I raccordi istituzionali e le garanzie delle autonomie locali. Nodi e prospettive (Roma, 1 aprile 2009) – Resoconto convegno

05.05.2009

Il giorno 1 aprile 2009, si è tenuto presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione Locale il seminario conclusivo della ricerca della SSPAL su “Le garanzie delle autonomie locali tra ordinamenti statale e regionali” avente come tema “ I raccordi istituzionali e le garanzie delle autonomie locali”.

La prima sessione “Le prospettive dei raccordi istituzionali nei progetti di legge in discussione in Parlamento” è stata presieduta dal Dott. Walter Anello, che nel presentarla ha sottolineato come nella prospettiva della ripresa del percorso parlamentare sul federalismo, soprattutto a fronte dell’approvazione da parte del Senato del disegno di legge di attuazione del federalismo fiscale, acquistano una crescente rilevanza le attività concertative e di coordinamento tra gli enti territoriali. Il carattere costitutivo riconosciuto alle autonomie locali dal novellato Titolo V della Costituzione comporta la valorizzazione delle forme di partecipazione delle stesse ai processi decisionali nazionali e regionali, anche attraverso l’attivazione di sedi istituzionali di confronto e di concertazione ed il rinnovamento delle sedi concertative già presenti nel nostro ordinamento multilevel . In particolare oggetto del dibattito è l’analisi dei raccordi tra Regioni ed enti locali, oltre che l’annosa questione relativa alla rappresentanza degli enti locali nelle sedi decisionali e agli strumenti di garanzia dell’autonomia locale.

I temi di riflessione sono stati introdotti dal Prof. Franco Pizzetti che si è soffermato sulla dimensione caotica del nostro ordinamento relativamente agli argomenti oggetto di discussione. I fattori da cui deriverebbe questa situazione sono essenzialmente tre.
In primo luogo si rileva la pluralità di interventi normativi volti a modificare l’assetto delle competenze dei vari livelli di governo, a partire dalla l. 59/1997 (cd. Legge Bassanini) e successivi decreti attuativi, incentrata sulla definizione del federalismo amministrativo, e dalla riforma costituzionale del Titolo V, incentrata invece sulla rimodulazione della potestà legislativa tra Stato e Regioni. Il contesto istituzionale che ne è derivato, è stato in seguito reso ancora più complesso dalla mancanza di norme di attuazione e dal conseguente ruolo di supplenza del legislatore statale assunto dalla Corte costituzionale che attraverso interventi episodici ha cercato di riempire di contenuti le molteplici disposizioni programmatiche del novellato titolo V della Costituzione.
In secondo luogo, la moltiplicazione delle sedi concertative e collegiali, come si evince dal disegno di legge approvato dal Senato sul federalismo fiscale, in assenza, tuttavia, di una ridefinizione normativa del sistema delle Conferenze, sempre più in crisi, e dell’istituzione di strumenti di collaborazione e codecisione anche a livello parlamentare. In tal senso, sintomatica è l’inattuazione dell’art. 11 della l. cost. n. 3 del 2001, in base al quale “sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione, i regolamenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali”, oltre che la mancata riforma in senso federale del Senato.
In terzo luogo, l’acquisizione di nuove e maggiori competenze da parte degli enti locali avvenuta in maniera caotica ed incoerente data la pluralità degli strumenti normativi predisposti ad hoc. Si pensi, per esempio, alle nuove competenze acquisite dagli enti locali in materia di sicurezza; si tratta di un conferimento di competenze che crea importanti conseguenze da un punto di vista ordinamentale-istituzionale, oltre che concrete difficoltà gestionali data la diversità della realtà del territorio italiano.

