Il diritto parlamentare, ieri, oggi e domani (Roma, 19 marzo 2009) – Resoconto convegno

04.05.2009

Il 19 marzo 2009 si è tenuto, presso la Sala delle Colonne dell’Università Luiss Guido Carli, un seminario di studio, organizzato dal Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet” e dal Centro studi sul Parlamento, sull’evoluzione del diritto parlamentare. L’incontro, che si è svolto poco dopo l’uscita del libro di Luigi Gianniti e Nicola Lupo dal titolo Corso di diritto parlamentare (Il mulino, Bologna, 2008), ha preso spunto dalle tematiche in esso contenute.

Ha presieduto il seminario il Vice Presidente della Corte Costituzionale, prof. Ugo De Siervo, il quale si è congratulato con gli autori del libro per l’impegno assunto nella realizzazione, ex novo, di un manuale diretto alla didattica: compito non facile, date le difficoltà che derivano dal carattere proprio del diritto parlamentare, dal suo essere materia in limine fra politica e diritto, tra politica e scienza politica. Il Presidente ha quindi auspicato, in vista delle successive edizioni del manuale, l’ulteriore approfondimento di alcune questioni di diritto costituzionale (in particolar modo, relative ai maxi-emendamenti, alla legge finanziaria e alla ratifica dei trattati), così da porre ancor più in risalto l’inscindibile rapporto che esiste tra esso ed il diritto parlamentare.

E’ intervenuto successivamente il Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche della Luiss, prof. Attilio Zimatore, il quale, dopo aver ricordato come il Centro di studi sul Parlamento ed il Centro di ricerca “Vittorio Bachelet” siano due realtà importanti, motivo di orgoglio per il Dipartimento di Scienze giuridiche, ha fatto riferimento alla relativa “giovinezza” del diritto parlamentare come disciplina, sebbene antichi siano gli oggetti del suo studio. Si tratta di uno studio che si distingue per la necessaria sensibilità politica e per la capacità di lettura delle fonti vive (prassi e consuetudini). Il professore ha concluso l’intervento richiamando l’espressione usata da Andrea Manzella nella Prefazione del libro, secondo cui “scrivere di diritto parlamentare è impresa ardua”: sfida che gli autori hanno egregiamente vinto tenendosi strettamente legati alla logica della Costituzione.

Ha preso quindi la parola il Direttore del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet”, prof. Gian Candido De Martin, il quale ha definito il dibattito un’occasione utile per riflettere su temi attuali, e poco arati del diritto pubblico. Il libro è la prosecuzione di un cammino intrapreso dalla scuola che fa capo a Andrea Manzella, che lavora ormai da anni per il radicamento nel dibattito scientifico delle tematiche parlamentari. L’opera presentata offre una prospettiva storico-evolutiva in un campo in cui le regole sono chiamate a governare istanze politiche. Circa il ruolo delle assemblee rappresentative, il relatore ha sottolineato l’esigenza di ricercare schemi che favoriscano una maggiore semplificazione e funzionalità senza, tuttavia, che ciò degradi a mere scorciatoie delle più virtuose trame democratiche. L’odierno dibattito relativo alla supposta “deriva” presidenzialistica della nostra forma di governo implica la necessità di porre nuovamente le istituzioni rappresentative al centro del sistema.Il prof. De Martin ha guardato con particolare favore i molteplici riferimenti che il Corso riserva alla dottrina ed alla giurisprudenza costituzionale, nonché alle fonti parlamentari viventi, che facilitano la comprensione degli istituti ivi esaminati. Infine, il relatore ha rilevato che il testo, pur se destinato a fini didattici, non manca di importanti spunti critici rivolti soprattutto al legislatore affinché ripensi al funzionamento della macchina parlamentare, in particolare sui temi dell’autodichia, degli interna corporis e della procedura di convalida delle elezioni.

