Dai Parlamenti in Europa ai Parlamenti d’Europa. Un cammino tra storia e diritto – Resoconto convegno

22.07.2008

Venerdi 4 luglio si è svolto presso l’Università degli Studi di Teramo un convegno organizzato dall’associazione “Atelier G. G. Floridia”, ricordata dal Prof. Romano Orrù il quale ha dato avvio ai lavori, come occasione di incontro seminariale tra gli studiosi di diritto costituzionale e storia costituzionale. Il Professore ha ricordato il Prof. Floridia che, attento al versante diacronico dell’indagine giuridica, affermava che la dimensione storica costituisce un tassello importante per la formazione del giurista: “Comparison involves history”. Usava ripetere che la contaminazione tra storia e diritto giova sia al costituzionalista che allo storico: è vero che il giurista rimane giurista lo storico rimane storico, ognuno fedele alle proprie specificità, ma nondimeno ciascuno arricchito profondamente dall’incontro con l’altro.

Il Prof. Paolo Ridola ha esaminato i principi parlamentare e democratico negli assetti istituzionali dell’Unione europea. Ha sostenuto che il problema della democrazia dell’Unione europea trascende in larga misura la questione del raccordo tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali, sotto una vasta gamma di profili e di elementi di complessità che portano al di là del tema della parlamentarizzazione. A cominciare da una tematica che ha avuto grandi rilievo nel dibattito europeo, da Maastricht in poi: ossia la tematica della democrazia che si svolge a livello il più possibile vicino ai cittadini dell’Unione europea. Si assiste, in questo modo, ad una dilatazione del raggio di azione del principio democratico e che si muove al di là della prospettiva della parlamentarizzazione. Evidenzia, quindi, i nodi irrisolti del controllo democratico sulla governance economica e sulla Banca centrale europea che chiama in discussione il ruolo del Parlamento europeo ma non solo.

Il principio democratico si dilata inoltre nella reazione nei confronti dell’originaria connotazione produttivistica delle Comunità; vengono, così in rilevo il problema dei diritti sociali nell’ordinamento europeo ed emerge il problema del superamento degli squilibri economico-sociali come condizione della effettività della democrazia. Anche qui siamo, secondo il professore, al di là della parlamentarizzazione; così come la trascendono tutte quelle questioni che gravitano attorno a quella del rendimento democratico di una Europa plurale. Il rafforzamento del principio maggioritario può bastare in una Europa plurale a costruire una democrazia europea?Una Europa plurale non richiede anche, in qualche misura, la preservazione dei diritti di veto come condizione per la protezione di situazioni minoritarie? Largamente trascende il tema della parlamentarizzazione la questione strettamente legata a quella degli equilibri di una Europa plurale, il nesso tra la democrazia e la costruzione federalistica dell’Unione europea.

Vi sono anche altri elementi che complicano il rapporto tra principio democratico e principio parlamentare: ha richiamato il rapporto tra istanze plebiscitarie e istanze rappresentative come problema che si pone tanto più complesso se si guarda anche agli assetti istituzionali degli Stati membri. Come sappiamo, in cinquant’anni lo scenario è cambiato poichè nel 1957 i sei membri fondatori delle Comunità erano tutti Paesi legati alla tradizione parlamentare; in questi anni lo scenario delle forme di governo degli Stati membri è profondamente cambiato, è cresciuta la componente semipresidenziale, sono cresciute le tendenze alla personalizzazione della leadership degli esecutivi. Tutto questo impone di considerare il problema della democrazia dell’Unione europea in uno scenario ampio, in una prospettiva comparatistica e storica.
Il Prof. Ridola ha terminato l’inventario delle questioni di complessità della democrazia citando il ruolo degli interessi e la linea di tensione fra democrazia rappresentativa e democrazia corporata; segue la problematicità degli spazi di democrazia in assetti istituzionali come sono quelli dell’Unione europea affermano l’istanza intergovernamentale.
Tutto questo definisce un quadro di grande complessità all’interno del quale il rapporto tra principio democratico e principio parlamentare è solo un aspetto di un problema più ampio. La questione della parlamentarizzazione dell’Unione europea è da agganciare ad un altro interrogativo che è stato oggetto di dibattito in questi ultimi anni: vi sono canali di democrazia compiuta propri dell’Unione europea o è solo la democrazia degli ordinamenti nazionali che si comunica “a cascata” agli assetti dell’Unione? Questo è il problema centrale della parlamentarizzazione, tenendo presente anche la sentenza Maastricht del Tribunale costituzionale federale tedesco.