È in seguito intervenuto il Prof. Stelio Mangiameli il quale, proseguendo con l’analisi del quadro istituzionale italiano ricostruito da Pizzetti, ha individuato ulteriori elementi che hanno determinato la natura caotica del sistema italiano delle autonomie. In primo luogo, la mancanza di un quadro normativo di attuazione e completamento del Titolo V della Costituzione che con le sue novelle ha sovvertito il quadro delineato dalle leggi Bassanini improntato ad un criterio di gerarchia e non di competenza dal momento che, fermo restando il principio di sussidiarietà nell’esercizio delle funzioni, i livelli di governo più elevati avevano tutte le competenze degli enti più vicini ai cittadini. In secondo luogo, il ruolo di supplente del legislatore nazionale assunto dalla Corte costituzionale che ha cercato di colmare i vuoti normativi con soluzioni prassiste individuate caso per caso. In proposito, il relatore ha sottolineato la natura innovativa della giurisprudenza del giudice delle leggi che, spesso, ha finito per sovvertire lo stesso ordine costituzionale, come delineato dal novellato Titolo V, non solo in riferimento al riparto di competenze tra Stato e Regioni – si pensi alle sentenze n. 303/2003 e 14/2004 – ma anche in relazione al contenuto dell’art. 114, Cost. – si veda la cosiddetta sentenza Bile n. 214/2004 – , oltre che al potere sostitutivo ed all’interpretazione dei parametri che lo Stato e le Regioni possono invocare per l’impugnazione per l’esame di legittimità costituzionale.
Il prof. Mangiameli si è poi soffermato sull’analisi del disegno di legge sul federalismo fiscale ed in particolare sulle norme ordinamentali, in esso contenute, concernenti le Città metropolitane e la Città Roma capitale, ed infine sul principio di leale collaborazione e sull’importanza delle Conferenze, per l’attuazione di tale principio, in assenza di strumenti di cooperazione a livello parlamentare. Tuttavia, è stata ribadita l’esigenza di riformare il sistema delle Conferenze, a fronte della consapevolezza che la concertazione italiana è divenuta sempre più paralizzante.

Tale esigenza di modificare l’assetto ed il funzionamento delle Conferenze è stata sottolineata anche dal Cons. Guido Carpani, che ha evidenziato lo stato di crisi in cui versa il sistema delle conferenze così come disciplinato dalla l. n. 281/1997, e si è soffermato sui fattori che lo hanno determinato, tra cui l’eccessivo ricorso alle Conferenze anche per questioni di minima rilevanza da una parte e il moltiplicarsi di organismi “extra-Conferenze” – si pensi alle Commissioni tecniche istituite dal disegno di legge sul federalismo fiscale- con il conseguente svuotamento di alcune importanti funzioni degli stessi meccanismi di concertazione che fanno capo alle Conferenze, oltre che con problemi di economicità e contenimento della finanza pubblica a seguito della crescita delle burocrazia integrata. Ma il fattore di crisi maggiormente rilevante , secondo il relatore, deve essere ravvisato nel moltiplicarsi delle conferenze e dei meccanismi di concertazione a livello locale tra Regione ed enti locali ricompresi nel proprio territorio. Il luogo vero di coordinamento non è più il sistema delle Conferenze dal momento che l’attuale conferenza non funziona più come sede concertativa ma spesso si limita a ratificare le decisioni adottate altrove. Proprio per questo motivo, le Regioni e gli enti locali non hanno interesse a modificare il sistema attuale della concertazione, ma al contrario tendono a moltiplicare gli strumenti di raccordo al livello regionale ed infra regionale che hanno un senso maggiormente federalista.

Il Convegno è proseguito con l’intervento della Prof.ssa Ida Nicotra, la quale, soffermandosi sul novellato quadro costituzionale dopo la riforma del Titolo V, ha evidenziato l’incompletezza del processo di riforma operato dalla l. cost. 3/2001. Tale incompletezza deve essere ravvisata in primo luogo nella mancata previsione di uno strumento di concertazione tra Regioni ed enti locali al livello legislativo; in secondo luogo nella inattuazione di alcune disposizioni cardine del nuovo disposto costituzionale, in particolare dell’art. 119, concernente il federalismo fiscale, il cui disegno di legge deve essere approvato ancora dalla Camera, dopo aver avuto esito favorevole al Senato.
Proprio il disegno di legge in questione è stato oggetto di riflessione della relatrice che ne ha evidenziato aspetti positivi e negativi. Gli aspetti positivi riguardano la responsabilizzazione degli enti nella gestione finanziaria, la previsione di meccanismi premiali e sanzionatori in base al raggiungimento degli obiettivi, l’importanza attribuita al dato demografico, considerato criterio per la ripartizione dei fondi e per l’attribuzione di funzioni e competenze, il passaggio dai costi storici ai costi basati sul fabbisogno standard, ed infine l’adeguamento dell’ordinamento finanziario delle Regioni a statuto speciale ai principi del federalismo fiscale. I nodi del disegno di legge in questione riguardano, invece, il moltiplicarsi dei soggetti che intervengono nel settore e quindi il moltiplicarsi della complessità ordinamentale, e la constatazione che attualmente non è possibile neppure orientativamente individuare il costo finanziario dell’attuazione del federalismo fiscale.

