I regolamenti parlamentari nei momenti di “svolta” della storia costituzionale italiana – Resoconto convegno

10.12.2007

Venerdì 30 novembre 2007

Il 30 novembre ha avuto luogo presso la sala Igea dell’Istituto della Enciclopedia Italiana il convegno organizzato dal Centro Studi sul Parlamento della Luiss Guido Carli e dal Dottorato di ricerca in Diritto costituzionale e Diritto costituzionale europeo dell’Università degli studi di Teramo, dal titolo “I regolamenti parlamentari nei momenti di “svolta” della storia costituzionale italiana”.
La giornata di studio è stata articolata in tre sessioni ed una tavola rotonda conclusiva.
La prima sessione, presieduta dal prof. Cesare Pinelli, ha avuto come oggetto l’evoluzione dei regolamenti parlamentari dal 1848 al periodo fascista.
Il presidente, dopo aver sottolineato l’unicità dell’iniziativa, ha esordito con un riferimento a Massimo Severo Giannini che, in uno scritto del 1961, ha proposto una periodizzazione dei rapporti tra Parlamento e amministrazione in quattro fasi: la fase oligarchica, fino al suffragio universale maschile nel 1912; la seconda fase, fino all’avvento del fascismo; la terza, comprendente l’epoca fascista; la quarta, relativa al periodo repubblicano. Tra una e l’altra di queste fasi non si possono ravvisare cesure nette, quanto piuttosto svolte accompagnate da momenti di continuità, persino nel recupero del regolamento prefascista in Assemblea Costituente. Richiamandosi ancora al pensiero di Giannini, il prof. Pinelli ha evidenziato come, contrariamente alla vulgata storiografica dell’epoca, l’evoluzione istituzionale, e segnatamente quella parlamentare, abbia spesso condizionato le vicende politiche.
Il prof. Romano Ferrari Zumbini ha proposto una lettura “a mosaico” dell’ordinamento giuridico nel periodo statutario, da ricondurre al carattere flessibile dello Statuto albertino. Quest’ultimo, infatti, rientrava nella numerazione della legislazione ordinaria ed era ad essa pariordinato. Allo Statuto si può attribuire un carattere “mobile”, che si esplica in tre profili: la flessibilità, ossia l’idoneità ad essere innovato con legge ordinaria (revisione implicita); l’elasticità, vale a dire la suscettibilità del testo di essere modificato in via interpretativa; la duttilità, ossia la capacità di adeguamento ai cambiamenti sociali.
In questo contesto si iscrive la malleabilità dei regolamenti parlamentari, pur dovendosi distinguere gli aspetti peculiari dei regolamenti delle due Camere: la sommarietà di quello del Senato e la creatività ed espansibilità di quello della Camera.
La malleabilità dei regolamenti, accanto alla mobilità della Costituzione, conferisce all’ordinamento giuridico una certa spontaneità, un’attitudine ad introiettare il nuovo, limitata solo dal sistema di valori condivisi. Ciò va debitamente distinto dalla prassi che si cristallizza all’interno di un corpo normativo esistente, sovente colmando delle lacune. Un caso di spontaneità costituzionale è rappresentato dalle conseguenze sull’ordinamento giuridico dell’opera di Filippo Bettini, avvocato del libero foro che, a metà del Diciannovesimo secolo, iniziò a pubblicare la giurisprudenza in maniera sistematica nella rivista “Giurisprudenza degli Stati Sardi”. Altri esempi di spontaneità nell’ordinamento hanno riguardato i regolamenti parlamentari, il cui contenuto era limitato alla disciplina del procedimento legislativo sul modello franco-belga. È stato, quindi, possibile procedere a successivi “innesti” su questo tronco originario con i primi ricorsi alle procedure del decreto legislativo e del decreto-legge, avvenute, rispettivamente, nel 1866 e nel 1867, e con l’introduzione del voto di sfiducia e degli atti di sindacato ispettivo.
Il relatore ha concluso il suo intervento sollevando la questione ancora attuale della tensione tra la spontaneità, con il suo portato di modernità, e la rigidità della gerarchia delle fonti che mal si adatta alla “società liquida” postmoderna di cui parla Bauman.
Il prof. Luigi Lacchè, nel ripercorrere l’evoluzione dei regolamenti dalla riforma Bonghi al testo del 1900, ha indicato tre chiavi di lettura: a) il rapporto tra il fatto ed il diritto ed il ruolo dei regolamenti parlamentari come luogo di incubazione e sperimentazione; b) la contrapposizione tra i diritti della maggioranza e il diritto di tribuna delle opposizioni; c) l’emergere della dimensione collettiva del dibattito politico.
Nel 1886 fu istituita la Commissione permanente per il regolamento, presieduta dall’onorevole Ruggero Bonghi, in seno alla quale prevalse l’ipotesi di apportare modifiche significative al testo regolamentare della Camera, senza giungere, tuttavia, ad una riforma organica. Tra le principali novità introdotte si segnalano i cambiamenti relativi all’ordine dei lavori, ai diritti d’interpellanza e di interrogazione, alle procedure di discussione e all’iter legislativo, con la reintroduzione del sistema delle tre letture, in aggiunta a quello degli uffici.