E’ intervenuto poi il prof. Augusto Barbera, il quale si è complimentato con Gianniti e Lupo per l’organicità e la chiarezza del testo presentato; dalla sua lettura emergono, in modo evidente, i motivi di sofferenza del Parlamento. Barbera ha enucleato le cause di tale sofferenza in tre tematiche: il tema dei decreti-legge; il tema della delegificazione e della semplificazione; in ultimo, la rappresentanza ed elezione dei parlamentari.
Per quanto riguarda il primo punto, ha ricordato che il decreto-legge è un istituto sconosciuto ad altri Paesi, eccezion fatta per la Spagna, che ha saputo però contenerne gli eccessi. Ma, se ci si limitasse a considerare la sola frequenza, sebbene in passato assolutamente anomala, dell’utilizzo dell’istituto in parola, come elemento di alterazione dell’equilibrio del sistema, si realizzerebbe un’analisi superficiale. Nelle ultime legislature, infatti, non solo si è ricorsi spesso a questo strumento, ma lo si è accompagnato al voto di fiducia ed alla nuova figura del “maxi-emendamento”. Se, da un lato, l’utilizzo di tali tecniche nei lavori parlamentari consente all’Esecutivo di realizzare in tempi più celeri il proprio programma, nonché di frenare le eventuali spinte centrifughe all’interno della maggioranza, dall’altro tutto ciò svilisce il ruolo di controllo e partecipazione all’indirizzo politico da parte delle opposizioni (si pensi ai risvolti sul potere emendativo), con inevitabili ricadute sul Parlamento quale luogo di dibattito e raccordo istituzionale. Attraverso un’analisi comparata è possibile riscontrare come, in diversi sistemi istituzionali, la centralità del Governo nel procedimento legislativo è assicurata in altri modi: ad esempio, in Gran Bretagna spetta al Premier, e quindi all’esecutivo, stabilire l’ordine del giorno delle Camere, fatti salvi i tempi assegnati all’opposizione. Il relatore ha precisato di non voler promuovere l’idea di attribuire al Presidente del Consiglio, nel nostro ordinamento, la possibilità di fissare l’ordine del giorno. D’altro canto, all’art. 72 Cost. si trova una specifica disposizione per le procedure urgenti che non è mai stata attuata. Tuttavia, se si considera che: a) la programmazione dei lavori parlamentari è stata introdotta soltanto con i nuovi regolamenti delle Camere del 1971; b) che fino al 1977 il Governo non era neppure invitato alle riunioni della Conferenza dei capigruppo per la programmazione dei lavori; c) che ad oggi, nella redazione del programma dei lavori, i Presidenti d’Assemblea hanno un ruolo assolutamente cruciale come garanti dell’attuazione del programma di Governo (sebbene essa sia realizzata secondo le priorità indicate dal Governo: artt. 23 e ss. r.C. e 53 e ss. r.S), emerge la necessità di considerare con attenzione le cause politiche del fenomeno della decretazione d’urgenza, evidentemente legate alla necessità di assicurare l’attuazione delle scelte della maggioranza. Tutto ciò nell’assenza di procedure ad hoc per i progetti di legge dichiarati urgenti.
Riguardo al secondo punto, relativo alla delegificazione, Barbera ha ricordato come le norme generali regolatrici della materia siano divenute sempre meno incisive. Quando il legislatore elaborò l’art. 17 della legge n. 400 del 1988 (sull’emanazione dei regolamenti governativi), furono previsti dei limiti ben precisi alla potestà regolamentare del Governo; limiti che a partire dalle “leggi Bassanini” sono stati aggirati, così disattendendo, di fatto, il dettato dell’art. 76 della Costituzione che, prevedendo la possibilità per le Camere di delegare la funzione legislativa al Governo, impone alle stesse la determinazione di principi e criteri direttivi, di un limite temporale certo, assieme alla definizione dell’oggetto del provvedimento.
Infine, uno dei principali motivi di «sofferenza democratica» del Parlamento deve essere rinvenuto nel problema della rappresentanza. Con l’attuale legge elettorale a “liste bloccate” poche decine di dirigenti di partito “eleggono un intero Parlamento”. D’altro canto, il sistema delle preferenze, ormai superato, ha in passato nuociuto alla trasparenza delle attività camerali e ha portato alla frantumazione dei partiti (diffusione di degenerativi fenomeni clientelari, con conseguente emersione del problema del finanziamento illecito ai partiti). Infine, il relatore ha proposto alcuni spunti risolutivi di tale problematica, individuandoli nel ritorno ai collegi uninominali, con lo svolgimento di elezioni primarie, e nell’introduzione di “liste corte”, ispirate al modello tedesco, auspicando che l’adozione di scelte di siffatta portata venga effettuata nelle adeguate sedi istituzionali.