La seconda sessione “Le garanzie delle autonomie locali tra l’ordinamento statale e gli ordinamenti regionali” è stata presieduta dal dott. Vincenzo Antonelli ed introdotta dal Prof. Guido Meloni, che ha riflettuto sull’esigenza di individuare nell’ordinamento il garante dell’autonomia degli enti locali, a fronte, da una parte, del rafforzamento delle forme di autonomia in termini di competenze delle Regioni, e dall’altra della mancanza di alcuni meccanismi di chiusura del sistema, quali l’accesso delle autonomie locali alla Corte costituzionale. Proprio tale garanzia costituisce indubbiamente una questione imprescindibile per dare un equilibrio complessivo al nuovo quadro costituzionale basato sulle autonomie . Infatti, in assenza di tale previsione le autonomie locali sono sprovviste di adeguati strumenti di tutela della propria sfera di autonomia normativa.
Tale problema di garanzia per gli enti locali si pone soprattutto in relazione all’impossibilità di far valere la propria autonomia normativa, sia statutaria che regolamentare, nel caso di eccesso di competenza sia del legislatore statale che regionale. Infatti la potestà regolamentare attribuita agli enti locali in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, ex art. 117, 6° comma, costituisce un limite alla competenza statale e regionale. Tuttavia, nella misura in cui gli enti locali non sono in grado di agire in giudizio per tutelare la propria sfera di competenza, non si può parlare di un limite effettivo, ma solamente di un limite astratto facilmente superabile sia dallo Stato, che dalle Regioni.
La necessità di tutelare le autonomie territoriali attraverso la revisione della procedura di riforma costituzionale e della giustizia costituzionale è tanto più avvertita in assenza di una Camera rappresentativa degli interessi degli enti territoriali nel parlamento, luogo dell’unità del sistema policentrico. Infatti la presenza di una seconda Camera “federale” potrebbe sicuramente attenuare la problematicità di tali nodi pendenti senza, però essere da sola una soluzione sufficiente.
Rebus sic stantibus lo Stato più volte ha agito nel ruolo di garante dell’autonomia degli enti locali, impugnando numerose legge regionali in quanto ritenute lesive delle garanzie costituzionali delle autonomie territoriali minori. Tale ruolo di garante richiede, tuttavia, l’impegno del legislatore nazionale sia ad apportare le modifiche di rango costituzionali necessarie per porre in essere l’effettiva pari dignità istituzionale delle componenti della Repubblica sia ad intervenire per l’attuazione di alcune disposizioni costituzionali rimaste pendenti, quali la determinazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, di competenza statale.
In seguito alle notazioni introduttive su esposte, è intervenuto Sante Cruciali che ha analizzato il ruolo delle autonomie territoriali e l’evoluzione della loro disciplina giuridica nella storia politica dell’Italia repubblicana, a partire dagli anni del centrismo, del centrosinistra e dell’avvento delle Regioni, del pentapartito fino ad arrivare agli anni Novanta ed alla riforma del Titolo V della Costituzione.

Il convegno è poi proseguito con l’intervento del Segretario comunale Angela Erspamer che ha analizzato la disciplina degli enti locali negli statuti regionali, soffermandosi in particolar modo sulla possibilità di inserire negli stessi statuti regionali criteri per l’attribuzione delle funzioni amministrative agli enti locali e sul ruolo dei Consigli delle autonomie locali, la cui disciplina rientra nella competenza regionale, ai sensi dell’art. 123, ultimo comma, Cost. La relatrice ha evidenziato, come con riferimento ai singoli statuti il Consiglio delle autonomie locali sia disciplinato in modo vario, soprattutto per quanto concerne le funzioni ad esso attribuite, che in alcune Regioni attengono esclusivamente all’attività consultiva, mentre in altre diventano delle vere e proprie sedi di concertazione tra Regioni ed enti locali.

