Il lavoro quale fondamento costitutivo della Repubblica – Resoconto convegno

18.07.2008

Centro V. Bachelet
Luiss Guido Carli
Roma,  18 luglio 2008

Lo scorso 16 luglio si è svolto presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma un seminario promosso dal Centro di Ricerca sulle amministrazioni pubbliche “V. Bachelet”, che ha avuto come tema “Il lavoro come fondamento costitutivo della Repubblica”.
Il Prof. Di Gaspare ha dato inizio ai lavori illustrando brevemente la finalità dell’incontro, volto ad approfondire la nozione di lavoro quale categoria generale, prevista dall’art. 35 Cost., con riferimento alla parte prima sui principi e al carattere fondativo del Lavoro nella Repubblica, nella quale vanno ricondotte le attività economiche in qualunque forma ed applicazione, tra cui in primo luogo l’iniziativa economica privata. La relazione si è proposta di porre il lavoro a fondamento costitutivo della Repubblica, ponendo alla base l’analisi testuale dell’intero tessuto costituzionale, per giungere alla dimostrazione di una sinergica compatibilità tra lavoro e mercato.
La chiave di lettura sviluppata dal Prof. Di Gaspare ha permesso un’esegesi sistematica non limitata alle disposizioni che del lavoro o dei lavoratori si occupano in modo prevalente o esclusivo: una verifica del valore fondante del lavoro all’interno della Costituzione, valutato non sulla base del processo storico costitutivo della Repubblica, ma come precisa scelta del Costituente, che deve essere quindi confermata e non contraddetta dalle restanti disposizioni costituzionali, in particolare da quelle della Prima Parte, regolanti i rapporti economici di cui al Titolo III.
Mediante, quindi, un necessitato approccio sistematico alla tematica del lavoro quale fondamento costitutivo della Repubblica, emerge con evidenza dalla stessa Carta Costituzionale (art. 1 Cost.), che è la Repubblica a scegliere e a porre a suo fondamento il lavoro e non viceversa. La correttezza di questa premessa logico-sistematica deve, poi, trovare una propria manifestazione e conferma nella verifica analitica della Costituzione economica repubblicana, che risulti basata sulla effettiva vigenza del principio costitutivo del lavoro nella Repubblica.
Proprio l’esegesi costituzionale diretta ha fornito la possibilità di superare la contrapposizione tra lavoro e capitale (potere economico), che non trova alcun addentellato costituzionale a proprio fondamento, né nei principi fondamentali, né nel successivo titolo III dedicato ai rapporti economici. Il punto di partenza di una rilettura del lavoro quale fondamento della Repubblica è costituito dall’appena richiamato art. 1 Cost., il quale non individua il soggetto giuridico di riferimento nel lavoratore ma piuttosto nel cittadino, secondo il principio di uguaglianza formale sancito dall’art. 3 comma 1 Cost.
Il cittadino, secondo l’art. 4 Cost., deve essere soggetto attivo all’interno della società, mentre spetta alla Repubblica una funzione di promozione della comunità sociale – che contribuisce ad avvalorare il carattere fondamentale del lavoro per la Repubblica – consistente nella rimozione degli ostacoli e nell’ampliamento di concrete opportunità; ne deriva un simmetrico rapporto tra il diritto al lavoro e il dovere di attivarsi. Il limite esterno negativo a questa nozione è individuabile nel non lavoro – il non darsi da fare -, in quanto attività socialmente disutile: emerge, quindi, con ancora più chiarezza non solo la preminenza etica del lavoro, ma ancor prima il suo carattere fondativo della Repubblica, rispetto al quale l’antitesi non può essere tra lavoro e capitale, che tende a configurarsi come inconciliabile contrapposizione classista, ma piuttosto tra lavoro e non lavoro.
