Firenze, 28 maggio 2007
Seminario di Studi e ricerche parlamentari “Silvano Tosi”
Lunedì 28 maggio 2007, presso la Sala Rossa di Palazzo Ruspoli a Firenze, in occasione della cerimonia di chiusura dell’edizione 2007 del Seminario di studi e ricerche parlamentari “Silvano Tosi”, si è svolta una tavola rotonda incentrata sul tema della riforma elettorale.
Ha aperto i lavori il prof. Paolo Caretti, delineando il quadro di contesto. La svolta del 1993, nel passaggio da un sistema proporzionale ad un sistema misto prevalentemente maggioritario, perseguiva tre finalità: aumentare il potere di decisione del singolo elettore; semplificare il quadro politico-partitico; assicurare una maggiore governabilità. Nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto, con l’eccezione della durata degli esecutivi; cosa ben diversa dalla governabilità, che dovrebbe essere misurata in termini di produttività di riforme e politiche pubbliche efficaci. Nel 2005, l’introduzione di una legge proporzionale favorevole alle coalizioni ha dato esiti ulteriormente contrari alle intenzioni del 1993, provocando come conseguenze la scomparsa della capacità di scelta dell’elettore e la mancata semplificazione del quadro politico, cui si aggiunge il guasto di premi di maggioranza diversi, nazionale alla Camera, regionale al Senato, per i due rami del Parlamento. Inoltre, ancora una volta non è stata data attuazione alla previsione contenuta nell’art. 51, sulla candidabilità dei soggetti appartenenti ai due sessi. Ad oggi, due paiono essere le prospettive di riforma:
– riformare integralmente la legislazione elettorale, secondo proposte ispirate al modello spagnolo, al sistema tedesco e persino al maggioritario a doppio turno;
– la prospettiva che è stata denominata “minimalista”, che prevede meri interventi correttivi alla legge attuale, attraverso il referendum o una normale iniziativa legislativa.
Caretti, al riguardo, ritiene ipotesi estemporanee e stravaganti sia invocare l’inammissibilità del referendum, sia prospettare un progetto di legge composto da un unico articolo che abroghi l’attuale normativa, comportando la reviviscenza del “Mattarellum”.
In chiusura, Caretti si chiede se sia la legge elettorale lo strumento più idoneo alla semplificazione del quadro partitico, e quali siano gli obiettivi di una buona legge elettorale, individuabili probabilmente nell’equilibrio tra governabilità e rappresentatività.
Il primo dei discussants è il professor Antonio Agosta. Agosta considera esagerate le critiche al “Porcellum”: si tratta, a suo giudizio, non di una legge “iniqua” o “truffaldina”, ma semplicemente di una legge inadeguata a dare evoluzione alla transizione. Non è, secondo Agosta, una legge autenticamente proporzionale, ma piuttosto una legge maggioritaria al cui interno vige la regola proporzionale: con la proporzionale, infatti, molti gruppi politici, non potendo superare la soglia del 4%, sarebbero stati eliminati. E’ una legge che in fondo perpetua i difetti della legge Mattarella, spingendo alle aggregazioni massime, presentando alcune migliorie: ad esempio, la legge misura in modo democratico l’apporto elettorale dato da ciascuna forza politica alla coalizione. In questo senso, si dichiara scettico nei confronti del referendum, che vede foriero di una frammentazione persino maggiore dell’attuale. A questo punto Agosta si pone due interrogativi: se la legge elettorale debba avere il compito di conformare il sistema dei partiti, e quanto meccanismi rigidi di definizione del quadro politico siano produttivi nel contesto attuale. Nel 1993, a seguito della grave crisi di legittimazione dei partiti, si scelse di reagire valorizzando l’individualità e la territorialità; ma non sembra avere funzionato la pretesa di conformare il sistema dei partiti secondo un idealizzato modello bipartitico. Inoltre, il modello bipartitico con norme anti-ribaltone appare rigido e irrealistico: Agosta propone piuttosto sistemi elettorali che incentivino le aggregazioni intermedie rinunciando al bipartitismo democratico. In chiusura, una nota critica è riservata alla riflessione sulla riforma: non si ragiona sulla diagnosi, ma sui ritocchi alla terapia, ed il gruppo di lavoro della Presidenza del Consiglio pare non aver mostrato una sufficiente competenza tecnica.
