Venerdì 23 maggio si è svolto presso l’Università di Roma “La Sapienza” un convegno – organizzato dal Prof. Vincenzo Cerulli Irelli nell’ambito del Master in organizzazione e funzionamento della Pubblica Amministrazione e dalla Prof.ssa Rita Perez, coordinatrice del dottorato di ricerca in diritto amministrativo – avente ad oggetto il nuovo “referente normativo” dell’Unione Europea, ossia il Trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007 dai capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri. Il nuovo Trattato, che dovrà essere ratificato da tutti gli Stati membri entro il 1° gennaio del 2009, salvaguarda quasi tutto il contenuto del Trattato costituzionale, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, il quale era deputato a sostituire i diversi Trattati esistenti che a quel momento costituivano la base giuridica dell’Unione Europea. Ma, come è noto, l’iter di ratifica non è andato a buon fine a causa dei “no” espressi nei referendum di Francia e Olanda per l’adozione del Trattato costituzionale. Il Trattato di Lisbona è nato e redatto per sostituire la Costituzione europea bocciata nel 2005, e opera modificando testualmente i vecchi trattati. Il Trattato di riforma modificherà quindi il Trattato sull’Unione europea (TUE) e il Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), quest’ultimo denominato Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Il convegno ha focalizzato la sua attenzione sulle diverse novità apportate dal Trattato di Lisbona, il quale ha definito un nuovo riassetto degli equilibri istituzionali il cui scopo è improntato ad un rafforzamento della partecipazione democratica in Europa al fine di rispondere più da vicino e più efficacemente alle aspettative dei cittadini. L’obiettivo di far sì che l’Europa diventi una struttura più democratica e trasparente si è tradotto principalmente, all’interno del Trattato, nel ruolo rafforzato del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali su cui si è discusso in modo incisivo durante il convegno.
Successivamente al saluto di apertura del convegno dei coordinatori, la parola è stata data al Prof. Jacques Ziller, il quale ha riflettuto sul nuovo assetto istituzionale dopo il Trattato di Lisbona. Il Prof. Ziller ha sottolineato la maggiore chiarezza che risulta dal Trattato nell’ambito della separazione dei poteri, delimitando le funzioni attribuite alle sette istituzioni, di cui per la prima volta si propone un elenco: per effetto dell’inclusione in tale elenco il Consiglio europeo, al quale vengono attribuiti il potere di indirizzo e la funzione organica-istituzionale, e la Banca centrale europea acquisiscono lo status di vere e proprie istituzioni all’interno della compagine europea. Inoltre, ha rilevato l’importanza dell’art. 291, disposizione che individua chiaramente il ruolo delle istituzioni nazionali: parlamenti nazionali, governi e amministrazioni pubbliche, che diventano (anche) istituzioni dell’Unione. Dalla struttura delineatasi, secondo il Professore, deriva una situazione di chiarezza nella definizione dei compiti delle istituzioni, ma che al contempo introduce una certa complessità nel panorama dei meccanismi di raccordo tra istituzioni comunitarie e istituzioni nazionali, che moltiplicano in pratica le sedi decisionali. Infatti, per quanto riguarda le funzioni, viene evidenziata la funzione esecutiva, svolta non più solo dalla Commissione e dal Consiglio, ma ora anche dagli Stati membri, il cui controllo spetta alle Corti e ai Parlamenti; e una funzione giurisdizionale che estende l’ambito di applicazione di tutela della Corte di Giustizia a quasi tutti i settori, ad eccezione della politica estera e sicurezza comune.