Deriva inoltre da questa impostazione una nuova concezione di lavoro che implica il superamento della tradizionale rappresentazione del lavoro come diritto sociale. In questo senso la promozione della effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione economica e sociale del paese pare funzionalmente ricollegata alla effettiva realizzazione del principio di uguaglianza personale (pari dignità sociale) e di uguaglianza formale innanzi alla legge. Gli artt. 1, 3 e 4 Cost. sono quindi stati riletti in una nuova prospettiva, che evidenzia il carattere etico dei principi fondamentali, conformanti anche i successivi precetti costituzionali, che ne recepiscono la stessa caratura etica.
Alla luce di quanto affermato in merito al principio fondativo del lavoro, occorre allora spostare l’indagine sull’art. 35 Cost., nella parte in cui stabilisce che è compito della Repubblica tutelare il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni. Nuove e interessanti prospettive si aprono quando si include nella nozione di lavoro costituzionalmente tutelato non solo il lavoro subordinato, ma anche il lavoro diversamente subordinato, autonomo, artigianale, industriale, l’autoproduzione, la cooperazione e l’impresa cooperativa, le libere professioni, nonché l’iniziativa economica privata. In quest’ottica innovatrice, l’art. 35 Cost. svuota di contenuto il dualismo ideologico lavoro/capitale e permette di attribuire alla nozione di lavoro la medesima latitudine e valenza applicativa già riconosciuta dai principi fondamentali prima richiamati. Quanto affermato non deve peraltro portare all’attribuzione di un’indifferenziata tutela che non tenga conto delle specificità delle singole forme di lavoro: il lavoro subordinato è infatti meritevole di una tutela speciale e rafforzata, diversa da quella approntata in favore di altre forme di lavoro, ma non per questo si deve porre in contrapposizione con altre tipologie di lavoro, potendosi invece definire in rapporto di species a genus con il più ampio concetto di lavoro previsto nella Costituzione.
L’analisi è poi proseguita verificando in che modo il diritto e dovere costituzionale al lavoro possa trovare piena applicazione nel caso dell’iniziativa economica privata. La prima questione problematica da risolvere attiene all’individuazione della nozione di “utilità sociale” contenuta nell’art. 41 Cost.. Nel caso della libera iniziativa economica, l’utilità sociale consiste nello svolgimento dell’attività in una condizione di concorrenza e di mercato; un contrasto insanabile si verifica invece quando l’iniziativa privata, uscendo da un mercato concorrenziale, si trova ad operare in un regime di monopolio, ovvero in un mercato non in grado di funzionare autonomamente e che necessita pertanto di correttivi: è questa l’ipotesi prevista dall’art. 43 Cost. Allo Stato spetta allora il compito di promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto, eliminando nello specifico gli ostacoli e le barriere per l’accesso, in un regime di concorrenza, al mercato di beni e servizi.
Il carattere fondativo del lavoro nella nostra Costituzione economica comporta ulteriori implicazioni sistemiche: alla nozione di lavoro si contrappongono particolari ipotesi, tutte comunque riconducibili nell’ampia categoria del non lavoro. L’art. 43 Cost. manifesta l’ostilità del Costituente nei confronti dei monopoli, perché elusivi della competizione nel mercato e produttivi di guadagni qualificabili come rendite (non lavoro). Nella stessa logica, l’imposta di successione costituisce ad esempio l’affermazione che ciò che si riceve senza un guadagno conseguente ad un lavoro, giustifica un’imposizione fiscale patrimoniale, diversa rispetto a quella applicata ai redditi di lavoro tassati in relazione alla diversa capacità contributiva, e quantificabile in deroga ai limiti previsti dall’art. 53 Cost. Analogamente, può infine attribuirsi un nuovo ruolo al risparmio destinato ad investimenti produttivi, che deve necessariamente trovare una tutela adatta – in primis stabilità di moneta e controllo della spesa pubblica -, in quanto reddito derivante dal lavoro.