Ha quindi preso la parola il dott. Marco Di Folco che, ancor prima di entrare nel merito della ricerca svolta concernente l’autonomia normativa locale nella legislazione regionale, ha ritenuto opportuno fare una premessa di carattere metodologico evidenziando che la stessa è stata realizzata definendo, anzitutto, un modello teorico di interpretazione, alla luce del riformato Titolo V della Costituzione, del rapporto tra la legislazione regionale intesa in senso ampio (Statuto e leggi regionali) e autonomia normativa locale; è stato poi svolta un’analisi sulla conformità di suddetta legislazione al dettato costituzionale, prendendo in considerazione altresì le differenze esistenti in merito tra regioni a statuto ordinario e quelle a statuto speciale (titolari di una competenza primaria in materia di ordinamento degli enti locali). Il relatore evidenzia che, dato il nuovo quadro delineato dal legislatore del Titolo V della Costituzione, la possibilità per le fonti statali e regionali di intervenire in via cedevole nell’ambito di competenza delle autonomie locali deve essere limitata ai casi in cui il rapporto si atteggia in termini di concorrenza e non di separazione tra legislazione statale o regionale e potestà normativa delle autonomie locali. Questa posizione, infatti, seppur non del tutto condivisa in dottrina, trova conforto nella giurisprudenza costituzionale (Corte Costituzionale, sent. n. 246 del 2006). Dato il quadro teorico di riferimento, il relatore analizzando la legislazione regionale, intensa in senso ampio, rileva che quest’ultima si configura come norma sulla produzione dell’autonomia normativa locale. La legislazione regionale, infatti, interviene a regolare i rapporti tra fonti normative regionali e locali individuando un relazione di cedevolezza tra le stesse anche successivamente alla citata sent. n. 246 del 2006 della Corte Costituzionale nella quale si dispone che «allorquando il legislatore regionale, nell’ambito delle proprie materie legislative, disponga discrezionalmente delle attribuzioni agli enti locali di funzioni amministrative, ulteriori rispetto alle loro funzioni fondamentali, non può contestualmente pretendere di affidare ad un organo della Regione, neppure in via suppletiva, la potestà regolamentare propria dei Comuni o delle Province in riferimento a quanto attribuito loro dalla legge regionale medesima, poiché solo questi ultimi possono – ai sensi dell’art. 117, comma sesto, Cost. – adottare i regolamenti relativi all’organizzazione ed all’esercizio delle funzioni loro affidate dalla Regione». L’orientamento della Corte, quindi, sembra essere rimasto disatteso.
Il relatore evidenzia altresì che in alcuni casi la legislazione regionale, intesa in senso ampio, si atteggia ad essere fonte di produzione: le leggi regionali di conferimento di funzioni, infatti, dato il riconoscimento costituzionale della potestà regolamentare in capo agli enti locali (art. 117, c. 6 Cost.), se da un lato ampliano l’ambito di normazione secondaria degli stessi, d’altro canto, però, dettando una disciplina sostanziale e procedurale per l’esercizio della stessa, sembrano collidere con il dettato costituzionale.
In conclusione, il dott. Di Folco, alla luce dell’analisi condotta, rileva la mancanza di un effettivo processo organico di trasferimento di funzioni amministrative a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione: esso continua ad essere a carattere settoriale o micro-settoriale. Inoltre, la legislazione regionale concernente il trasferimento di funzioni amministrative, dettando spesso anche norme di natura sostanziale e procedurale, sembra comprimere eccessivamente l’autonomia normativa locale. A tal proposito è possibile individuare solo alcune linee di tendenza: in alcuni casi la legislazione regionale introduce disposizioni molto dettagliate concernenti lo svolgimento delle funzioni trasferite; in altri casi si riservano di definire delle linee guida per l’esercizio delle stesse. Ciò, ad avviso del relatore, non sembra del tutto compatibile con il novellato Titolo V della Costituzione che riconosce autonomia regolamentare relativamente all’organizzazione e all’esercizio delle funzioni conferite.