In seguito, il Prof. Enzo Cannizzaro ha soffermato la sua attenzione sugli atti normativi comunitari: non c’è un solo modo di formazione degli atti e ancora vi sono tanti tipi di atti, e questo aggiunge complessità tecnica e teorica che riflette la complessità giuridica dell’Unione Europea. Inoltre, si è concentrato sulle funzioni dei Parlamenti nazionali, ispirate alle diverse concezioni adottate. La prima, che vede i parlamenti inseriti nella procedura di formazione della volontà statale, in cui il ruolo dei parlamenti è di complementarietà, indirizzando e controllando i propri governi; una seconda, più importante e innovativa, che vede i parlamenti come una autonoma articolazione alternativa al Parlamento europeo, per effetto della quale l’Unione europea penetra nell’istituzione statale; e un’ultima in cui i parlamenti compaiono come articolazione del parlamentarismo europeo, venendosi a creare un network parlamentare. Il relatore si domanda se è possibile un effettivo ruolo dei Parlamenti nazionali e, a conclusione del suo discorso, auspica che essi siano in grado di veicolare la propria democrazia statuale nei settori in cui il Parlamento europeo è escluso dal processo decisionale.
Insistendo ulteriormente sul ruolo dei parlamenti nazionali, è intervenuto il Prof. Cesare Pinelli, che ha ripreso il discorso sul c.d. deficit di democrazia dell’Unione europea, da lungo tempo vexata quaestio del processo di integrazione europea. Secondo il professore, si assiste, col presente Trattato, ad una svolta nel processo di democratizzazione grazie ad uno stretto legame che si è tentato di costruire tra democraticità e processo di efficienza e che si viene a manifestare espressamente dall’ormai infungibile ruolo dei Parlamenti nazionali rispetto al Parlamento europeo e ai singoli governi. Ricordando che la democrazia poggia essenzialmente sulla rappresentanza politica, il relatore afferma l’insufficienza di tale modello, poiché l’Unione presenta ulteriori esigenze di democraticità. Questa insufficienza di democraticità deriva in particolar modo dall’incapacità delle istituzioni europee di essere responsabili del loro operato. Il Prof. Pinelli richiama una concezione aggiornata della democrazia che si afferma sempre più a livello pluralistico ma che al contempo può trovare qualche ostacolo nei rapporti tra Stati membri e Unione europea; è per questo che le decisioni politiche dovrebbero coordinarsi attraverso un’evoluzione dell’assetto organizzativo dell’Unione europea che determina il passaggio da forme di gestione ed esecuzione indiretta a nuovi modelli di amministrazione diretta e congiunta.
Dopo una breve pausa, il Prof. Paolo De Caterini, coordinatore del dibattito, ha dato la parola al Prof. Gian Luigi Tosato, la cui riflessione si è incentrata sulla delimitazione delle competenze alla luce del Trattato di Lisbona: questione che fa perno sui tre principi, di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità, già dal tempo del Trattato di Maastricht inseriti nel linguaggio istituzionale europeo. Secondo il principio di attribuzione, l’Unione assume le competenze che le vengono esclusivamente attribuite; quelle che non le sono attribuite appartengono agli Stati. Secondo il professore, il principio appena esaminato non è in grado di funzionare bene nell’Unione europea, in quanto potrebbe funzionare in maniera più precisa solo attraverso un catalogo ben definito di attribuzioni. Questo aspetto non è riscontrabile in una struttura complessa come l’Unione, i cui obiettivi sono senza limiti, e nella quale gli interessi di carattere pubblico sono innumerevoli. Diversamente funzionano gli altri due principi, i quali sono invece volti a definire il modo di esercizio delle competenze. Il loro risvolto pratico non è di semplice attuazione, poichè i criteri che devono essere usati per il funzionamento di questi principi sono ancora molto vaghi. Ci si è sempre chiesti chi potesse essere il soggetto titolare del controllo di tali principi. La soluzione a questa domanda è stata offerta proprio nel Trattato di Lisbona, anche se ha in realtà recepito, con qualche emendamento, quanto già studiato all’interno dell’ormai bocciato Trattato costituzionale. In virtù di un’Europa più trasparente e democratica il nuovo Trattato ha voluto precisare un maggior coinvolgimento dei parlamenti nazionali, in particolare grazie ad un nuovo meccanismo (early warning system), volto a verificare che l’Unione intervenga solo quando l’azione a livello europeo risulti più efficace, che si traduce appunto nel controllo del principio di sussidiarietà: controllo che i parlamenti devono svolgere non più in sei settimane bensì otto, a decorrere dal momento in cui un progetto di atto legislativo viene messo a disposizione del parlamento nazionale. Inoltre, il Prof. Tosato ha elogiato l’importanza della COSAC (la Conferenza degli organismi specializzati negli affari comunitari) – alla quale partecipano i rappresentanti delle Commissioni competenti per gli affari comunitari ed europei dei Parlamenti degli Stati membri ed i rappresentanti del Parlamento europeo – come punto di collegamento dei parlamenti nazionali; importanza che si desume dalle pagine del Trattato, tanto da comparire alla stregua di un’ulteriore istituzione dell’Unione avente il compito di sottoporre all’attenzione delle istituzioni europee i contributi che ritiene utili. Inoltre, promuovendo lo scambio di informazioni e buone prassi tra i Parlamenti degli Stati membri e il Parlamento europeo la COSAC si rende partecipe di uno scenario di cooperazione e di concertazione.