Nella vigenza di tali regolamenti il Parlamento si confrontò con il problema dell’ostruzionismo durante la crisi di fine secolo. Nel 1899 Pelloux propose una serie di dispositivi di controllo dell’ordine pubblico limitativi delle libertà individuali. Il loro cammino parlamentare attraverso le tre letture risultò ostacolato dalle opposizioni, allargate alla sinistra costituzionale. Per far fronte a questa emergenza Sonnino propose, nella Commissione per il regolamento, l’introduzione del meccanismo della “ghigliottina”. L’onorevole Sacchi, esprimendo le posizioni della minoranza, contestò l’applicabilità dell’istituto ai provvedimenti in discussione. La vittoria parlamentare degli ostruzionisti spinse il governo a ricorrere al decreto-legge per ottenere l’entrata in vigore dei provvedimenti in questione. Anche questo tentativo, tuttavia, si rivelò fallimentare per l’intervento della Terza Sezione della Cassazione che declassò il decreto legge a disegno di legge, decaduto, poi, in seguito alla fine della sessione. La maggioranza di governo, costretta allo scioglimento della Camera, uscì fortemente ridimensionata dalle elezioni del 1900, che segnarono un deciso avanzamento delle forze progressiste. La Corona affidò, quindi, a Giuseppe Saracco l’incarico di formare il nuovo governo.
Su iniziativa di Tommaso Villa, Presidente della Camera, fu costituita una commissione al fine di predisporre un nuovo regolamento, da lui stesso presieduta, in virtù della sua reputazione super partes. Il nuovo regolamento fu accolto come un momento di svolta, tranne che da Sidney Sonnino che denunciò la carenza di strumenti antiostruzionistici. Le attribuzioni del Presidente d’Assemblea furono notevolmente rafforzate consentendogli di governare in maniera più efficace la Camera, sebbene la proposta di conferirgli poteri discrezionali a maggioranza dei due terzi dei componenti fosse stata respinta. Questo testo regolamentare ha segnato il passaggio da una fase di duttile provvisorietà ad un assetto ben definito.
Il relatore ha concluso il suo intervento con un cenno al dibattito dottrinale sulla natura giuridica dei regolamenti parlamentari, all’epoca non ancora considerati come norme. Nelle parole di Santi Romano questi rappresentavano, piuttosto, un luogo di sperimentazione per il diritto.
Il prof. Giovanni Orsina ha esordito ricordando che le riforme regolamentari degli anni Venti hanno rappresentato una vicenda seminale per la storia politico-costituzionale italiana, i cui effetti si sono riverberati persino nel primo ventennio repubblicano.
Il relatore ha indicato, quindi, le principali caratteristiche e criticità del sistema politico liberale. In primo luogo, la difficoltà di ricomporre il pluralismo politico e sociale all’interno di un indirizzo governativo unitario.
In secondo luogo, la peculiarità del governo “dualistico” liberale, soggetto ad una doppia sanzione politica: quella del Re che nominava il vertice dell’esecutivo e quella della Camera in ragione del rapporto fiduciario. In una società oligarchica e in presenza di un “modello dualistico”, le pressioni elettorali da parte dei leader politici (che raggiunsero l’acme nelle elezioni del 1913) si dimostravano strumentali ad agevolare la necessaria conciliazione ex post tra la volontà collettiva e quella del sovrano.
In terzo luogo, la rappresentanza, così come praticata dai liberali, si mostrava contemporaneamente unitaria e frammentata: unitaria, in quanto edificata sulla condivisione dei valori risorgimentali; frammentata, invece, a causa del suo carattere personalistico e localistico. Fu proprio l’assenza iniziale di clivage ideologici, tuttavia, a garantire l’unitarietà dell’indirizzo di governo. Infine, a tutti questi elementi è da ricondurre il rifiuto di una concezione del partito politico quale strumento di rappresentanza solo di una parte della società. Su questa posizione si allineò anche Vittorio Emanuele Orlando che, infatti, era solito parlare del partito strutturato come di un sindacato.
Il consolidamento del partito politico di massa fu agevolato dall’introduzione del sistema elettorale proporzionale con scrutinio di lista nel 1919. Fece seguito la riforma regolamentare del 1920, per mezzo della quale furono costituite le strutture politiche parlamentari di base: i gruppi. Questi ultimi, che avevano il compito di designare in modo proporzionale i propri rappresentanti nelle commissioni, dovevano essere composti da almeno venti deputati o, se corrispondenti ad un partito organizzato nel paese, anche da un numero inferiore.
Mutato il paradigma di riferimento, però, i liberali, che non potevano contare su una corrispondenza biunivoca tra lista e gruppo, continuarono a ragionare come se fosse possibile formare un governo di gabinetto. La loro miopia rispetto alla portata innovatrice della riforma fu una delle cause dell’agonia dello Stato liberale. La crisi del governo Bonomi e il veto dei popolari al ritorno di Giolitti al potere aprirono le porte alla formazione di un tertium genus. Durante il governo fascista, l’unità del partito assicurava l’unitarietà dell’indirizzo governativo mentre la società politica aggregava dietro di sé la vecchia società liberale.
Nel corso della prima legislatura repubblicana, quando il partito ormai era diventato l’unica struttura organizzata dello spazio politico, si formarono governi di gabinetto. Il carisma e l’autorevolezza di De Gasperi si sostituirono all’incontrastato dominio di Giolitti nello Stato prefascista e la Democrazia cristiana prese il posto che avevano ricoperto in precedenza i liberali.
La fallita riforma elettorale del 1953, nondimeno, dette prova dell’eccezionalità dell’esperienza del centrismo. I partiti politici, anche quello maggioritario, erano rissosi al loro interno: tra il 1948 e il 1953, al fronte coeso dell’anti-comunismo si contrapponeva l’anti-fascismo quale fattore disgregante. Dopo il 1953, infine, con l’affermarsi dei governi di partito si stentò a recuperare un indirizzo unitario di governo per ragioni esattamente opposte.