Più in generale il problema della democrazia è stretto tra due elementi di tensione: da una parte, le tante manifestazioni di deficit democratico che sono in parte colmate dal rafforzamento del polo parlamentare; dall’altro, le suggestioni di un grande tema ricorrente nella storia del processo di unificazione europea, ossia che la gabbia dello Stato nazionale è costrittiva della compiuta democrazia.
In questo scenario anche se il rapporto tra principio democratico e principio parlamentare è solo un capitolo di un problema più ampio, tuttavia la parlamentarizzazione è stato un passaggio obbligato, la necessaria conquista del processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea. Per quanto riguarda il principio parlamentare, l’esperienza dell’Unione europea ha fatto emergere il modello della Convenzione, caratterizzato dalla centralità della componente rappresentativa. Ma questo modello non è stato il massimo di approssimazione possibile della democrazia?
Il Prof. Ridola ha evidenziato che l’elemento importante della sentenza Maastricht è proprio la centralità del principio parlamentare, ma che si esplicita con un forte limite: l’idea che la democrazia a livello europeo sia essenzialmente mediata dalla democrazia degli Stati membri. Questa prospettiva si è anche traslata al problema della configurazione del Parlamento europeo, sospesa fra rappresentanza politica generale e rappresentanza su base statuale territoriale, configurazione il cui perno della democraticità dell’Unione si trova negli Stati e che dagli Stati si comunica alle istituzioni europee.
Le direttrici che si seguono nella riforma dei Trattati si muovono verso un potenziamento del principio democratico attraverso il principio parlamentare.
Il Prof. Ridola ha fatto un cenno al quadro che emerge dal Trattato di Lisbona, in particolar modo alle disposizioni dei principi democratici in cui si nota l’insistenza della democrazia rappresentativa come fondamento dell’Unione europea. Si assiste ad una più decisa torsione in favore del momento della democrazia rappresentativa: ha richiamato l’art. 10, in cui la rappresentanza diretta dei cittadini dell’Unione europea si esprime attraverso il Parlamento europeo che diviene organo di rappresentanza di una cittadinanza dell’Unione. In definitiva, ci troviamo di fronte ad una divisione netta fra la rappresentanza dei cittadini, espressa dal Parlamento europeo, e la rappresentanza degli Stati, attraverso altri organi e il ruolo di collante manifestato dai partiti politici. Non mancano aperture nella direzione della democrazia partecipativa, secondo l’art. 11, in quanto questi istituti servono a comporre un quadro più vivace del processo politico europeo, in funzione di completamento, nonostante il perno della rappresenatnza si fondi sulla democrazia rappresentativa.
Di grande importanza è l’art. 12 che inserisce clausole di garanzia in favore dei parlamenti nazionali, collocandosi su quella linea già presente nel Trattato costituzionale, ossia quella di costruire il principio parlamentare come un principio che si regge sul coordinamento tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali. Insicuri sono i risultati di questa costruzione, ma sicuramente l’art. 12 costituisce una delle novità importanti del Trattato di Lisbona, novità che si riflette nella parte relativa alle istituzioni. Infatti, nella elencazione delle istituzioni il Parlamento europeo compare al primo posto con una centralità che si lega alla nuova definizione della funzione rappresentativa e alla dilatazione dello spettro di funzioni.