E’ intervenuto, quindi, il Prof. Franco Modugno, il quale, con osservazioni puntuali, ha ricostruito lo spirito delle pagine scritte da Gianniti e Lupo, soffermandosi, in breve, intorno ad una questione di carattere fondamentale: se il diritto parlamentare possa considerarsi diritto a pieno titolo.
In primo luogo, richiamando un’espressione del testo, ha sottolineato un punto critico del diritto parlamentare, che vede la prescrittività delle regole parlamentari non ancora acquisita: circostanza dovuta al fatto che il diritto parlamentare pretende, per definizione, di porre regole che limitano il potere politico e perciò raramente garantite da un giudice esterno alle Camere. Sussiste inoltre, in tale materia, per un’esigenza di flessibilità, uno spazio notevole per le fonti non scritte. Tenuti fermi questi elementi, non si può prescindere dal fatto che vigono regole che, come tali, vanno rispettate. Come arduo è stato il percorso del diritto costituzionale ad assumere carattere veramente prescrittivo e vincolante, così anche il diritto parlamentare non può non arrivare allo stessa conclusione. Questo, secondo Modugno, è l’obiettivo sistemico del Corso di diritto parlamentare nel quale teoria e dottrina si coniugano. Un compito non impossibile se si guarda anche alle esperienze degli altri ordinamenti, dove si assiste alla tendenza ad una progressiva giuridicizzazione delle regole della vita parlamentare, con l’affidamento sempre più frequente della relativa tutela al giudice costituzionale.
Ciò nonostante, nel cercare di definire il regime giuridico dei regolamenti parlamentari non mancano incertezze e difficoltà di diritto costituzionale. Non può dirsi, infatti, che l’equiparazione alle leggi ordinarie, quanto alla connotazione di atto normativo primario, giustifichi una identità di regime giuridico, tale da attribuire loro una capacità abrogativa delle leggi e degli atti aventi la forza di legge. E’ questa, secondo Modugno, la ragione di fondo che ha portato la Corte costituzionale, nella sentenza 154 del 1985, ad escludere che le norme regolamentari possano divenire oggetto di una questione di legittimità costituzionale. D’altra parte, è assai dubbia la riconducibilità dei regolamenti parlamentari nel novero degli atti legislativi le cui norme risultano suscettibili di abrogazione mediante referendum abrogativo ex art. 75 Cost. Un altro argomento sostenuto dalla Corte costituzionale per affermare la insindacabilità dei regolamenti parlamentari in sede di giudizio di costituzionalità delle leggi è la collocazione del Parlamento al centro del sistema e, quindi, la sua indipendenza nei confronti di qualsiasi altro potere, un’indipendenza tuttavia che lascia aperta la via del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, attraverso cui la Corte è giunta a svolgere interventi incisivi sulle procedure parlamentari.
Un altro punto su cui il prof. Modugno si è soffermato è la denegata attitudine dei regolamenti parlamentari a divenire parametro nel giudizio di costituzionalità delle leggi, analogamente a quanto la Corte ha affermato con riguardo alle “fonti interposte”. Secondo la sentenza n. 3 del 1957, il sindacato sulla violazione indiretta di norme costituzionali ha dato ingresso all’integrazione del parametro di costituzionalità tutte le volte in cui ad essa concorrono norme che non sono poste dalla Costituzione né da leggi costituzionali, ma che sono richiamate da disposizioni formalmente costituzionali quali specifiche condizioni di validità di determinate leggi. Una questione posta all’attenzione di Vezio Crisafulli, il quale a suo tempo riteneva contraddittoria la sentenza della Corte n. 9 del 1959, in quanto la conclusione avrebbe dovuto essere la piena sindacabilità di tutto il procedimento legislativo, anche sotto il profilo dell’osservanza delle norme regolamentari. Modugno ha ricordato come Esposito, originariamente assertore dell’insindacabilità delle attività interne delle Camere, fosse giunto poi ad una conclusione opposta.
A fronte di questa giurisprudenza costituzionale potrebbe forse parlarsi di un ritorno al tradizionale principio degli interna corporis, secondo cui dovrebbe ritenersi esclusa qualsiasi forma di controllo esterno al Parlamento sugli atti e i procedimenti. Non sono mancate pronunce che attestano questo ritorno antistorico come la sentenza n. 379 del 1996, secondo cui “la congruità delle procedure di controllo, l’adeguatezza delle sanzioni regolamentari si impongono al Parlamento come problema di conservazione della legittimazione degli istituti della autonomia che presidiano la sua libertà”. In definitiva, se dalla giurisprudenza costituzionale si evincono indicazioni a favore della insindacabilità delle funzioni parlamentari, la Corte costituzionale non ha esitato ad esercitare un controllo sempre più penetrante sull’esercizio del potere delle Camere di dichiarare la prerogativa dell’insindacabilità. Dalla prima sentenza n. 1150 del 1988, definita nel Corso l’archetipo dei conflitti di attribuzione sull’applicazione dell’art. 68 della Costituzione, che rivendicò alla Corte la possibilità di sottoporre a verifica il corretto uso del potere delle Camere di dichiarare l’insindacabilità, si è passati ad un sindacato più penetrante, imperniato sul riscontro di un nesso funzionale tra le opinioni espresse nell’esercizio di attività extraparlamentari