Il prof. Eduardo Gianfrancesco, nell’approfondire le dinamiche parlamentari nel periodo fascista, ha rilevato la difficoltà di individuare il momento in cui è stato abbandonato il governo rappresentativo. La costruzione dello Stato totalitario per molti aspetti avvenne in maniera graduale, ad eccezione del processo di esautoramento dei poteri della Camera dei Deputati. Lo smantellamento del principio democratico, inteso nel senso kelseniano di garantire i diritti sia della maggioranza che della minoranza, si verificò con un uso esorbitante degli strumenti che lo stesso principio democratico metteva nelle mani della maggioranza per assicurare la governabilità. Un esempio di ciò è rappresentato dalla “legge Acerbo”, che attribuiva i due terzi dei seggi alla lista che raggiungeva il venticinque per cento dei voti. Tale legge fu approvata nel 1923, dopo la bocciatura di un emendamento presentato dal deputato Gronchi che ne limitava la portata prevedendo che il premio di maggioranza fosse assegnato solo al raggiungimento del quaranta per cento dei voti.
Dal 1925 prese avvio una fase di modifiche al regolamento della Camera tramite l’atipico strumento delle mozioni. Si reintrodusse per questa via, a titolo di esempio, il sistema degli uffici con l’esito di indebolire i partiti in Parlamento.
Il relatore, citando Calamandrei, ha parlato di “doppio gioco” del regime, per dire come questo agisse contemporaneamente su due piani: quello istituzionale e quello “criminale”. Per quest’ultimo profilo, un episodio saliente è rappresentato dall’ostacolo fisico frapposto al reingresso in Aula dei deputati aventiniani in occasione della commemorazione della morte della regina madre.
Il relatore ha individuato, quindi, tre fasi nel processo di smantellamento del sistema rappresentativo. La prima, tra il 1922 e il 1925, nella quale, pur mantenendosi formalmente il parlamentarismo, furono compressi i diritti delle minoranze: a questo periodo possono essere ricondotti l’eliminazione del potere di autoconvocazione della Camera e l’introduzione del meccanismo antiostruzionistico della “ghigliottina”. La seconda fase, a cavallo tra il 1925 ed il 1926, fu caratterizzata dalla definitiva trasformazione istituzionale attraverso la legge n. 2263 del 1925, che consegnò l’ordine del giorno della Camera nelle mani del capo del governo, e la legge n. 100 del 1926, che ampliò a dismisura il potere normativo dell’esecutivo. La terza fase prese avvio il 9 novembre 1926, quando vennero espulsi i deputati aventiniani e comunisti dalla Camera con un atto al di fuori della legalità regolamentare e statutaria.
Nonostante la forte opposizione del fascismo delle origini alla Camera Alta, inveratasi anche in alcune proposte di soppressione della stessa, il fascismo-regime scelse di mantenerne le prerogative pur non rinunciando ad una sua fascistizzazione. Ciò avvenne ad opera di quattro soggetti, Mussolini, la Corona, il Senato stesso, il Partito, e seguendo tre percorsi contestuali, le “infornate”, le modifiche regolamentari e la costituzione di un gruppo di pressione interno (l’Unione Nazionale Fascista del Senato). Va rilevato, perciò, come la fascistizzazione delle due Camere ebbe luogo secondo metodi e fasi differenziati e ciò comportò l’esistenza di rivalità tra i due rami del Parlamento.

La seconda sessione è stata presieduta dal prof. Paolo Caretti, che ha segnalato il recente interesse dei costituzionalisti rispetto ai regolamenti parlamentari. Guardando all’evoluzione del diritto parlamentare, si possono cogliere tre dati: a) La natura peculiare della fonte regolamentare, in quanto produttiva di regole formali solo dopo una loro sperimentazione applicativa nella prassi; b) il ruolo dei regolamenti come regole funzionali alla forma di governo, che si è palesato in più occasioni, tra le quali la riforma del 1971 in un sistema di democrazia bloccata o protetta; c) la capacità dei regolamenti parlamentari di conciliare l’assetto formale e la dialettica democratica, in condizioni di equilibrio tra Governo e Parlamento. Quest’ultimo costituisce un presupposto imprescindibile, come dimostrano gli eventi che hanno seguito la novella regolamentare del 1997, ritagliata su un sistema maggioritario che, tuttavia, è rimasto incompiuto.
Il Prof. Francesco Saverio Bertolini ha affrontato la questione dell’adozione del regolamento della Camera liberale da parte dell’Assemblea Costituente. Questa scelta fu operata in un primo momento dall’esecutivo che, all’art. 4 del decreto legislativo luogotenenziale n. 98 del 1946, stabilì che l’Assemblea fosse dotata di tale regolamento, in via transitoria, sino all’eventuale approvazione di uno nuovo, che sarebbe avvenuta dopo la nomina della Giunta designata allo scopo dal Presidente. La Costituente si limitò, tuttavia, ad aggiungere tre articoli al regolamento della Camera in vigore fino all’ottobre del 1922.
Tale opzione era già stata sperimentata dalla Consulta Nazionale, che fu istituita con il decreto legislativo luogotenenziale n. 539 del 1945. Questo prevedeva l’applicazione del regolamento della Camera prefascista, pur lasciando un margine all’autoregolazione che l’Assemblea sfruttò, in particolare, riguardo alle modalità di voto.
Il relatore ha segnalato, quindi, come la mancanza di verbali della Giunta per il regolamento dell’Assemblea Costituente renda pressoché impossibile comprendere le ragioni della sua scelta. Si possono, ad ogni modo, indicare due possibili interpretazioni: la prima si rifà alla lettura parentetica del fascismo e, quindi, all’esigenza di recuperare la tradizione liberale; l’altra, invece, si fonda sull’adeguatezza dell’impianto di fondo del regolamento del 1922 rispetto alle esigenze delle forze politiche presenti in seno all’Assemblea Costituente.
Rilevanti sono le modifiche che furono introdotte nei tre articoli aggiuntivi. Una di queste fu la sostituzione, limitatamente alla redazione del testo costituzionale, della struttura per commissioni, ritenuta non adeguata a questo scopo, con la “Commissione dei 75”. Diverse proposte erano state avanzate in merito alla sua composizione, tra le quali prevalse quella della designazione dei membri da parte del Presidente, dando per scontata l’applicazione del criterio di proporzionalità.