Sotto un profilo teorico, la nozione di lavoro globalmente inteso, proposta dal Prof. Di Gaspare, può creare qualche problema in relazione alla delimitazione degli ambiti entro i quali è chiamata ad operare la dottrina giuslavoristica: come osservato dal Prof. De Martin, infatti, se le forme del lavoro comprendono oltre al lavoro subordinato anche il lavoro autonomo e l’iniziativa economica privata, dovrebbe ritenersi inclusa in tale materia anche l’attività di regolazione dei mercati. In realtà però, l’insegnamento del diritto del lavoro esclude di norma sia lo studio dell’iniziativa economica privata che quello del lavoro di impresa, dedicando ampio spazio all’analisi delle forme di lavoro subordinato e alle specifiche modalità di tutela approntate dal Legislatore ordinario in attuazione dei già analizzati principi costituzionali.

La questione della corretta definizione della nozione di lavoro e degli eventuali limiti della sua tutela nell’ordinamento è d’altra parte una vexata quaestio all’interno della dottrina giuslavoristica, come osservato dal Prof. Pessi. Ed infatti, fin dai primi del ‘900, è stata elaborata una nozione di rapporto di lavoro subordinato diversa dalla tradizionale dicotomia tra locatio operis e locatio operarum. Grazie a quest’innovazione dottrinale è stata elaborata una specifica e complessa tutela, basata sulla natura inderogabile delle norme in materia di lavoro subordinato, recepita sia nel codice civile (art. 2094 c.c.) che dal Legislatore ordinario, che sempre più rivela la propria insufficienza di fronte alle nuove ipotesi legislative di incerta qualificazione giuridica (lavoro a progetto, co.co.co. ).
I problemi interpretativi non sono stati risolti nemmeno tramite l’utilizzo di metodi tipologici, sillogistico–sussuntivi ovvero tipologico–funzionali, evidenziando la necessità di intendere il lavoro “senza aggettivi”, non più in funzione del tipo legale, ma in ragione della effettiva debolezza economica e delle forte differenziazione delle forme di lavoro, che richiedono un riequilibrio delle garanzie e della correlata tutela.

Il successivo intervento del Prof. Pajno ha approfondito, in un rapporto dialettico tra disciplina interna e comunitaria, il ruolo dello Stato nell’ambito di una dimensione ampia del lavoro, sia sotto il profilo della normazione che della successiva attuazione. Se infatti è lavoro anche l’attività di impresa, devono essere individuate garanzie e sistemi di tutela differenziati (ad esempio le nuove forme di class action), e conseguentemente Giudici e riti speciali, richiedendo distinti interventi dello Stato volti a riequilibrare gli interessi in gioco.
In un’ottica in cui lo Stato è sempre meno attore, ma piuttosto regolatore, trovano quindi spazio nuovi soggetti (tipicamente le Autorità garanti), che si connotano diversamente a seconda della tipologia di mercato in cui le stesse devono agire. Una nozione di lavoro in senso ampio, che si pone in stretta correlazione con il mercato, a livello non più nazionale ma globale, apre infatti nuovi scenari e richiede con insistenza nuove forme di regolarizzazione e tutela di cui il Legislatore e la Pubblica amministrazione dovrebbero farsi carico.

In conclusione, il dibattito ha quindi affrontato la tematica del lavoro sotto tre diversi profili, il primo, pregiudiziale, prettamente costituzionalistico, il secondo giuslavoristico, il terzo volto ad individuare le ricadute delle riflessioni emerse nel dibattito, all’interno del rapporto dialettico tra codificazione, Costituzione e diritto europeo. L’intento dichiarato era in effetti quello di fornire una nuova chiave di lettura, scevra da condizionamenti storici, politici e valoriali, delle previsioni costituzionali in materia di lavoro, al fine di adattare queste ultime alla realtà sociale attuale, mediante un approccio interdisciplinare ed innovativo ad una materia sensibilissima e di enorme rilevanza sociale.

Elisabetta Saladino