primo intervento riformatore con l’eliminazione dalla composizione della Camera della maggior parte dei Lords ereditari. Negli ultimi tre anni si sono avuti interventi circoscritti alla luce delle pressioni dell’Unione Europea perché nel sistema inglese fosse garantita una maggiore autonomia del sistema giudiziario (data la presenza nella Camera dei Pari dei Law Lords, posti al vertice delle alte magistrature britanniche e componenti il Supremo Tribunale di Appello, un collegio dotato di competenze giurisdizionali) e fosse realizzata una completa separazione dei poteri (alla luce della presenza nella Camera dei Pari del Lord Cancelliere, contemporaneamente membro del Governo e “Presidente” dell’Assemblea dei Lords). Nel 2005 dalla composizione della House of Lords sono stati espunti i Law Lords (le cui funzioni sono state attribuite ad una Corte Suprema del Regno Unito) e dal 2006 la presidenza dell’Assemblea è stata attribuita ad un Lord elettivo. Nel febbraio 2003 sono state però parallelamente bocciate dai Comuni sette ipotesi di riforma della composizione della Camera dei Lords. Nel marzo di quest’anno, in seguito alla presentazione da parte del Governo Blair di un Libro Bianco nel febbraio 2007, sono state sottoposte alle Camere un ventaglio di nuove ipotesi.
Il 7 marzo 2007 è stata sottoposta alla deliberazione della Camera dei Comuni una pluralità di possibili soluzioni attraverso il meccanismo del “voto alternato”. Innanzitutto è stata sottoposta al voto dei Comuni l’alternativa tra la possibilità di conservare un seconda Camera e quella di sopprimerla. Accolta favorevolmente la prima ipotesi, è stata sottoposta al voto dei Comuni l’alternativa tra il mantenimento della seconda Camera e la sua riforma. Accolta favorevolmente l’ipotesi di una sua riforma si è passati al voto delle singole proposte di riforma. La prima proposta di merito (una House of Lords totalmente nominata attraverso il meccanismo del patronage) è stata respinta così come sono state respinte le successive tre ipotesi, sottoposte “a scalare” alla votazione dei Comuni (l’ipotesi di una seconda Camera composta dall’80% di Lords nominati e dal 20% elettivi, quella di una seconda Camera composta dal 60% di Lords nominati e dal 40% elettivi ed infine quella di una composizione paritaria di Lords nominati ed elettivi). Respinta anche questa terza ipotesi (l’ultima che poteva risultare “interessante” per il Governo), il Primo Ministro Blair ha cessato di partecipare alle votazioni ai Comuni. Anche le ultime due ipotesi sottoposte al voto dei Comuni (e cioè la composizione di una seconda Camera, rispettivamente, con il 60% e l’80% di Lords elettivi ed il 40% e il 60% di nominati) sono state bocciate. L’ultima votazione (sull’ipotesi di introdurre una House of Lords integralmente elettiva) è stata invece approvata dai Comuni con 337 voti favorevoli e 224 voti contrari.
Una settimana dopo è stata la Camera dei Lords ad esprimersi con un voto sulla propria riforma e, come era prevedibile che fosse, è stata l’ipotesi di una composizione integralmente ereditaria a raccogliere il voto favorevole. In entrambi i casi (nel voto dei Comuni del 7 marzo e nel voto dei Lords del 14 marzo) sono state dunque le opzioni “antigovernative” (rispettivamente l’ipotesi di integrale composizione elettiva e l’integrale composizione ereditaria) a raccogliere i voti favorevoli.
Alla luce del voto dei Comuni e dei Lords del marzo 2007, può dirsi che, per quanto riguarda le prospettive di una riforma della House of Lords, essa verrà compiuta ma, come era già scritto nel preambolo all’Atto sul Parlamento del 1911, “non immediatamente”.
Il Prof. Romano FERRARI ZUMBINI ha concordato con le conclusioni del Prof. Torre: la riforma della House of Lords difficilmente vedrà la luce. E ciò per una serie precisa di motivi.
Innanzitutto nella deliberazione del marzo 2007 le due Camere si sono limitate a votare una mozione di indirizzo politico al Governo, non un provvedimento legislativo.
In secondo luogo non può dimenticarsi che nel 2003 le stesse proposte di riforma della House of Lords furono tutte respinte dai Comuni. Nel marzo 2007 si è riusciti a far sì che il Parlamento si pronunciasse favorevolmente su una delle ipotesi sottoposte alla votazione solo attraverso un vero e proprio escamotage, ricorrendo cioè al sistema del voto alternato per il quale la proposta che nella precedente deliberazione ha ottenuto più voti viene nuovamente sottoposta alla votazione del Parlamento, nella successiva deliberazione, in alternativa ad una nuova proposta. E’ praticamente impossibile che, alla fine del ciclo delle votazioni, non vi sia almeno una opzione che non abbia ottenuto un voto favorevole.
In terzo luogo non sono stati affrontati “nodi” quali la durata della carica di Lords o il sistema elettorale per l’elezione dei Lords stessi.
Infine la votazione dei Comuni non può non collocarsi nel contesto politico nel quale è avvenuta, contesto che vede in fase discendente la parabola politica del Primo Ministro Blair. Bocciando le ipotesi che attribuivano un ruolo rilevante al potere di patronage nella composizione della Camera dei Lords, i Comuni non hanno fatto altro che esprimere un’opzione chiaramente antigovernativa.
Il Prof. Giovanni RIZZONI ha ricordato come nel dibattito britannico intorno alla riforma della House of Lords sia emersa l’esigenza che quest’ultima debba rimanere “complementary” ai Comuni ma non debba diventare “complimentary” alla maggioranza governativa: il problema di mantenere l’indipendenza della Camera dei Lords che, come lo scontro con il Primo Ministro Thatcher negli anni Ottanta dimostra, è un valore indubbiamente da preservare.
Il modo per assicurare autorevolezza ed indipendenza alla House of Lords potrebbe essere quella di caratterizzare la seconda Camera come luogo di recepimento delle istanze di integrazione, che superi quella netta contrapposizione politica che si riscontra invece nella Camera dei Comuni, caratterizzata invece da una rappresentanza politica in senso stretto.
E’ qui inevitabile il riferimento al dibattito oggi in corso relativamente ai destini del bicameralismo italiano: il Senato, è questo l’auspicio, dovrebbe diventare oggi un vero e proprio Senato “della Repubblica”, nel senso che quest’ultimo termine ha assunto ai sensi del nuovo articolo 114 della Costituzione.