Il Prof. Ridola ha citato alcuni elementi nuovi nel Trattato: come l’art. 225, la razionalizzazione del rapporto fiduciario tra il Parlamento europeo e la Commissione. Poi, l’art. 223, ossia la comunitarizzazione del sistema di elezione del Parlamento europeo; lascia salve comunque un insieme di prerogative dei legislatori nazionali, ma che si inseriscono nell’ambito di un procedimento elettorale che è europeo.
Per quanto riguarda il Protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali e il Protocollo sul principio di sussidiarietà e proporzionalità, il professore li ha richiamati come momenti di attuazione del rapporto fra democrazia e parlamentarismo: la procedimentalizzazione della sussidiarietà passa attraverso il raccordo tra parlamenti nazionali e Parlamento europeo. Il Prof. Ridola si è domandato se questo quadro possa indurre ad un sereno ottimismo per le sorti del principio parlamentare. Risaltano altre problematiche: la prima, che una democrazia fondata sulla sussidiarietà rinvia anche agli assetti territoriali degli Stati, rinvia ad una omogeneità degli assetti territoriali che è ben lontano dall’essere presente nel panorama europeo. Il quadro europeo degli assetti territoriali è variegato e questo apre un problema sempre più critico a causa del divario esistente fra la posizione di cui godono Cipro, Malta, Lussemburgo e la posizione di cui godono alcune Regioni degli Stati membri che svolgono un ruolo importante sul piano economico, come la Baviera, i Paesi Baschi, la Lombardia.
La seconda zona d’ombra riguarda la procedimentalizzazione del principio di sussidiarietà, ossia se questa possa rimanere sempre e solo legata al rapporto tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali, in uno scenario nel quale è inevitabile che si determini una extraparlamentarizzazione delle sedi di negoziazione sulla sussidiarietà, perché il blocco parlamentare a livello europeo si trova in una situazione di relativa debolezza.
In conclusione, sicuramente il rafforzamento di una arena comunicativa parlamentare è uno strumento importante di rafforzamento di una Europa plurale, in quanto i parlamenti sono da sempre delle arene di discussione, ma non possiamo nemmeno dimenticare che la forza dei parlamenti come luogo di decisione è entrata in crisi da qualche decennio. Si toccano con mano le risorse e i limiti della parlamentarizzazione a livello europeo. E ha concluso il discorso ricordando il saggio di Carrè De Malberg (“Combinazione fra parlamentarismo e democrazia diretta”- 1930) in cui afferma che il parlamentarismo è solo una prima incompiuta approssimazione ad una democrazia compiuta che non si può esaurire nella parlamentarizzazione.

Successivamente, la dott.ssa Piera Menichini ha richiamato le elezioni europee del giugno 2009 in cui i cittadini europei saranno chiamati ad eleggere i 736 parlamentari, ancora una volta in base alle leggi elettorali di ciascuno Stato membro. Ha ricordato i trent’anni ormai trascorsi dalla prima elezione ma che non sono ancora riusciti a definire una procedura elettorale uniforme, definita come requisito essenziale di una assemblea rappresentativa dei popoli europei. La procedura elettorale uniforme era prevista nei Trattati istitutivi, al par. 3 art. 21 Trattato CECA, al comma 3 dell’art. 138 Trattato CEE e art. 108 Trattato EURATOM, disposizioni in cui si affermava che l’assemblea avrebbe elaborato progetti intesi a permettere l’elezione a suffragio universale diretto secondo una procedura elettorale uniforme in tutti gli Stati membri. La dott.ssa Menichini ha fatto menzione dei singoli passaggi di progetti che erano volti a giungere a tal risultato. Il primo passo fu compiuto nel 1976, quando il Consiglio dei ministri adottò all’unanimità una decisione secondo cui si stabiliva l’elezione diretta del Parlamento europeo, rinviando la definizione di una procedura uniforme ad un progetto ad hoc da parte del Parlamento. Questa materia costituisce l’unica occasione in cui viene affidato al Parlamento il potere di iniziativa normativa nel processo legislativo comunitario. In questo modo il Parlamento si prefiggeva di consolidare la propria autorità politica cercando di far crescere nei cittadini la consapevolezza di appartenere ad una società europea comune.