Dunque, i meccanismi istituzionali europei, resi complessi dall’intervento appunto dei parlamenti nazionali, secondo l’opinione del prof. Tosato, possono condurre o verso una forma di paralisi o verso una forma di concertazione positiva che mira all’emanazione dei provvedimenti europei. Nell’ipotesi del conflitto che vede i parlamenti nazionali contrari alla sussistenza della sussidiarietà al momento dell’adozione di un atto legislativo, si può verificare una situazione in cui o la procedura legislativa comunitaria si blocca e si ha la paralisi, oppure la procedura non si blocca e il procedimento legislativo sfocia nell’adozione un atto dell’Unione, malgrado l’opposizione dei parlamenti; è in quest’ultimo caso che i parlamenti nazionali hanno la possibilità di ricorrere alla Corte di Giustizia. In questo campo, la Corte gioca un ruolo fondamentale, in cui deve essere capace di rispettare l’identità degli Stati membri, con le loro funzioni e strutture essenziali: un principio, quest’ultimo, inserito nella struttura costituzionale dell’Unione. A conseguenza di ciò, si potrebbe riproporre una ipotesi di conflitto tra Corte di giustiza e Corti costituzionali nazionali, oppure un efficace dialogo tra le Corti, che, a conclusione della sua riflessione, il prof. Tosato ha reputato necessario, a causa di una sempre più forte esigenza di coordinamento dei rapporti tra l’ordinamento comunitario e quello nazionale.
Successivamente ha esposto il proprio pensiero l’onorevole Gianni Pittella, presidente della delegazione italiana nel Gruppo socialista al Parlamento europeo, il quale ha riflettuto, ritornando all’occasione mancata dall’Europa di dotarsi di una vera e propria Costituzione, sul fatto che a pesare in quella fase fu la pressione costante di una sottile e penetrante campagna sostanzialmente anti-europeista da parte di alcuni governi nazionali. Ma quegli anni, tra il 2001 e il 2005, furono nondimeno anni di grandi passi in avanti per l’Europa: basti pensare all’allargamento ai dieci paesi dell’Europa centrale e orientale e alla moneta unica. Per il futuro, Pittella si è detto fiducioso sui risultati che potranno venire dalla nuova architettura istituzionale disegnata dal Trattato di Lisbona (peso maggiore alle assemblee elettive comunitaria e nazionali, superamento del modello di presidenza semestrale a rotazione del Consiglio e personalità giuridica dell’Unione) e da un’Europa i cui Stati membri possano eventualmente viaggiare a velocità diverse. Chiudendo l’intervento l’onorevole ha auspicato che l’Europa realizzi ora un’azione comune per la politica di difesa, per la politica estera, per la sicurezza, per la giustizia, per i diritti fondamentali così come è stato fatto per la moneta unica; e ancora che le forze politiche italiane colgano le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del prossimo anno come un’occasione per mettere al centro dell’agenda politica nazionale le nuove e sempre più importanti sfide europee.