Il secondo discussant è il prof. Roberto D’Alimonte. Nella sua visione, il dibattito sulla riforma elettorale pecca di astrattezza. L’elemento di contesto centrale della seconda repubblica è senz’altro la frammentazione e la disgregazione della rappresentanza: l’Italia è assieme ad Israele il paese più frammentato tra le democrazie occidentali, dove il Governo con più alto numero di partiti ne conta quattro, mentra in Italia ve n’è il doppio. La priorità dovrebbe dunque essere quella di ricomporre la rappresentanza. La classe politica ha però scelto, nella ricerca di quell’equilibrio di cui parlava Caretti, di insistere, più che sul versante della rappresentanza, su quello della decisione. In questo modo non si è andato a risolvere il problema della frammentazione, lo si è anzi assecondato utilizzando la legittimazione popolare del premier come tecnica di contenimento della frammentazione (a livello locale, ma anche a livello nazionale). In questo senso, se è vera la discrasia tra i modelli di governo sub-nazionali con quello nazionale, individuare la soluzione nell’estensione dei primi al secondo condurrebbe solo all’onnipotenza del premier sul modello del “sindaco d’Italia”.
In questo contesto, D’Alimonte manifesta la sua spiccata preferenza per il doppio turno, meglio se con collegi uninominali, ma anche un doppio turno di lista; peraltro, ritenendolo di irrealizzabile introduzione nell’attuale contesto politico, si concentra sulle ipotesi dei modelli tedesco e spagnolo. Tuttavia, anche in questi casi, le contingenze politiche appaiono delicate: né il sistema tedesco né quello spagnolo hanno il premio di maggioranza. E AN non accetterà mai l’abolizione del premio di maggioranza senza introdurre contestualmente i collegi uninominali, avversati però da Forza Italia, Rifondazione Comunista e Udeur. Inoltre, il sistema tedesco ha una soglia di sbarramento al 5%, mentre il sistema spagnolo ha soglie di sbarramento alte e circoscrizioni piccole: sembra impossibile, con le maggioranze attuali, l’introduzione di tali caratteristiche. Per cui, probabilmente, quando si parla di sistema tedesco e spagnolo, si parla di sistema tedesco italianizzato o di un sistema spagnolo italianizzato, con il rischio di combattere per una riforma che guardi a Madrid o a Berlino senza arrivare né a Madrid né a Berlino. In questo senso, il referendum non è la miglior legge possibile, ma è migliore dell’attuale. Per cui D’Alimonte invita a firmare per il referendum, riservandosi la possibilità di non andare a votare ove il Parlamento dovesse eventualmente approvare una legge migliore. In ogni caso, l’unica condizione per realizzare una vera riforma elettorale e costituzionale sembra essere l’accordo tra i grandi partiti. In chiusura, ed in riferimento all’intervento del prof. Agosta, D’Alimonte sostiene che le regole non devono “formare” il sistema politico, ma creare un ambiente favorevole alla ricomposizione della rappresentanza.
Il terzo discussant è il prof. Carlo Fusaro, secondo cui non esiste sistema elettorale che non possa essere piegato alle convenienze degli attori politici. Pur schierandosi con D’Alimonte a favore del maggioritario a doppio turno, Fusaro ritiene che nell’ipotesi in cui, “magicamente”, venisse introdotto in Italia tale sistema, le forze che si alleassero pretenderebbero, in particolare i partiti minori, l’alleanza dettata già al primo turno con candidature predeterminate, per evitare il conteggio separato dei voti tra primo e secondo turno, rendendo proporzionale ad un turno un maggioritario a due turni. Nel contesto attuale, dunque, non pare si possa fare a meno del premio di maggioranza, perché non sostituibile. Semmai, Fusaro si pone il problema se sia concettualmente e logicamente immaginabile per un costituzionalista che il governo sia legato da identico rapporto fiduciario a due camere elette con leggi elettorali parzialmente diverse, e soprattutto con due diversi premi di maggioranza. Per superare tale difficoltà propone, attraverso un patto costituzionale tra partiti, di giungere all’assegnazione del premio alla sola Camera, introducendo, di fatto, una differenziazione tra le due assemblee e facendo governare il Senato da chi ha conquistato la Camera.