Nel giugno del 1979 si hanno quindi le prime elezioni a suffragio universale diretto: sarebbe un errore considerarlo un punto di arrivo, piuttosto un punto di partenza destinato ad attribuire al Parlamento più larghe competenze. L’aumento dei poteri del Parlamento europeo e la sua elezione diretta costituiscono le due facce dello stesso problema: mentre i due processi sono integrativi l’uno dell’altro, non si riesce a pensare ad un Parlamento dotato di maggiori poteri che fosse espressione indiretta dei parlamenti degli Stati membri.
La sfida all’elaborazione di una procedura uniforme venne accolta dal Parlamento europeo e cominciarono a definirsi dei primi progetti, come la relazione Selanger, in cui si prospettava un sistema elettorale proporzionale, ricalcando la maggior parte delle leggi elettorali nazionali per le elezioni europee e definiva un sistema di circoscrizioni plurinominali, secondi cui in ogni circoscrizione si potesse eleggere da 3 a 15 rappresentanti. Questa risoluzione fu fermata dal Consiglio dei ministri. Negli anni ’90, il tema della procedura elettorale uniforme continuò con esiti contraddittori riassumibili in due punti: la formalizzazione del passaggio dall’obiettivo di uniformità a quello dei principi comuni e nel contempo l’affermazione di progressi verso l’armonizzazione delle regole in materia elettorale. Nel frattempo, il Trattato di Maastricht istituiva la cittadinanza dell’Unione, sancendo che ogni cittadino ha il diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede, in virtù dell’ art. 8B. In seguito, il Trattato di Amsterdam prendeva atto delle difficoltà incontrate nel tentativo di arrivare ad una procedura uniforme e si preoccupava di istituzionalizzarla con un approccio più realista. L’art. 190 modificava l’art. 138 Trattato CEE, lasciando libero il Parlamento europeo di formulare un progetto di procedura elettorale uniforme, oppure secondo i principi comuni a tutti gli Stati. Nel 1998, il Parlamento, in conformità all’art. 190, approvò un’altra risoluzione che conteneva i principi comuni ed era teso a garantire la proporzionalità del voto; autorizzava il voto di preferenza, introduceva l’incompatibilità del mandato. La grande rivoluzione di questa risoluzione fu la definizione di due differenti circoscrizioni; da una parte, introduce il concetto di circoscrizione territoriale, presumibilmente su base regionale, dall’altra, si prevedeva l’assegnazione del 10% dei seggi nell’ambito di una circoscrizione unica formata dal territorio degli Stati membri dell’Unione europea su base proporzionale. Ma nonostante gli innumerevoli tentativi, i parlamentari continuano ad essere eletti in base a procedure nazionali, venendosi a creare una frammentazione dei gruppi appartenenti al Parlamento europeo, per ideologie, per la differenza fra l’enorme popolazione e candidato, squilibrio fra i seggi che non vengono distribuiti su base egualitaria.

La I sessione si è conclusa con la relazione del dott. Vincenzo Sciarabba, il cui discorso si è incentrato sul modello Convenzione, come luogo di produzione normativa, in cui si esplicita la necessità di cercare alternative al principio maggioritario e a quello dell’unanimità, e si vota per consensus.
Ha richiamato le due convenzioni, la prima, quella grazie alla quale si è dato vita alla Carta di Nizza, e l’altra, quella che ha portato alla redazione del Trattato costituzionale. Per quanto riguarda la prima convenzione, fu lo stesso organo che si diede questo nome di Convenzione, ed era composto dai rappresentanti degli Stati e rappresentanti dei parlamenti nazionali. Si può delineare l’aspetto di autonomia della Convenzione che lavora con diverse o uguali nazionalità dei membri, differenti o comuni appartenenze politiche. Per quanto riguarda i metodi di lavoro, il Presidente propone un piano di lavoro, un progetto preliminare di cattedra elaborato tenendo conto delle proposte presentate dai membri. In questo modello è teso a far parlare tutti e il Praesidium tiene un testo in cui vengono raccolte le varie obiezioni; tutto ciò per dar vita ad una ricerca iterativa del consensus, il più largo possibile, in quanto sembra prevalere la ragione della volontà.
Il dott. Sciarabba ha proposto infine un confronto con le assemblee tradizionali e con le assemblee costituenti affermando la diversa logica che muove la Convenzione. La caratteristica comune deriva dal fatto che tali organismi nascono per produrre un testo, in un clima dominato da spirito collaborativo in vista di uno scopo comune. Le differenze si trovano nel fatto che le assemblee costituenti sono elette dal popolo e decidono secondo maggioranza. Le Convenzioni, infine, si fondano su un’investitura democratica e cercano una solidarietà parlamentare tra Parlamento europeo e parlamenti nazionali.