Un’altra significativa modifica riguardò la creazione di quattro commissioni permanenti che partecipavano all’esercizio del potere legislativo conferito al Governo dal decreto n. 98, pur restando oggetto di dibattito l’ampiezza della delega.
Altre proposte di modifica regolamentare, finalizzate ad assicurare maggiore efficienza ai lavori della Costituente, tra le quali il contingentamento dei tempi e dei relatori e la limitazione del voto nominale e segreto, furono respinte per pochi voti.
Il dibattito che si sviluppò su questi temi ha costituito la prima tappa del cammino del Parlamento, caratterizzato dalla dialettica tra libero mandato parlamentare e mandato partitico.
Il prof. Nicola Lupo ha analizzato le scelte compiute dal primo Parlamento repubblicano in fatto di regolamento. In apertura ha citato criticamente Maranini e la sua lettura della prima legislatura repubblicana come riconducibile al modello britannico, in contrapposizione al periodo successivo affine piuttosto al modello della Quarta Repubblica francese. Alle spinte maggioritarie si contrapposero, nondimeno, spinte in direzioni opposte sia a livello politico che istituzionale. A sostegno di ciò si possono addurre il recupero del regolamento della Camera prefascista e il limitato ricorso alla delegazione legislativa a fronte di un’abbondante produzione legislativa in commissione.
Inoltre, la presunta stabilità dei governi fu messa in discussione dal succedersi di tre rimpasti durante la Prima legislatura e dal fatto che si trattasse sempre di governi di coalizione. Unico elemento di stabilità resta, dunque, la permanenza di De Gasperi al vertice dell’esecutivo. L’incapacità di affermarsi del modello maggioritario è da ascriversi all’assenza di un terreno comune tra le forze politiche. L’esito, come individuato da Scoppola, è quello di un sistema di natura consociativo che funzionerà per un certo tratto in maniera simile a un sistema di alternanza, ma senza la possibilità dell’alternanza stessa. Anche a livello parlamentare non si affermò un modello maggioritario: la conventio ad excludendum spinse a lasciare indeterminate le scelte sulla vita parlamentare, così come era accaduto in Assemblea Costituente a proposito della forma di governo.
Un tentativo di invertire questa tendenza, in favore del modello maggioritario, si ebbe nel 1953 con la “legge truffa”. Questa era stata concepita come un “correttore istituzionale” diretto a sottrarre il governo di coalizione al ricatto dei partiti. La debolezza del governo in Parlamento e la sottovalutazione delle questioni regolamentari indusse, però, De Gasperi a ricorrere a delle forzature procedurali che gli si ritorsero contro nel dibattito politico.
Quanto all’adozione dei propri regolamenti, le due Camere seguirono cammini differenti. La Camera dei Deputati applicò in via implicita, fin dalla prima seduta, il regolamento del 1900 con le modifiche apportate fino al 1922, prescindendo completamente dall’art. 64 Cost. Con la sola eccezione di limitate modifiche apportate durante la quarta seduta, si dovette attendere il novembre del 1949 per il coordinamento del testo regolamentare con quello costituzionale. In particolare, furono soppresse le norme che prevedevano l’articolazione in uffici, furono apportate modifiche formali e furono recepite le previsioni costituzionali riguardanti il funzionamento delle Camere. Il passaggio di queste modifiche in Aula non fu ritenuto necessario ma solo opportuno, ragione per cui non si procedette a deliberazione. Un dibattito si aprì, invece, in relazione alla soppressione delle sessioni parlamentari e, di conseguenza, alla durata dell’incarico presidenziale: il presidente Gronchi riuscì a far prevalere il principio della durata della Presidenza per l’arco della legislatura.
Il Senato adottò anch’esso in prima battuta il regolamento della Camera prefascista, ma ben presto dedicò dieci sedute, tra il 3 e il 18 giugno del 1948, alla redazione di un nuovo regolamento, che fu approvato quasi all’unanimità. Tra le innovazioni si può segnalare, quanto alle modalità di votazione, la prevalenza del voto palese con la possibilità di richiesta del voto segreto. A proposito dell’approvazione dei regolamenti, il regolamento del Senato, a differenza di quello della Camera, forniva un’interpretazione assai rigorosa dell’art. 64 Cost.
L’intervento si è concluso con il richiamo a due opposte interpretazioni dottrinali circa la scelta “continuista” delle Camere: quella di Ungari che considera proficuo il metodo dei “cauti e progressivi innesti sul tronco originario” dei regolamenti del 1900, e quella di Manzella, che critica il recupero di un regolamento ispirato ad una visione atomistica e penalizzante per i gruppi.
Il prof. Carlo Chimenti ha trattato della modifica regolamentare del 1971. Ha avviato la sua relazione affermando di condividere la posizione del prof. Caretti, che considera quella riforma uno strumento di superamento della democrazia bloccata.
Il relatore ha concentrato, poi, la sua attenzione sul rapporto tra Parlamento e Governo tra la Terza e la Settima legislatura. Nel corso della Terza legislatura, la maggioranza centrista entrò in crisi sia per l’aumento dei voti ottenuti dalle sinistre, sia per la ridotta compattezza della DC. Il rapporto Parlamento- Governo si modificò a causa della perdita di capacità direttiva di quest’ultimo (dovuta anche alla perdurante mancanza di una disciplina della Presidenza del Consiglio dei ministri) e dell’aumento degli spazi decisionali dell’altro. Questo fenomeno si accentuò tra la Quarta e la Sesta legislatura, quando la DC fu costretta ad allargare il governo al PSI, rendendo, così, più fragile l’esecutivo.