Il Convegno è stato poi coordinato dal dott. Vincenzo Antonelli che ha trattato il tema dei controlli e dei poteri sostitutivi negli ordinamenti regionali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. Premettendo che l’abrogazione delle disposizioni costituzionali relative ai Commissari di governo e agli organi regionali di controllo (art. 124, 125, comma 1, e 130 Cost.) e, più in generale, la soppressione dei controlli preventivi ed esterni di legittimità sugli atti delle amministrazioni locali costituisce un corollario diretto dell’equiordinazione istituzionale tributata agli enti territoriali costitutivi della Repubblica (art. 114 Cost.), focalizza la propria attenzione sugli effetti che tali rilevanti modifiche costituzionali hanno comportato sull’assetto delle relazioni tra Stato, regioni ed autonomie locali, con particolare riguardo al possibile “regionalizzazione” dei controlli. Il relatore, a tal proposito, evidenzia l’esistenza di una molteplicità di fonti che disciplinano la materia, in particolare la legislazione statale concernente il controllo sugli organi e quella espressione dell’autonomia normativa dell’ente locale in cui trovano spazio le forme di autocontrollo dell’ente locale. Con riguardo, invece alla normativa regionale in materia di controlli, ad avviso del relatore, confortato anche dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale (Consiglio di Stato, sez. V, 8 agosto 2003, n. 4598), venuta meno la previsione di un controllo regionale sugli atti delle autonomie locali, devono ritenersi, per ciò stesso, caducate ed espunte dall’ordinamento tutte le norme che su tale supporto poggiavano, evidenziando altresì che per quanto concerne i controlli sugli organi delle amministrazioni locali, la Corte Costituzionale ha espressamente sostenuto l’estraneità dall’area delle competenze legislative delle Regioni degli interventi regionali sugli organi degli enti locali per motivi concernenti l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica ( Corte Costituzionale, 1 dicembre 2006, n. 396). Dunque, la valorizzazione dell’autonomia degli enti locali ha comportato un forte ridimensionamento delle potestà regionali e statali in materia, impedendo alla legge statale e regionale di riproporre forme di controllo eterodirette e governate da una logica di gerarchia. In particolare, il relatore ritiene necessaria, da un lato, in funzione garantista, una disciplina statale di sistema indicativa dei principi in materia di controlli (art. 117, c. 2, lett. p, Cost.); d’altro canto considera altresì fondamentale che le autonomie locali rendano più “vigoroso” il sistema di controlli, quali ad esempio quello svolto dal difensore civico, rendendo gli stessi sempre più obbligatori. In questo quadro, la disciplina regionale in materia, alla luce di un’analisi dei nuovi statuti e della legislazione, appare fortemente differenziata e settorializzata. Manca, infatti, una disciplina organica dei controlli a livello regionale: le singole leggi di conferimento di funzioni agli enti locali disciplinano anche le relative forme di controllo sull’esercizio delle medesime.
Accanto alla necessità di razionalizzare la disciplina in materia di controlli ai diversi livelli di governo, il relatore rileva altresì l’esigenza di rinnovare e rafforzare gli strumenti e le forme della leale collaborazione anche in funzione dell’esercizio dei poteri sostitutivi. In questo senso, un ruolo centrale è giocato dalla regolamentazione dei Consigli delle Autonomie locali (CAL), considerati sempre più dallo Stato come i soggetti effettivamente rappresentativi delle autonomie locali e quindi interlocutori “privilegiati”, mentre ciò non sembra accadere a livello regionale. L’art. 120 Cost., infatti, secondo un costante orientamento del Giudice costituzionale, non esaurisce – concentrandole tutte in capo allo Stato – le possibilità di esercizio dei poteri sostitutivi, ma si limita a prevedere un potere sostitutivo straordinario attribuito al Governo (Corte Costituzionale, 2 marzo 2004, nn. 69, 70, 71, 72 e 73). Sicché non si preclude, in via di principio, la possibilità che anche la legge regionale intervenendo in materia di propria competenza e nel disciplinare l’esercizio delle funzioni amministrative di competenza dei Comuni, preveda poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il compimento di attività obbligatorie, in caso di inerzia o di inadempimento da parte dell’ente competente, al fine di salvaguardare interessi unitari e nel rispetto, peraltro, di rigorosi limiti prefissati dal legislatore, a tutela dell’autonomia degli enti locali (Corte Costituzionale, sent. n. 43 del 2004). Le disposizioni statutarie e legislative a riguardo, hanno previsto in alcuni casi la necessità di acquisire il previo parere dei CAL, in altri la comunicazione al Consiglio regionale, in altri casi ancora hanno ridefinito in maniera sostanziale la disciplina in materia di strumenti sostitutivi regionali.
Nel concludere il proprio discorso, il relatore fa un breve cenno alla disciplina dei controlli nelle Regioni a statuto speciale conseguenti alla riforma del Titolo V della Costituzione, rilevando che, a seguito dell’abrogazione dell’art. 130 Cost., la Valle d’Aosta (legge regionale 21 gennaio 2003, n. 3) e il Friuli Venezia Giulia (legge regionale 11 dicembre 2003, n. 21) hanno disposto la soppressione degli organi regionali di controllo mentre la Sicilia, con un atto di indirizzo della giunta regionale (delibera n. 40 dell’11 febbraio 2002) ha sancito la sospensione generalizzata dell’esercizio della funzione di controllo delle sezioni del Co.Re.Co. Pur trattandosi di interventi di indubbio rilievo, ciò che ha contributo a delimitare in maniera significativa lo spazio di intervento delle regioni a statuto speciale in materia di controlli è stata la giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha sostanzialmente riconosciuto il carattere esclusivo, tra l’altro, della competenza in materia di controlli sottolineando che l’esercizio della stessa, conseguentemente, non è più rigorosamente vincolato all’osservanza dei principi delle leggi dello Stato, ma è soggetto ai soli limiti derivanti dai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato (Corte Costituzionale, 7 dicembre 1994, n. 415). La Consulta costituzionale, inoltre, ha ritenuto che i principi dell’art. 120 Cost. sono applicabili anche alle regioni speciali con la conseguenza che un potere sostitutivo statale può trovare applicazione anche nei confronti delle Regioni a statuto speciale (Corte Costituzionale sent. n. 236 del 2004; n. 267 del 2006 e n. 179 del 2007).