Affronta il dibattito da una visuale diversa il Prof. Mario Pilade Chiti, che ha esaminato il principio del primato dei diritto europeo e i conseguenti effetti che ha prodotto sull’azione amministrativa. Ha illustrato il difficile rapporto tra ordinamento nazionale e comunitario, ricordando le due diverse concezioni, dualista e monista: l’una abbracciata dalla nostra Corte costituzionale nei primi anni del suo “cammino comunitario”, che vede i due sistemi, quello nazionale e quello comunitario, distinti e separati, anche se coordinati tra loro; l’altra, favorita invece dalla Corte di Giustizia, che avanza una visione unitaria tra i due sistemi, secondo la quale l’ordinamento comunitario si integra nell’ordinamento nazionale e prevale in virtù di una sua forza propria.
Spostando l’attenzione su un campo squisitamente amministrativistico, il relatore ha fatto riferimento alle numerose decisioni del Consiglio di Stato che riconoscono in maniera sempre più incisiva le implicazioni che derivano dal sistema monista: i giudici amministrativi infatti affermano un aumento quantitativo delle norme, in conseguenza del quale alle norme nazionali si sommerebbero le norme europee. Dunque, viene a parificarsi la violazione delle disposizioni del diritto comunitario all’inosservanza delle norme di diritto interno. Ma, nello stesso tempo, l’intenzione del diritto europeo, dotato di una forza e valore diversi, è quella di lasciare agli Stati membri una autonomia procedurale e processuale. A tal proposito, con orientamento diverso, il professore ha citato la sentenza (8/7/2007, C-119/05) Lucchini, caso in cui la Corte di giustizia ha avuto modo di misurarsi sul rapporto fra diritto comunitario e principi fondamentali di diritto interno degli Stati membri, proprio nella materia processuale, apparentemente in contraddizione con uno di questi principi, ossia il principio di autorità di cosa giudicata, riconosciuto nel nostro ordinamento dall’art. 2909 c.c. E, ancora, ha fatto riferimento al caso Kempter (12/2/2008, C-206) in cui viene delineato il principio di autotutela amministrativa, ossia viene affermato l’obbligo da parte degli organi amministrativi che hanno adottato l’atto amministrativo in difformità al diritto comunitario di rimuoverne gli effetti in virtù del principio di leale cooperazione, al quale gli organi statali sono tenuti nei confronti degli organi e degli atti comunitari.
Nonostante le norme e i principi del diritto amministrativo europeo influenzino profondamente i diritti amministrativi nazionali e i relativi sistemi di tutela giurisdizionale, il professor Chiti ha concluso rilevando che non si può ancora parlare di una disciplina generale dell’azione amministrativa europea.
Infine, il convegno si è concluso con l’intervento del Prof. Giuseppe Guarino, il quale con tono provocatorio non si è posto nettamente a favore del nuovo Trattato di Lisbona e ha auspicato un atteggiamento riflessivo al momento della sua ratifica. Ha posto l’attenzione sulla struttura istituzionale dell’Unione europea, ricordando che il vero centro propulsore della politica e della legislazione europea non è il Consiglio, non il Parlamento europeo, ma la Commissione, la quale detiene ormai una competenza esclusiva su materie oggigiorno divenute fondamentali e soprattutto materie in cui si scontrano forti interessi nazionali, quali la concorrenza, gli aiuti di Stato, il tetto massimo per la spesa pubblica, in cui la Commissione diventa legislatore di primo grado. Vista l’importanza della Commissione, si è davvero informati – si chiede il prof. Guarino – circa i meccanismi di decisione interni, ma soprattutto sui membri interni della medesima istituzione? Il punto di partenza di questa riflessione sorge dalla teoria di Massimo Severo Giannini riguardante gli ordinamenti sezionali: come esiste un’amministrazione centrale che governa i singoli settori rilevanti del nostro Paese, così, secondo il Prof. Guarino, anche la Commissione deve svolgere il ruolo di amministrazione centrale nell’ambito dell’amministrazione comunitaria, con le relative conseguenze che ne derivano sui rispettivi Stati.