Ora, è chiaro che il punto centrale, ancora una volta, è la frammentazione della rappresentanza. Fusaro non ritiene che l’Italia sia più complessa di altre società, come la Francia o la Spagna, ma che sia stato il sistema di incentivi e disincentivi giuridici che l’abbia resa conveniente. In fondo, per Fusaro la transizione italiana è stata un patto fondato sul trade-off tra l’investitura diretta alla carica monocratica di vertice degli esecutivi in cambio della garanzia della frammentazione. Nessuno può imputare che i sistemi elettorali dal 1993 in poi non abbiano combattuto la frammentazione: non era affatto quello il loro obiettivo. Non è però il caso, precisa Fusaro, di buttare il bambino con l’acqua sporca: l’investitura diretta dell’esecutivo, il sistema dell’alternanza e la legittimazione di tutte le forze politiche sono obiettivi importanti raggiunti. Quello che occorre, oggi, è difendere il bipolarismo portando avanti una strategia antiframmentazione che investa la legge elettorale, la legge di finanziamento ai partiti, la disciplina delle campagne elettorali, i regolamenti parlamentari e la numerosità delle assemblee. Ciò corrisponderebbe, per Fusaro, alle esigenze della società e alle aspettative dei cittadini.
Dopo l’intervento di Fusaro, prende la parola il professor Caretti, insistendo su come la frammentazione sia un dato strutturale dal 1945, e il sistema bipolare, in fondo, non ha mai davvero funzionato. Se si tratta dunque di un dato strutturale, si chiede se il modello bipolare serva realmente alla nostra forma di governo.
Il quarto discussant è il prof. Stefano Merlini. Punto di partenza della sua argomentazione, in dissenso con il prof. Caretti, è che la frammentazione non è una caratteristica storica, né sociologica o antropologica, perché non ve ne sarebbero le ragioni, ma un dato eminentemente politico. Dal 1993, la frammentazione è stata amplificata attraverso leve politiche: la costituzione delle componenti politiche del gruppo misto, una legislazione premiale dei gruppi dal punto di vista finanziario, una legislazione premiale della stampa di partito, una legislazione premiale dei gruppi nella campagna elettorale in regime di par condicio. La frammentazione è dunque un prodotto politico, non un bisogno della società che già nel 1993, e ancora oggi, vuole semplificazione ed è disposta per la governabilità a perdere in rappresentatività. Merlini riafferma tutta l’importanza della legislazione cosiddetta “di contorno”: perché Germania e Spagna sono sistemi proporzionali, ma bipolari e d’alternanza? Ad esempio perché è impossibile costituire gruppi parlamentari che prescindano dal legame diretto con gli elettori: se un parlamentare decide di uscire dal gruppo parlamentare ha lo status di parlamentare isolato, con tutti gli svantaggi che ne conseguono. Riguardo al referendum, Merlini ne apprezza la capacità di dare impulso ad una classe politica che ha grande difficoltà a guardare oltre i proprio interessi particolari e contingenti.
Il quinto discussant è il prof. Giovanni Tarli Barbieri, il quale evidenzia due principali problemi: la frammentazione ed il nanismo partitico. Con riferimento al secondo, si chiede se il referendum aiuti alcuni progetti spontanei di aggregazione partitica, quale è quello del Partito Democratico. Con Merlini, Tarli Barbieri enfatizza l’importanza della legislazione di contorno, anche se ritiene impraticabile meccanismi di “tagliola” nei confronti dei partiti più piccoli, ritenendo invece più praticabili meccanismi premiali ed incentivanti. In questo senso, Tarli Barbieri riserva un giudizio negativo ad alcuni progetti di revisione costituzionale in esame alla Camera: non sembra convincere svincolare il Senato dal rapporto fiduciario lasciando, la seconda camera così com’è con la pienezza di funzioni legislative, così come investire del rapporto fiduciario il Parlamento in seduta comune, lasciando le singole camere sciolte da esso. Con riferimento al referendum, Tarli Barbieri si chiede quale sia il margine per cui si possa dire che un’eventuale legge parlamentare sia idonea a bloccare il referendum. Posto che il referendum è manipolativo, quantomeno nel terzo quesito, quello relativo alle candidature multiple, se l’ufficio centrale non ritenesse nuova l’eventuale legge elettorale dovrebbe sostenere un referendum manipolativo, esponendolo al paradossale rischio d’inammissibilità. Peraltro, della proposta referendaria Tarli Barbieri contesta in primis il premio di maggioranza, assente in qualsiasi democrazia consolidata, che creerebbe una eccessiva rigidità nel rapporto maggioranza-opposizione, e teme lo scioglimento delle camere che esso provocherebbe. Infine, Tarli Barbieri mette in dubbio che la volontà del corpo elettorale sia ancora chiaramente orientata a favore del maggioritario, come nel 1993, posto che il referendum del 1999, che voleva rendere interamente maggioritario il sistema elettorale, non raggiunse il quorum deliberativo sufficiente.