Fu la fluidità dei rapporti tra Parlamento e Governo che si determinò in questo periodo a portare alla modifica dei regolamenti del 1971, caldeggiata sia dal PCI che dalle forze di maggioranza. Tale riforma regolamentare fu il primo tentativo di conferire centralità al Parlamento, in ossequio a quanto disponeva la Costituzione in fatto di doppio comando del sistema. Si voleva, così, superare il ruolo ratificatorio che il Parlamento aveva assunto nelle prime due legislature repubblicane. Tra le modifiche più rilevanti vi era la valorizzazione delle commissioni per le procedure non legislative, attinenti alle funzioni conoscitiva e di indirizzo politico, che segnava il passaggio dal “Parlamento in Assemblea” al “Parlamento in commissione”.
L’indecifrabilità del rapporto tra gli organi esecutivo e legislativo raggiunse l’apice in questa fase, tanto che i socialisti, conseguito l’obiettivo di entrare nel Governo, realizzarono che la capacità decisionale di quest’ultimo risultava fortemente limitata dalla debolezza della maggioranza in Parlamento e dalla mancata coesione al suo interno. La riforma regolamentare avrebbe potuto essere uno strumento adeguato a superare questa fase di evanescenza del governo ed a scongiurare il velleitarismo del Parlamento che si era manifestato, in particolare, dopo le elezioni del 1976. Allora, infatti, il legislatore era in grado di rielaborare rilevanti testi legislativi di iniziativa governativa tra i quali la riforma sanitaria e la disciplina delle locazioni.
Il relatore ha proposto una lettura della novella regolamentare alla luce dei risultati raggiunti. Ha constatato come questi ultimi fossero distanti dal testo, ma ancor più dagli originali intenti riformatori. Se difficilmente si può negare l’attribuzione di centralità al Parlamento, qualora si intendesse quest’ultima come capacità decisionale, occorre riconoscere l’esistenza di alcune contraddizioni: l’assenza di strumenti antiostruzionistici e la parificazione dei poteri procedurali dei gruppi indipendentemente dalla loro consistenza, aggravata dalla possibilità di formare gruppi in deroga.
Il revival parlamentare della Settima legislatura, oltre che ai nuovi regolamenti, è da imputare prevalentemente alla modifica del quadro politico-partitico: l’avanzata del PCI e la prevalenza della linea dorotea all’interno della DC. Più che di una scelta di politica istituzionale, in questo caso, si può parlare di una soluzione contingente, dettata dall’esigenza di escludere i comunisti dal Governo lasciando loro ampio spazio di manovra in Parlamento. Una dimostrazione di ciò furono l’attribuzione di incarichi di alto rilievo ad esponenti del PCI e l’assenza di interventi limitativi della velleità parlamentare.
Dopo le relazioni previste, vi sono stati due interventi. Il primo da parte del prof. Guido Rivosecchi, che ha esposto una lettura della novella regolamentare del 1971. Ha cominciato con un cenno alla dottrina, indubbiamente maggioritaria, che interpreta l’approvazione di tali modifiche con una maggioranza molto ampia come il preludio del consociativismo successivo. La stessa dottrina giudica i regolamenti del 1971 deficitari di procedure decisionali maggioritarie, in favore di principi unanimistici. Secondo Rivosecchi, invece, la razionalizzazione raggiunta con le modifiche dei regolamenti apportate nel 1971 costituiva il massimo risultato raggiungibile in quel contesto. A sostegno di questa affermazione si possono addurre almeno tre considerazioni: a) la genesi della novella regolamentare era legata alla crisi della fine degli anni Sessanta che aveva indotto ad una riflessione molto inclusiva; b) le riforme furono apportate in stretto coordinamento tra Camera e Senato, seppur con esiti diversi; c) rispetto ai regolamenti previgenti, la valutazione non può che essere positiva per quel che riguarda la valorizzazione dei gruppi parlamentari, la formalizzazione dell’ingresso del Governo nella programmazione dei lavori, la valorizzazione delle strutture conoscitive e, infine, la presa in considerazione del fattore tempo anche se ancora non in modo risolutivo.
E’ quindi intervenuto il prof. Leopoldo Elia il quale, richiamandosi alla relazione del prof. Lupo, ha confermato l’accostamento della Prima legislatura repubblicana al modello britannico, in ragione dell’indiscussa leadership degasperiana sulla DC, nonostante non ne fosse stato, in quegli anni, segretario: allora, infatti, non si era affermata ancora una dialettica contraria a cumulare le cariche di segretario e di Presidente del Consiglio, come accadrà durante la presidenza Fanfani. Come si evince dal testamento politico del 1954, De Gasperi era consapevole dei limiti dei regolamenti parlamentari, ai quali intendeva porre rimedio all’indomani dell’approvazione della legge maggioritaria. Ha poi segnalato come nel corso della prima legislatura si siano assestati alcuni dei caratteri fondamentali della nostra forma di governo, tra i quali il rafforzamento dell’esecutivo nei confronti del Parlamento con il ricorso alla questione di fiducia: questo strumento non era previsto esplicitamente in Costituzione e la formazione di una consuetudine in tal senso fu osteggiata dal Presidente Gronchi. Quanto, infine, alla natura della fonte regolamentare, si possono distinguere norme opzionali o strumentali da norme più resistenti, che codificano consuetudini costituzionali già formatesi: esempi di quest’ultima categoria sono quelle che disciplinano la questione di fiducia e la mozione di sfiducia individuale.

In apertura della terza sessione il presidente, prof. Leopoldo Elia, ha dato la parola al primo relatore, prof. Vincenzo Lippolis che, presentando l’oggetto della sua relazione, le riforme del regolamento della Camera negli anni Ottanta, ne ha segnalato le cause. La prima consiste nello spazio che il regolamento del 1971 lasciava alla pratica ostruzionistica, nel tacito accordo di non impedire la decisione. Tale modello consociativo era divenuto impraticabile a causa dell’ingresso di una forza politica, come quella dei radicali, estranea all’accordo del 1971.