Successivamente è intervenuto il dott. Edoardo Giardino che ha incentrato la propria relazione sul tema delle forme associative degli enti locali nell’esperienza regionale evidenziando che, alla luce dell’analisi svolta, non si registrano differenze particolari rispetto alle forme associative identificate al Capo V, intitolato “Forme Associative”, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali). Richiamando quanto detto in merito dal Presidente Pizzetti, il tema delle forme associative dipende in modo significativo dall’inadeguatezza delle dimensioni comunali (in media i comuni italiani hanno una popolazione inferiore a temila abitanti). Secondo il relatore sarebbe opportuna una rivisitazione dei criteri identificativi dell’ente comunale, soprattutto con riguardo al criterio demografico mentre, per quanto concerne la disciplina delle forme associative, alla luce della giurisprudenza costituzionale, nonché dell’art. 117, comma 2, l. p) e dell’art. 117, comma 6 Cost., essa non può essere di competenza esclusiva regionale ma è necessario un concorso tra Stato, regioni ed Enti locali.
Analizzando in maniera più dettagliata il complesso universo delle forme associative, il relatore evidenzia che esse perseguono precipuamente interessi di natura sovra-comunale. Le leggi regionali in materia presentano una certa diversità attribuendo, in alcuni casi, ai comuni stessi la creazione di ambiti ottimali per l’esercizio delle funzioni mentre, in altri casi, la normativa regionale definisce criteri specifici per la loro individuazione, prevedendo altresì meccanismi di incentivazione delle forme associative.
Ulteriore aspetto che viene in rilievo è la difficoltà di individuare la natura di questi organismi che, se da un lato non può qualificarsi in senso stretto giuridica, d’altro canto l’inesistenza degli stessi creerebbe notevoli difficoltà per lo svolgimento delle funzioni a livello locale. Alcuni, a tal proposito, hanno sostenuto che, tali funzioni potrebbero essere svolte dalle Province ma tale ipotesi non sembra praticabile dato che il presupposto per l’intervento dell’ente provinciale è l’inerzia e non l’inadeguatezza; d’altro canto, la previsione di associazioni obbligatorie si scontrerebbe con il principio costituzionale di autonomia disposto all’art. 114 Cost. Alcune leggi regionali, in particolare hanno disposto il conferimento di funzioni comunali e provinciali in favore di organismi associativi, come ad esempio la legge della regione Umbria n. 23 del 2007 che ha previsto il conferimento di funzioni comunali e provinciali agli Ambiti Territoriali Integrati. Ad avviso del relatore sarebbe quindi opportuno che il legislatore ponga dei limiti o ridefinisca meglio la natura delle forme associative, dato il possibile rischio di violare l’art. 114 Cost. ai sensi del quale «la Repubblica è costituita da Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».