La II sessione, nel pomeriggio, si è aperta con l’intervento del Prof. Piero Aimo sul bicameralismo di fine ‘800. Ha introdotto e moderato il Prof. Francesco Bonini. Il Prof. Aimo si è soffermato sulla figura del Senato e del bicameralismo e su una possibile riforma istituzionale di quel tempo. Nel 1848 si prendeva a riferimento la Costituzione francese del 1830 e belga del ’31; vi era ampio consenso nel sostenere le ragioni politiche di tutela della Corona. Un Senato, a quell’epoca, caratterizzato dall’essere più conservatore e che creava contrasti con la Camera dei deputati. Una parte più progressista, a cominciare da Cavour, pensò di rendere elettiva la seconda Camera. Fino alla caduta del fascismo la figura istituzionale del Senato non venne modificata, sia per l’ingerenza dell’esecutivo, sia perché un Senato elettivo avrebbe comportato il sorgere di una maggioranza ed infine perché sarebbe venuta a crearsi una concorrenza di interessi con quelli dei deputati. Anche nel periodo giolittiano ci furono ipotesi di riforma ma in sostanza non cambiò nulla. Tra i motivi della mancata riforma vi compariva la difficoltà di revisionare lo Statuto per non limitare i poteri del Re. Il Professore ha richiamato l’opinione di storici importanti come Salerno, Antonetti, Bonfiglio che affermano la centralità del bicameralismo come funzionale alla migliore ponderazione degli interessi; secondo quest’autorevole dottrina, il Senato non creava crisi perché non veniva ad immettersi in quel rapporto di fiducia che lega la Camera dei deputati al Governo, perché esso era di nomina regia. E’possibile dare un giudizio sul ruolo e la funzionalità del Senato in questo arco di tempo? Ci sono molte teorie: secondo gli storici, il Senato contava anche per il solo fatto di esistere e di non essere soppresso; non era debole anzi serviva all’equilibrio complessivo del sistema politico. Secondo Antonetti, esisteva un rapporto stretto tra funzionalità del Senato e forma di governo parlamentare, questo perché questa seconda Camera si era adeguata al cambiamento della società; vi era una certa “rappresentanza somigliante”, vale a dire che il Senato rappresentava la società dell’epoca e dei suoi ceti dirigenti. Ed infine Meniconi che ha studiato all’interno del Senato regio il ruolo dei Consiglieri di Stato, dei burocrati dei giudici, quindi il Senato come luogo in cui i corpi dello Stato hanno un ruolo propositivo, tecnico, non necessariamente conservatore, non necessariamente di tutela degli interessi di categoria. Dunque, il ruolo del Senato era centrale, esisteva una funzionalità, esisteva una rappresentatività. Quindi dire che il Senato era debole non significava dire che non contasse. Il Prof. Aimo ha accomunato il Senato alle figure delle Province, come deboli, ma nello stesso tempo enti che non vengono cancellati. Il relatore si è chiesto se fosse più forte il Consiglio di Stato che raccoglie dei tecnici. E’ evidente che ci sono molti aspetti storici che rimangono oscuri e il Professore ha concluso che la questione bicamerale e la questione del Senato costituiscono fino ad oggi una questione irrisolta.

E’ intervenuto il prof. Tommaso Edoardo Frosini che ha riflettuto sul ruolo dell’antiparlamentarismo nell’Italia di fine ‘800, richiamato come una sorta di fiume classico che ha attraversato la storia italiana. Il Professore ha definito l’antiparlamentarismo non l’essere contro il Parlamento come istituzione, ma come luogo della rappresentanza della classe politica. Come si è adoperato questo concetto? Non può essere negazione del Parlamento, altrimenti darebbe luogo all’antidemocrazia, perché mettersi contro l’istituzione Parlamento è andare contro la democrazia, posto che il Parlamento è il luogo delle decisioni pubbliche, della rappresentanza, dove viene emanata la legge come espressione della volontà popolare. Ha ricordato la tesi di Mario Delle Piane (“ Ricordi e considerazioni intorno agli avvenimenti del settembre 1943” – 1974), secondo il quale l’antiparlamentarismo si sviluppa per l’intimo affetto per l’organismo parlamentare. Esso quindi nasce dalla delusione proveniente dalle degenerazioni del parlamentarismo, incapace di rappresentare e dalla speranza di correggere questa realtà. Ha citato come campione dell’antiparlamentarismo G. Mosca, e ancora. G. Arcoleo, entrambi parlamentari, eccellenti studiosi dell’organismo parlamentare; entrambi appartenenti al Parlamento siciliano, provenienti quindi da quell’isola che vanta il primato delle assemblee parlamentari, che nasce prima che in Inghilterra.
Le prime manifestazioni in Italia dell’antiparlamentarismo si hanno per via letteraria: Matilde Serao, De Roberto. L’antiparlamentarismo si declinava in due filoni: da un lato, il Parlamento non rappresentava più il Paese; dall’altro, il Risorgimento tradito, l’ascesa al potere di una classe di affaristi, e si è passati alla piattezza e compromesso, la grandezza del Risorgimento non ha avuto un suo seguito perché il parlamentarismo non ha saputo interpretare le potenzialità del Risorgimento; quindi un parlamentarismo malato.
In conclusione, l’antiparlamentarismo costituisce un modo di manifestazione dell’intimo affetto per il Parlamento, in vista di un futuro recupero dalla forme degenerative. E poi il Prof. Frosini si è spostato al periodo degli anni ’30, in cui ricordiamo Carl Smith (“Il custode della Costituzione” – 1981) e la sua posizione antiparlamentare, e la figura speculare di Kelsen invece (“Il primato del Parlamento”- 1982) proparlamentare. Passando al periodo repubblicano italiano, l‘antiparlamentarismo covava nelle ceneri delle istituzioni; nella forma di governo parlamentare, che si identifica nel rapporto fiduciario fra Governo e Parlamento, oggi il rapporto fiduciario non si manifesta più col voto di fiducia, quest’ultimo passa attraverso il voto elettorale.
L’antiparlamentarismo è un tema che caratterizza la storia delle istituzioni e funge da monito alla rivitalizzazione dell’istituto parlamentare.