Il primo degli iscritti a parlare è il prof. Dario Nardella, che concentra il suo intervento sul referendum riservandogli un giudizio sostanzialmente negativo. Il relatore non crede infatti che il referendum possa eliminare gli aspetti negativi della attuale legge elettorale poiché non si va a modificare la legislazione cosiddetta di contorno. Inoltre, l’introduzione del premio di maggioranza e la previsione di soglie di sbarramento elevate non saranno elemementi sufficienti per portare alla creazione di maggioranze stabili, durature e coese. Nardella crede infatti che il premio di maggioranza innescherà una gara tra i partiti all’ultimo voto, gara che porterà alla contrattazione preventiva tra grandi e piccoli partiti: questi ultimi, preoccupati di superare la soglia di sbarramento ed ottenere seggi utili per la costituzione di un gruppo parlamentare, manterranno un potere di “ricatto” non indifferente. L’introduzione di soglie di sbarramento elevate e diversificate tra Camera e Senato sarà quindi vanificata. Terminate le elezioni, ciascun partito potrà tornare a formare il proprio gruppo parlamentare e la frammentazione si riproporrà. Nardella crede dunque che l’utilità del referendum sarà nel dare impulso al Parlamento a predisporre un testo di riforma migliore dell’attuale legge elettorale e della stessa proposta referendaria.
Il secondo degli iscritti a parlare è il dott. Sandro Palanza, il quale, nel ricercare le cause della frammentazione italiana, sostiene che vi sia stata un’eccessiva colpevolizzazione della classe politica e della sua presunta inadeguatezza. Palanza ritiene, al contrario, che il nostro sistema istituzionale sia molto più “robusto” di quanto si è soliti pensare e che negli ultimi 60 anni si è potuto assistere ad un vero e proprio miracolo costituzionale italiano, un miracolo che ha permesso al nostro paese di resistere a prove durissime che pochi paesi hanno sperimentato. Palanza ricorda infatti come l’Italia sia contemporaneamente paese di frontiera, la frontiera d’Europa, e paese in cui convivono Stato e Chiesa. Un paese afflitto dal fenomeno mafioso, dalla criminalità organizzata, dal separatismo nelle isole e da quello tra Nord e Sud. E tali fenomeni permeano a tal punto la società italiana che qualsiasi organizzazione del consenso, in Italia, passa attraverso il rafforzamento di elementi quali la clientela o l’ideologia organizzata e sviluppata al massimo delle sue potenzialità. Qualsiasi fenomeno sociale, in Italia, è trasferito e affidato per la sua risoluzione, al sistema politico. Alla luce di queste considerazioni, Palanza ritiene che il rendimento del sistema politico-istituzionale italiano non debba essere sottovalutato e che sia, perciò, necessario riequilibrare il fattore di colpevolizzazione. La frammentazione, in sostanza, non sarebbe il risultato di processi artificiosi innescati dai nostri partiti politici, ma un elemento di fondo della società italiana e negare tale peculiarità significherebbe svalutare tutta la nostra storia ed il percorso compiuto. Palanza ritiene, in conclusione, che la formazione di due grandi coalizioni e la conseguente affermazione di un sistema bipolare in Italia siano fenomeni positivi che andrebbero valorizzati e favoriti nel loro sviluppo.
Il terzo degli iscritti è il prof. Massimo Morisi il quale, in disaccordo con il dott. Palanza, ritiene che la frammentazione politico-partitica italiana sia il frutto della grande abilità della classe politica di creare divisioni artificiali e non necessarie. Morisi crede che la frammentazione sia, insomma, il frutto di un fenomeno che lui stesso definisce come nuova imprenditorialità politica.
La causa stessa della frammentazione, ad avviso di MOrisi, costituirà la difficoltà principale ad una sua limitazione. E’ infatti quanto meno difficile pensare che i principali destinatari dei benefici generati da questa frammentazione siano disposti a portare avanti riforme che andrebbero contro i loro stessi interessi.