e l’attività propriamente parlamentare. Per poi arrivare alla condizione che vi sia un’identità sostanziale di contenuto fra l’opinione precedentemente espressa in sede parlamentare e quella manifestata in sede esterna (sentenze nn. 10 e 11 del 2000). La reazione politica a questo indirizzo si è tradotta, come è noto, nell’adozione, della legge n. 140 del 2003, che ha esteso l’ambito di applicabilità dell’insindacabilità, applicandola anche ad ogni altra attività di ispezione, divulgazione, critica e denuncia politica connessa alla funzione parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento. L’ambito di applicazione è stato poi ridimensionato dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare ad opera della sentenza n. 120 del 2004, che ha escluso che la legge n. 140 abbia eliminato la necessità del nesso funzionale e ha riconfermato che le opinioni espresse dal parlamentare fuori dal Parlamento rientrano nell’area dell’insindacabilità solo se costituiscono divulgazione e riproduzione di attività parlamentari.
Il prof. Modugno si è poi soffermato sull’istituto della pregiudizialità parlamentare, già prefigurata dal decreto-legge n. 455 del 1993, secondo la quale il giudice, qualora ritenga sussistere le ragioni per invocare l’applicazione dell’art. 68 Cost., chiude il processo con il rigetto dell’azione di risarcimento o con l’assoluzione; ovvero, in caso contrario, egli è tenuto ad investire la Camera di appartenenza del parlamentare, la quale può essere chiamata in causa anche direttamente da chi ritenga che il fatto rientri nell’ambito di applicazione del primo comma dell’art. 68 Cost., inviando ad essa copia degli atti di giudizio. Ne segue la sospensione del giudizio fino alla decisione della Camera, ma non oltre novanta giorni dalla ricezione degli atti. Se la Camera esclude l’insindacabilità, il giudice prosegue nello svolgimento del giudizio; se la dichiara, o vi si conforma o solleva conflitto di attribuzioni, scaricando così sulla Corte Costituzionale ogni questione circa l’applicabilità dell’insindacabilità parlamentare. La frequenza di conflitti tra poteri è segno evidente di un equilibrio non ancora raggiunto tra politica e magistratura. E’ dibattuta in dottrina e giurisprudenza la questione circa l’inversione delle parti tra Camere e potere giudiziario, nel senso di lasciare a quest’ultimo, in prima battuta, l’interpretazione dei confini della prerogativa; e, conseguentemente, di consentire alle Camere l’eventuale sollevamento del conflitto sulla decisione del giudice ritenuta lesiva della propria sfera di attribuzioni.
Ci si può domandare, secondo il prof. Modugno, se il valore costituzionale dell’indipendenza delle Camere, da un lato, e, dall’altro, l’autonomia del potere giudiziario e la garanzia dei diritti dei cittadini, siano effettivamente bilanciati nell’istituto della pregiudizialità parlamentare. Nel bilanciamento d’interessi operato dalla sentenza n. 1150 del 1988, le prerogative parlamentari prevarrebbero sul diritto alla tutela giurisdizionale, principio che costituisce uno dei supremi punti fermi dell’ordinamento.
Nelle battute conclusive del suo intervento, il prof. Modugno si è chiesto se sono veramente i regolamenti parlamentari come atti privi di forza di legge a non poter essere sottoposti al giudizio di costituzionalità o se è piuttosto la natura e la posizione degli organi che li pongono a determinare una tale discutibile conseguenza. Dalla sentenza n. 154 del 1985 sembra emergere proprio quest’ultima risposta, secondo cui, fondando l’insindacabilità non sui caratteri dell’atto, ma sull’indipendenza dell’organo sovrano, si sottraggono i regolamenti alla legalità costituzionale, come espressione di una legalità separata, riproponendosi così la vecchia concezione del diritto parlamentare come ordinamento speciale. La concezione del diritto parlamentare come ordinamento particolare è espressa dalla sentenza n. 78 del 1984, ma maggiormente è testimone la sentenza n. 379 del 1996, in cui la Corte afferma che il principio di legalità e i valori ad esso connessi sono destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle Camere.

Ha concluso il seminario il Direttore del Centro studi sul Parlamento, il prof. Andrea Manzella il quale ha riconosciuto il merito agli autori del Corso di aver alimentato la discussione su importanti temi istituzionali, grazie a doti didattiche e di chiarezza. Il prof. Manzella ha richiamato l’espressione di Silvano Tosi, secondo cui “il diritto parlamentare è la clinica del diritto costituzionale”: il luogo, cioè, nel quale i soggetti e gli organi si manifestano nelle loro patologie. Secondo Manzella, non sono state sfruttate le risorse disponibili, come ad esempio l’art. 72 Cost., che si presenta come clausola aperta ai procedimenti speciali. Patologico appare invece il rapporto tra Parlamento e Governo, soprattutto nel quadro della programmazione dei lavori. Per porre rimedio a queste degenerazioni del diritto parlamentare, crede che la Costituzione debba essere cambiata rafforzando le garanzie dell’Opposizione; giungendo ad affermare la capacità delle Camere di avere un giudice esterno, come Spagna, Francia e Germania. In ultimo, si è soffermato sul problema della rappresentanza del Parlamento, oggi indebolita dalla incapacità a porsi in relazione con la nuova società.

Ileana Boccuzzi e Franco Rossi