La seconda ragione è da ascrivere all’esaurirsi della “solidarietà nazionale” e la conseguente formazione del “pentapartito”, che ricollocava il PCI all’opposizione. Esigenza primaria di questa fase politica diventò, quindi, la “governabilità”, ossia la capacità dell’esecutivo di attuare l’indirizzo politico di maggioranza senza scendere a patti con l’opposizione.
Delle numerose proposte di riforme istituzionali presentate tra il 1985 (commissione bicamerale Bozzi) e il 1997 (commissione bicamerale D’Alema), le uniche ad andare in porto furono quelle relative ai regolamenti parlamentari. Da questa ondata di riforme fu investita, in particolare, la Camera il cui ordinamento era più influenzato, rispetto a quello del Senato, dal principio unanimistico. Le riforme degli anni Ottanta marcarono un punto di discontinuità se confrontate con quella del 1971, che aveva codificato un sistema che si era già consolidato precedentemente.
Gli interventi riformatori possono essere analizzati secondo alcuni filoni tematici. Per quanto concerne la programmazione dei lavori, furono ridotti i tempi massimi degli interventi e ne fu impedita la ripetitività; furono stabiliti termini per la presentazione degli emendamenti e fu introdotta la tecnica “del canguro” per la loro votazione; fu adottato il criterio ponderale nell’esercizio dei poteri procedurali attribuiti ai Presidenti dei gruppi; il Presidente fu investito della funzione di arbitraggio. L’orientamento di tale riforma fu confermato da quella del 1990, che riconobbe formalmente un ruolo attivo del Governo nell’indicare le priorità nella programmazione e generalizzò l’applicazione del contingentamento dei tempi, prima riservata alla sessione di bilancio.
A proposito della sessione di bilancio, nel 1983 si recepirono le previsioni della legge n. 468 del 1978 finalizzate a ridurre i tempi di approvazione degli strumenti di finanza pubblica e, nel 1988, della legge n. 362. In particolare, si dovettero adeguare i regolamenti all’introduzione di due nuovi strumenti: la legge finanziaria ed il DPEF.
Quanto alla disciplina dei decreti-legge, il PCI si oppose a rendere troppo agevole la loro conversione. La soluzione fu individuata nell’introduzione, all’inizio degli anni ‘80, di una procedura volta a verificare l’esistenza dei requisiti costituzionali di straordinaria necessità ed urgenza. Il fatto che la votazione su di essi avesse luogo a scrutinio segreto rendeva la conversione in legge dei decreti-legge un passaggio rischioso per il Governo. La riforma del sistema di voto, tuttavia, rese l’istituto tatticamente inutile, oltre che non funzionale a scoraggiare l’abusato ricorso alla decretazione d’urgenza.
Riguardo alla sfiducia individuale, il relatore ne ha evidenziato il carattere ambiguo. Per un verso, è uno strumento che rafforza il Parlamento in quanto gli consente di incidere sulla composizione del Governo; per l’altro, tutela il Governo, trasformando le mozioni di censura, che potevano essere votate a scrutinio segreto, in mozioni di sfiducia. Infatti, laddove nella prassi vi si è fatto ricorso, la maggioranza governativa ha sempre (con la sola eccezione del caso Mancuso, peraltro all’interno di un governo tecnico) fatto quadrato per assicurare la tenuta della compagine governativa.
Venendo alle forme di votazione, nel 1988 venne capovolto il principio di preferenza per il voto segreto a favore di quello palese, modifica che giovò al rafforzamento del controllo del Governo sulla sua maggioranza.
Tra le riforme minori possono essere annoverate l’introduzione del question time, rivelatasi piuttosto fallimentare, la modifica della procedura di esame dei progetti di legge in sede redigente, la riforma della composizione dell’Ufficio di Presidenza al fine di rappresentarvi tutti i gruppi, la ridefinizione delle competenze delle commissioni permanenti e l’introduzione del parere rinforzato.
Il segno complessivo di queste riforme fu il rafforzamento del ruolo del Governo e la più netta distinzione tra maggioranza e opposizione. Il processo, tuttavia, non fu lineare né rapido, quindi tale da modificare di slancio la situazione precedente: alcune delle innovazioni più significative furono realizzate solo alla fine del decennio. Le riforme considerate, comunque, segnano una svolta perché con esse si favoriva il principio della decisione fino ad allora sacrificato a quello della rappresentanza.
Il prof. Damiano Nocilla in apertura ha evidenziato che la riforma del regolamento del Senato del novembre 1988 ha costituito l’esito di una lunga gestazione. Questa, che ha interessato un ampio numero di articoli (aggiungendone sette), fu concepita in un clima più disteso se paragonato alle tensioni che percorrevano la Camera durante il procedimento di riforma dell’art. 49. Tale innovazione è quella che più ha inciso sui regolamenti del 1971, anche se inizialmente non si ebbe chiara la percezione della sua valenza: parte della dottrina l’aveva iscritta nel dominio consociativo, come alcune disposizioni spingono a pensare.
Il principio presidenzialistico, introdotto nel 1971 e ormai fatto proprio anche dalla Camera, fu mantenuto. La figura del Presidente d’Assemblea quale garante dell’attuazione del programma di governo ed allo stesso tempo dei diritti delle opposizioni la rende potenzialmente coerente sia con un impianto pluripartitico che maggioritario. Tale ruolo richiede la capacità da parte di chi lo ricopre di riscuotere la fiducia di tutti gli attori del dibattito politico, indipendentemente dal fatto di essere un esponente della maggioranza o dell’opposizione. Va tuttavia rilevato che a partire dal 1994 la maggioranza ha sempre rivendicato la Presidenza di entrambe le Camere, ad eccezione di una timida apertura del centro-sinistra nel 1996.
La scelta di non mutare la posizione del Presidente faceva parte di una più ampia tendenza a perfezionare l’impianto regolamentare del 1971 senza stravolgerlo, come suggerito dal Presidente Spadolini.