Morisi ritiene inoltre che la situazione italiana non sia degenerata a livelli insostenibili per la presenza di “binari sottostanti” che hanno permesso comunque la realizzazione di politiche pubbliche a livello locale, svolgendo le funzioni essenziali per la vita dei cittadini. Per tale motivo il sistema politico, ad avviso di Morisi, è in debito con il livello locale e sarà quest’ultimo, probabilmente, il punto di partenza per ridonare una reale capacità rappresentativa al sistema partitico.
Prende la parola Maurizio Bianconi, capogruppo AN in regione Toscana. Bianconi ritiene la frammentazione ineludibile in Italia, persino nell’ipotesi di eventuali partiti unici, a causa di interessi segmentati non più tenuti insieme da vincoli ideologici. Non si dice soddisfatto del referendum, perché non ritiene che possa essere una legge elettorale a risolvere la frammentazione. Bianconi sottolinea, piuttosto, la necessità di una regolazione giuridica dei partiti, non solo per garantire la democrazia interna, ma anche per affermare regole di selezione della classe politica. Tanto più importante poiché, a livello locale, dopo l’introduzione dell’elezione diretta del sindaco, il sindaco legittimato dai cittadini è il “re” del governo ed il destrutturatore del Consiglio comunale.
Interviene poi il prof. Gianclaudio De Cesare, soffermandosi sulla natura della legge 270/2005 che, pensata per favorire la frammentazione, soprattutto quella tradizionale dei partiti del centrosinistra, ha causato la brusca interruzione di un lento processo verso una forma di bipolarismo. Il sistema, infatti, secondo De Cesare, stava tendendo verso una configurazione stabile non tanto del bipolarismo, quanto delle coalizioni. E paradossalmente, la legge 270/2005 ha comportato il primo riconoscimento giuridico delle coalizioni (nominate in ben tre occasioni: “sbarramento alle coalizioni” , “premio di coalizione” , “capo della coalizione”) proprio mentre tentava di distruggere in sistema di coalizione. Per questi motivi, De Cesare afferma l’importanza di studiare la frammentazione dei partiti nell’ottica del regime di coalizione, e di un’attuale sistema politico fondato sulla lotta tra coalizioni e leader che si confrontano sui media.
Ultima degli iscritti a parlare, la professoressa Maria Cristina Grisolia. La Grisolia, pur ammettendo che il referendum possa essere migliorativo dell’attuale legge, ritiene che il corpo elettorale non debba aderire ad un’ipotesi minimalista, e propugna un referendum che semplicemente abroghi l’attuale legge per far rivivere la precedente normativa, che comunque rispondeva a logiche maggioritarie. In dialetica con il professor Tarli, la Grisolia nega che l’esito del referendum del 1999, quello della mancata ulteriore estensione del sistema maggioritario, valga a contraddire il referendum del 1993.
Il convegno si conclude con telegrafiche annotazioni conclusive di alcuni tra i discussants.
Il prof. Agosta si propone di dare sì continuità al bipolarismo, ma non a questo bipolarismo. Agosta auspicherebbe un bipolarismo coerente ed un bipartitismo tendenziale, che non mortifichino il pluralismo. In questo senso, sarebbe necessaria un’opposta ripartizione dei seggi rispetto alla legge Calderoli: non a livello nazionale, ma a livello circoscrizionale. L’obiettivo, dunque, non è “segare” i partiti piccoli, ma semmai premiare gradualmente la crescita dei partiti. Il problema, per Agosta, è forse il retropensiero nei confronti del sistema proporzionale: in realtà, il sistema proporzionale non a livello nazionale ma a livello circoscrizionale senza recupero dei resti avrebbe prodotto, ad esempio, nelle elezioni del 1976, che quel 73% di voti dei maggiori partiti conteggiati si sarebbero tramutati nell’84% dei seggi. In questo senso, non ha alcun senso sostenere che il sistema proporzionale fosse inefficace: era invece efficacissimo per gli obiettivi che si proponeva, e cioè depotenziare l’alternativa PCI e dare spazio e visibilità ai partiti intermedi.
Il prof. Merlini si limita a ribadire che una riforma elettorale che sia desiderabile dovrebbe consolidare l’esperienza delle coalizioni e incrementare il rapporto di responsabilità con il corpo elettorale.
Il prof. Fusaro ribadisce l’ammissibilità di un referendum di mera abrogazione della legge 270/2005, ma non la sua opportunità.