Ha quindi preso la parola il dott. Antonio Borzi che ha incentrato la propria relazione sulla disciplina regionale delle sedi di raccordo e concertazione prima e dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, rilevando che già la legge 8 giugno 1990, n. 142 concernente l’“Ordinamento delle autonomie locali” prevedeva degli strumenti di cooperazione e associazione tra i diversi livelli di governo. In particolare, analizzando le diverse normative regionali, il relatore individua due principali modelli di collaborazione: le conferenze ed i consigli delle autonomie locali.
La legislazione regionale contiene specifiche previsioni concernenti la costituzione delle conferenze che si caratterizzano per essere a composizione mista regioni-autonomie locali. Per quanto concerne la rappresentanza regionale, in alcuni casi la normativa ha previsto il diritto di partecipare della stessa ma non quello di voto (si veda in tal senso la legge della Regione Lombardia) ovvero la co-presidenza (si veda in al senso la legge della regione Emilia Romagna). Con riguardo invece alla rappresentanza locale, la normativa regionale ha dispost, in alcuni casi, la designazione da parte delle associazioni degli enti locali, in altri ha previsto forme di rappresentanza di II grado; in altri ancora la rappresentanza è stata allargata anche ai rappresentanti delle autonomie funzionali (si veda in tal senso la legge della regione Lombardia). Con riguardo al profilo funzionale, le conferenze, oltre ad essere organismi di impulso, sono titolari della funzione consultiva che si espleta attraverso un parere obbligatorio ma non vincolante reso inizialmente solo sugli atti di programmazione regionale, e poi successivamente anche sulle leggi regionali. Accanto alla mera funzione consultiva, in alcuni casi il legislatore regionale ha previsto, per alcuni atti, la necessaria intesa tra conferenza e giunta regionale. Si tratta comunque di intesa “debole” dato che se non si raggiunge entro il termine previsto, la giunta, salvo l’obbligo di motivazione, può comunque proseguire.
Un altro modello di cooperazione tra livello regionale e locale utilizzato già in alcune Regioni (Umbria e Toscana) nel periodo antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione è il Consiglio delle Autonomie Locali (CAL), costituzionalizzato – a seguito della legge cost. n. 1 del 1999 – all’art. 123, comma 4 Cost. nel quale si dispone che «in ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali». A seguito della richiamata previsione costituzionale, i legislatori regionali, in alcuni casi, hanno abrogato le norme sulle conferenze sostituendole con quelle istitutive dei CAL (Liguria, Puglia, Lazio); in altri casi hanno mantenuto entrambi gi organismi di raccordo (Piemonte); in altri ancora hanno valorizzato il rapporto con la Giunta regionale (Abruzzo, Calabria, Umbria). Il relatore, alla luce dell’analisi svolta, conclude rilevando che se da una parte non è ancora del tutto chiaro il ruolo che i CAL avranno in futuro dall’altra, non può non rilevarsi che gli stessi, non essendo considerati nelle legislazioni regionali meri organismi di salvaguardia delle prerogative delle autonomie locali, siano potenzialmente idonei ad incidere in modo significativo sulle scelte che attengono alle politiche regionali.

E’ poi intervenuto il dott. Ciro Amato che ha dato testimonianza della sua esperienza di segretario comunale nella multilevel governance. Quest’ultima configura l’ordinamento sotto il profilo strutturale ma, accanto a questo dato, un elemento imprescindibile per il funzionamento della stessa è rappresentato dalla disciplina dell’organizzazione, di competenza dirigenziale. Ad avviso del relatore, il dirigente si trova ogni giorno ad affrontare numerose difficoltà nell’esercizio delle sue funzioni dovute primariamente alla mancanza di strumenti e poteri che gli permettano una completa gestione dell’amministrazione. Concludendo il proprio intervento, il dott. Amato evidenzia la necessità da un lato che ai dirigenti di carriera, nell’ottica di una gestione efficace, efficiente ed economica dell’azione amministrativa, possano esercitare anche una funzione di programmazione dell’attività; d’altro canto rileva l’esigenza di un forte ridimensionamento dell’istituto dello spoil system che, a parere del relatore, può compromettere il sereno svolgimento delle funzioni dirigenziali, potendo ingenerare la possibile dipendenza degli stessi dal potere politico.