Il relatore ha, dunque, spostato la sua attenzione sulla riforma del sistema di votazione, ritenendo che l’emendamento dell’art. 49 del regolamento della Camera abbia incoraggiato una modifica dell’art. 113 del regolamento del Senato nella stessa direzione. Ha espresso la sua posizione in merito, contraria rispetto a quella del prof. Lippolis: ha sostenuto, infatti, che il ricorso al voto segreto aveva consentito, in più casi, la costituzione di un fronte trasversale su alcuni provvedimenti. Quanto alle modalità di utilizzo di tale regime di votazione, ha citato il prof. Elia il quale aveva raccomandato di distinguere, a questo scopo, tra materie strettamente legate al programma di governo e questioni “di coscienza”. Con altri fini, tra i quali quello di contenere la spesa pubblica, l’art. 120, comma 3, del regolamento elencava i casi in cui era obbligatoria la votazione nominale con scrutinio simultaneo.
Passando ad altro argomento, vale a dire la partecipazione dei parlamentari ai lavori, si segnalano tre modifiche: a) all’art. 1 si introduceva il dovere dei senatori di prendere parte alle sedute dell’Assemblea e delle commissioni; b) l’art. 62 imponeva la previa richiesta di congedo al Presidente in caso di assenza; c) l’art. 108, comma 3, poneva un freno alla possibilità di utilizzare a fini ostruzionistici la richiesta della verifica del numero legale.
Quanto alla sessione di bilancio, si rimetteva al Governo e alla V Commissione il contenuto della manovra. Si consegnava, però, nelle mani del Presidente il temutissimo potere di stralcio e si stabiliva l’inversione dell’ordine di votazione delle disposizioni della finanziaria. Si sarebbe proceduto prima al voto dei saldi, cosicché ogni loro modifica avrebbe comportato l’obbligo di ricorrere ad emendamenti compensativi.
Anche la programmazione dei lavori fu interessata dalla suddetta riforma ed in particolare l’art. 78, comma 5, del regolamento fu modificato nel senso di estendere il meccanismo della ghigliottina ai disegni di legge di conversione dei decreti-legge. Si perseverò nella logica antiostruzionistica, che era stata già assunta dal Senato nel 1971, a causa del duro scontro tra maggioranza e opposizione sulla legge elettorale e la finanza regionali.
Se una critica può essere rivolta a questo processo di riforma, essa riguarda lo statuto dell’opposizione, in ragione di una certa vischiosità dei comportamenti parlamentari e dell’assenza di autolimitazione da parte della maggioranza.
In conclusione, il relatore si è interrogato sul ruolo che i regolamenti così modificati hanno avuto nell’evoluzione in senso maggioritario della forma di governo italiano. Se questi sono l’esito di un Parlamento “ad emiciclo”, va constatato che si possono adattare sia ad un regime assembleare che ad un parlamentarismo razionalizzato.
Il Cons. Alessandro Palanza, affrontando il tema delle riforme regolamentari della Camera tra il 1997 e il 1999, ne ha segnalato il carattere “continuista”. Ciò è spiegato dall’indipendenza che l’istituzione, nella sua organizzazione interna, ha mostrato nei confronti del Governo e della forma di governo. Qualora si vogliano individuare delle svolte, si deve riconoscere che queste sono il frutto di un accumulo strisciante di prassi.
Rispetto agli altri ordinamenti dove i parlamenti, a differenza dei governi, presentano un carattere di stabilità, in Italia il Parlamento è da sempre l’istituzione più flessibile e sensibile. Quest’organo esprime la sua autonomia, seppur all’interno del sistema dei partiti, che non può influenzare, ma dal quale è condizionato.
Sebbene il Parlamento trovi una sua configurazione nella Costituzione, il suo rapporto con i partiti si era già plasmato in Assemblea Costituente.
Nelle prime legislature repubblicane il Parlamento diventò luogo di condivisione, dialogo e convivenza anche grazie alla scelta del PCI di farne il suo bastione. Il regolamento del 1971 intervenne in questa temperie potenziando il sistema dei gruppi. Tale riforma non può definirsi completa, avendo avuto bisogno di un ciclo di “messe a punto”, con esiti alterni.
Se per quanto riguarda la programmazione dei lavori non si raggiunse la piena funzionalità, gli effetti furono molto più incisivi quanto alla capacità di autonomia normativa. Questo aspetto influenzò il rapporto del Parlamento con il Governo, forzato a sua volta dal ricorso di quest’ultimo alla reiterazione dei decreti-legge. Ci furono, tuttavia, delle circostanze nelle quali l’antagonismo tra i due organi costituzionali venne meno a causa degli interventi dei singoli Ministri competenti a sostegno dei “propri” disegni di legge in commissione. Queste occasioni si dimostravano congeniali a creare delle convergenze interistituzionali, nonostante avessero conseguenze nefaste sulla politica di bilancio che mancava di un indirizzo unitario.
Il relatore ha spostato, quindi, la sua attenzione sulla sessione di bilancio, sottolineando come questa abbia rappresentato un momento di confronto e dialogo tra maggioranza e opposizione, pur essendo giunta a regime solo con le circolari interpretative del Presidente Napolitano nel 1992.
Venendo al cuore dell’intervento, una delle ragioni della riforma regolamentare del 1997 è da attribuirsi, in primo luogo, alla paralisi della produzione normativa parlamentare a fronte di un abbondante ricorso alla delega legislativa e alla decretazione d’urgenza. L’istituzione della Commissione bicamerale D’Alema ostacolò, inizialmente, questa spinta riformatrice che nasceva modesta negli intenti, ma risultava funzionale a superare lo squilibrio esistente tra le due Camere. Peraltro, nessuna delle forze politiche mostrava un particolare entusiasmo nel promuovere le modifiche regolamentari e si rivelò determinante l’impegno in questo senso del Presidente Violante. In questo processo innovatore acquistò rilevanza la dialettica tra una maggioranza e un’opposizione stabile che, però, fu compromessa dalla frammentazione dell’opposizione.