A conclusione della II sessione è intervenuta la Prof.ssa Fausta Gallo che ha illustrato il Parlamento siciliano del 1812, come momento significativo della storia siciliana. Un Parlamento alquanto conservatore, gestito dai tradizionali ceti dirigenti isolani e supportato dal Governo inglese. I primi parlamenti avevano solo una funzione consultiva; soltanto nel 1300 cominciavano ad acquisire poteri deliberativi. Al Parlamento del 1398 si fa risalire l’introduzione di alcune innovazioni di natura tecnico-organizzativa, la facoltà dei parlamentari di farsi rappresentare da procuratori in caso di impedimento, la partecipazione ai lavori di maggiori funzionari della Curia regia, la facoltà di concedere donativi. All’interno del quadro siciliano un ruolo fondamentale l’ha giocata la componente inglese; tra il 1805 e il 1815, infatti, la Sicilia fu occupata dall’esercito britannico con lo scopo di proteggere la famiglia reale borbonica, ma i rapporti con questa presenza furono alquanto conflittuali. I timori della Corte regia erano motivati dal sostegno che gli inglesi sembravano accordare ad alcuni dei nobili siciliani che si erano fatti portavoce di cambiamenti istituzionali. Quale Costituzione si voleva per la Sicilia? Da una parte si sosteneva la soluzione di apportare le minori possibili innovazioni nella forma di governo; una Costituzione discussa ed elaborata dal Parlamento, quindi centrale è il ruolo del Parlamento. Ma se la Costituzione si doveva fare, questa doveva essere garantita dalla Gran Bretagna. Il 18 giugno del 1812 si apriva il Parlamento straordinario costituente. L’idea era quella di procedere alla rielaborazione dell’antica legislazione siciliana, avendo come modello la Costituzione inglese. In realtà, le differenze tra la Costituzione siciliana del 1812 e quella inglese sono profonde. Prima, furono approvate le parti generali della Costituzione, poi, si preparò il testo della Costituzione: la suddivisione dei poteri, con alcuni correttivi, secondo cui il legislativo spettava al Parlamento, ma rimaneva in vigore la sanzione regia, l’esecutivo spettava al Re, il giudiziario era distinto e indipendente. Si stabiliva che nessun cittadino poteva essere arrestato e punito, esiliato se non in forza di una legge o sentenza di magistrato ordinario. Al Parlamento spettava il processo dei Ministri e dei pubblici impiegati. Si proponeva, al pari di quello inglese, un Parlamento bicamerale, con un Camera alta, dei Pari, e una Camera bassa, dei Comuni. Al Re spettava la convocazione del Parlamento, di prorogarlo, di scioglierlo, tuttavia era obbligato convocarlo ogni anno. La Costituzione siciliana del 1812 veniva a porsi come una svolta dal vecchio costituzionalismo; i singoli articoli infatti, pur essendo votati dal Parlamento, conformemente all’antica tradizione, venivano sottoposti alla visione regia.
In conclusione, la Sicilia si è confrontata con il modello inglese come risultato di una scelta politica e che dava vita ad un primo Parlamento capace di tutelare interessi.


Ileana Boccuzzi