Conclude il seminario la prof.ssa Ida Nicotra rilevando come le sedi di raccordo interistituzionale presentano numerosi elementi di criticità anche, tra le altre, a causa della mancanza nel testo costituzionale – salvo il riferimento ai Consigli delle autonomie locali disposto all’art. 123 Cost. – di alcun riferimento alle stesse. La stessa previsione concernente i Consigli delle Autonomie Locali (CAL) si mostra insufficiente a garantire un ruolo incisivo delle enti locali nell’ambito dei rapporti con le regioni, data l’eccessiva generalità della disposizione normativa e la mancanza di sanzioni. Data l’inclinazione del sistema in senso federale, rileva che sarebbe stata opportuna una legge organica dello Stato di definizione della composizione e delle funzioni dei CAL. In questo quadro, le Regioni e le autonomie locali avrebbero potuto definire gli aspetti più prettamente organizzativi. La generalità dell’art. 123 Cost., la mancanza di una legge organica statale nonché di un sistema sanzionatorio attivabile in caso di mancato coinvolgimento dei CAL ha reso sostanzialmente deboli questi organismi di raccordo interistituzionale.
Per quanto concerne le Conferenze, la relatrice evidenzia la mancata previsione delle stesse nel testo costituzionale, rilevando altresì come i problemi concernenti il loro funzionamento siano stati superati, come mostra l’esperienza, attraverso altri strumenti quali gli accordi (si veda a tal proposito il recente accordo Governo-Regioni sull’edilizia), nei quali si misura sempre di più l’importanza che progressivamente assumono le autonomie territoriali nel nuovo assetto costituzionale non soltanto sotto il profilo giuridico (art. 114 Cost.), ma soprattutto politico. In questo quadro, dunque, diventa sempre più necessaria, nell’ambito di un processo di riforma di più ampio respiro, la costituzione di una Camera rappresentativa delle autonomie territoriali al fine di una condivisione “corale” delle diverse esigenze territoriali.
Con riguardo alle forme associative e le fusioni tra comuni, auspicate anche dal d.d.l. sul federalismo fiscale (C205 e abb.), esse rappresentano un diverso modo di essere dei comuni. Se da un lato, infatti, la giurisprudenza costituzionale considera quali enti istituzionali solo quelli previsti dall’art. 114 della Costituzione, d’altro canto non può non rilevarsi che, alla luce dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza per l’esercizio delle funzioni amministrative, salvo voler ripensare agli stessi criteri di identificazione dei comuni, l’art. 118 della Costituzione considera anche enti diversi da quelli elencati all’art. 114 Cost.. E’ dunque fondamentale, in un sistema di multilevel governance, rendere obbligatorie le forme associative essendo gli strumenti indispensabili per una gestione adeguata ed efficace delle funzioni. In questo senso, la definizione degli ambiti territoriali ottimali rappresenta un importante passo in avanti. Al fine di definire la natura o meno necessaria delle forme associative (si pensi alle comunità montane, enti non costituzionalmente necessari) bisogna guardare non tanto all’esistenza o meno di una previsione costituzionale che ne indichi la necessarietà quanto alla funzione servente o meno dell’ente ad un interesse costituzionalmente protetto.
Per quanto concerne i controlli, l’abrogazione degli art. 125, comma 1 e 130 della Cost. ha ridefinito in maniera significativa l’istituto, essendo ormai tramontata la concezione del controllo sull’atto in favore di un’idea dei controlli incentrata sulla gestione e sull’efficacia in termini di risultati dell’azione amministrativa.
Con riguardo al rapporto tra fonti e ambiti di competenza tra gli enti costitutivi della Repubblica, nel periodo antecedente alla riforma del Titolo V, il principio che ha guidato la dottrina nella definizione degli stessi è stato quello competenziale ovvero il ritaglio di competenze. Con la riforma del Titolo V si è avuta, tra le altre, l’abrogazione dell’art. 128 Cost. che non ha significato l’attribuzione di funzioni alle Regioni ma semplicemente una ridefinizione delle stesse alla luce del novellato art. 114 Cost. A tal proposito, nell’ottica di garantire e valorizzare l’autonomia degli enti territoriali, l’unico soggetto capace di definire i principi per l’esercizio della potestà regolamentare da parte di questi ultimi, non può che essere lo Stato. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, la Regione è divenuta ente a competenza legislativa generale, i comuni sono diventati enti a competenza amministrativa generale (art. 118 Cost.). In questo quadro, l’ente più “adeguato” a definire i principi per l’esercizio dell’attività di normazione secondaria è rappresentato dalla Stato.
Per quanto concerne, infine, il ruolo della dirigenza nella multilevel governance la relatrice concorda pienamente con le tesi del dott. Amato concernenti l’affidamento dell’attività di programmazione in favore del dirigente e, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale (Corte Costituzionale sett. n. 103 e 104 del 2007) il necessario ridimensionamento dell’istituto dello spoil system, potendo provocare rilevanti disfunzioni di sistema tali da pregiudicare il corretto e sereno svolgimento delle funzioni dirigenziali.


Valentina Lepore e Carmela Salerno