Una delle modifiche più significative riguardava il Presidente, la cui posizione veniva rafforzata sul solco dell’esperienza avviata negli anni Ottanta rispetto alle procedure speciali. Il pericolo di alimentare il personalismo e l’arbitrarietà veniva scongiurato dall’esercizio di gran parte dei suoi poteri in seno ad organi collegiali.
In conclusione, il relatore ha esortato a “proteggere” l’istituzione parlamentare come espressione della vita democratica per impedire un rafforzamento di sedi decisionali che non offrono le stesse garanzie di trasparenza.
A questo punto il presidente ha dato la parola al prof. Gianclaudio De Cesare per un intervento. Seguitando a considerare il rapporto tra momenti di continuità e di svolta nella storia dei regolamenti parlamentari, il relatore ha sostenuto l’esistenza di varie fasi. Se il lodo Iotti nel 1981 rappresentò una cesura, ad esso fece seguito una stagione di riforme progressive che vedevano la partecipazione di tutte le forze politiche unite nella cosiddetta “maggioranza regolamentare”. L’intento razionalizzatore, elemento fondante di questo processo, si fece più evidente negli ultimi anni del secolo scorso. Le modifiche regolamentari incisero sulla forma di governo condizionando i rapporti tra le forze politiche e prefigurando un’evoluzione del sistema in senso maggioritario. I regolamenti, dunque, si sono rivelati capaci di modificare anche la Costituzione materiale. Nell’ultimo decennio, tuttavia, assistiamo ad una fase di stallo delle innovazioni di questa fonte.

A fine giornata ha avuto luogo la tavola rotonda dal titolo “Le prospettive dei regolamenti parlamentari”, a cui hanno partecipato il prof. Manzella ed il prof. Elia.
Il prof. Andrea Manzella ha ripercorso le tappe fondamentali dell’evoluzione dei regolamenti parlamentari, assumendo che ogni svolta va considerata con cautela in quanto la densità di conservazione supera sempre il tasso di innovazione.
Il relatore ha distinto l’ambito del diritto parlamentare dal diritto delle assemblee sottolineando come il primo sia una costola del diritto costituzionale e come partecipi dell’intreccio tra norme costituzionali, legge elettorale, legge sui partiti e leggi di organizzazione del governo.
Il momento di massima vitalità del Parlamento italiano si è riscontrato quando ha dovuto adeguarsi alle “grandi leggi”, come nel caso della procedura di bilancio e della legge comunitaria.
Pur non riguardando i regolamenti parlamentari, di grande svolta si può parlare, nel 1948, in virtù delle norme costituzionali sul Parlamento, tra le quali il recepimento dell’istituto di origine fascista delle commissioni in sede legislativa. In seguito, altro momento topico è stata la riforma del 1971, esito dei fatti del 1968, e punto di riferimento per le modifiche successive. Infine, la svolta elettorale del 1994, sebbene modificativa della costituzione materiale, ha visto il Parlamento incapace di reagire come era accaduto, invece, nel 1919.
Quanto alle commissioni, il Parlamento è rimasto inerte di fronte all’uso “maggioritario” delle commissioni d’inchiesta e al progressivo declino delle commissioni in sede legislativa.
Il relatore, infine, ha dedicato alcune riflessioni al dibattito attualmente in corso a proposito delle riforme istituzionali. Sembrerebbe riapparire la logica del “pacchetto”, comprendente la modifica dei regolamenti parlamentari, della legge elettorale e della Costituzione. Se questa triplice riforma andasse a buon fine saremmo certamente di fronte ad una svolta che permetterebbe al Parlamento di uscire dal suo ruolo meramente ratificatorio. In particolare, a proposito della riforma costituzionale, si segnala l’urgenza di ridisegnare la seconda camera e coerentemente razionalizzare il “sistema delle conferenze”.
A conclusione dei lavori, il prof. Leopoldo Elia ha segnalato la mancanza nel nostro ordinamento di una legge che regoli il fenomeno partitico, garantendo l’identità tra la formazione politica eletta e la formazione politica parlamentare. E’ rimasto, infatti, inattuato l’art. 49 Cost. relativamente alla democrazia interna ai partiti politici. Uno strumento funzionale a questo scopo è entrato, invece, nell’ordinamento tedesco tramite la legge elettorale, in particolare in relazione alla clausola di sbarramento ed alla cancellazione dall’albo dei partiti (con la conseguente perdita del diritto al finanziamento pubblico) in caso di mancata presentazione di una lista per due elezioni successive. Nel nostro Paese questo risultato non potrà raggiungersi neppure con le modifiche della legge elettorale proposte nei quesiti referendari, attualmente al vaglio della Corte Costituzionale, con le quali si eliminano le coalizioni, ma senza prevedere una norma volta ad impedire che più partiti si associno in un “listone”.
Il relatore ha poi auspicato che si conferisca centralità all’istruttoria legislativa, non perdendo quel valore costituito dall’attività dei servizi studi dei due rami del Parlamento: questa fase costituisce una condizione imprescindibile per un buon lavoro dell’Aula.
In conclusione, si può attribuire una natura bifronte ai regolamenti parlamentari: per un verso, questi possono subire le ricadute di altre riforme istituzionali; per l’altro, ne possono essere i promotori. Ne sono esempi, rispettivamente, i riflessi provocati da un’eventuale attribuzione alla Corte Costituzionale dell’ultima parola in tema di verifica dei poteri e il ruolo che il regolamento potrebbe giocare nell’assicurare l’identità tra le formazioni politiche elettorali e quelle parlamentari.

Gabriella Angiulli e Cristina Fasone