Democrazia partecipativa in Italia Europa: esperienze e prospettive (Fireze, 2-3 aprile 2009) – Resoconto convegno

05.06.2009

l 2 e il 3 aprile 2009 si è svolto a Firenze il convegno internazionale “Democrazia partecipativa in Italia Europa: esperienze e prospettive”, un’occasione di riflessione sulla base dei risultati di un Progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN) che ha visto la collaborazione di ricercatori dell’area giuspubblicistica delle Università di Firenze, di Napoli-Partenope e di Cagliari e della Facoltà di Architettura dello stesso Ateneo cagliaritano. Il convegno, cui hanno partecipato in rappresentanza dell’Unità di Ricerca LUISS la dr.ssa Caterina Bova e la dr.ssa Federica Parisi, ha inteso porre all’attenzione degli studiosi delle diverse discipline alcune problematiche meritevoli di ulteriore approfondimento.
In particolare, hanno partecipato al Convegno studiosi, operatori e amministratori nazionali ed europei, grazie ai quali è stato possibile affrontare un dibattito ricco per quanto concerne un variegato panorama di esperienze, anche molto differenti tra loro (quali, ad esempio, il débat public, bilancio partecipativo, laboratori partecipati), delle quali si da brevemente conto nelle pagine che seguono.

Il convegno ha avuto inizio con la ampia ed articolata relazione di Umberto Allegretti che ha brillantemente affrontato alcuni dei più significativi istituti riconducibili a pratiche partecipative le cui forme “pure” sono quelle sperimentate a Porto Alegre e Belo Horizonte.
La democrazia, sostiene Allegretti, è un concetto complesso e non alieno da disfunzioni; pertanto, diviene necessario indagare lo spazio ulteriore rappresentato dallo spazio pubblico-politico in cui agisce la società civile con tutti i suoi attori. In questo quadro, la partecipazione è spesso vista come rimedio alla delegittimazione della classe politica e tecnocratica. Tenuto conto che non esiste una sola forma di democrazia partecipativa, è lecito parlare di pratiche partecipative ovvero di una pluralità di forme che vanno a comporre una grande famiglia e che si fondano sulla concreta apertura alla società. La partecipazione, per esser tale, deve essere garantita fino al momento della decisione finale, attraverso un’influenza effettiva sull’istituzione rappresentativa, con riferimento ad una scala territoriale preferibilmente limitata.
Perché si possa effettivamente parlare di partecipazione, è necessario che esistano alcune “norme-quadro” che consentano di identificare soggetti e fasi della decisione; ai fini dell’efficacia dei processi partecipativi è necessario che si verifichino condizioni attraverso cui le procedure partecipative diventino realmente praticabili, quali per esempio le assemblee pubbliche o l’uso adeguato delle tecnologie informatiche (come i social network) cui deve aggiungersi una reale disposizione dei singoli al dialogo con le amministrazioni e al contempo la volontà delle istituzioni ad un reciproco riconoscimento dei ruoli.
Le prospettive, naturalmente, si misurano sulla qualità delle sfide, come quella rappresentata dal bilancio partecipativo che, pure, ha visto numerose applicazioni in varie realtà locali, in Italia come all’estero.
L’intervento di Bifulco sulla “Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione” è stato caratterizzato da un impianto strettamente teorico; Bifulco si è proposto di esaminare le relazioni che intercorrono tra democrazia deliberativa e democrazia partecipativa, senza trascurare di indagare, nella parte finale del suo intervento, il rapporto fra democrazia deliberativa e partecipativa con la democrazia rappresentativa. Dopo aver puntualmente ripercorso alcuni momenti storici fondamentali per il nostro Paese ed essersi soffermato in particolare sugli anni ’70, periodo in cui il fenomeno della partecipazione ha assunto in Italia un particolare valore simbolico, Bifulco si è soffermato a riflettere sulle eventuali differenze teoriche e/o applicative fra la democrazia deliberativa e quella partecipativa e/o sulle esigenze eventualmente identiche che esse esprimono. Ciò che secondo Bifulco è chiaro è che tutte e due le forme di partecipazione si collocano all’interno dello stesso campo teorico e si occupano dello stesso problema, ovvero come aprire i processi decisionali pubblici ai diversi livelli di governo e a tutti coloro che possono risultare interessati. Mentre, con il termine democrazia deliberativa si rinvia a un complesso insieme teorico, molto differenziato al suo interno, con connotazioni fortemente innovative; la democrazia partecipativa si caratterizza per la sua valenza soprattutto applicativa.
Bifulco, precisando che non tutta la dottrina è d’accordo sul punto, riconosce che due sono gli elementi distintivi della democrazia partecipativa: 1) tutte le forme di democrazia partecipativa danno vita a tecniche dirette a permettere che tutti coloro che sono interessati da una decisione pubblica siano consultati ed esprimano una propria posizione; 2) l’effetto della partecipazione non è quello di trasferire il potere decisionale finale in capo ai partecipanti. L’intervento passa poi a comprendere il rapporto di compatibilità fra i requisiti teorici della democrazia deliberativa, le forme applicative della democrazia partecipativa e la realtà della democrazia rappresentativa. Bifulco vuole provare a sostenere che tutte queste forme di democrazia devono essere profondamente diverse e compatibili; la democrazia deliberativa è un modello teorico che mira a rendere possibili forme di comunicazione sociale fondate su presupposti profondamente diversi rispetto a quelli della democrazia rappresentativa. Fra queste forme di democrazia c’è un rapporto di contiguità e non di alter natività. La loro contemporanea presenza nel tessuto giuridico e istituzionale di un ordinamento arricchisce il tasso di democrazia dello stesso.
Di particolare interesse è stato anche l’intervento di Charbonneau, “Expériences de démocratie participative en France” che ha, fra l’altro, suscitato un vivace dibattito con la rappresentante della Commissione nazionale sul dibattito pubblico presente in sala.
Charbonneau ha ripercorso innanzitutto alcuni momenti storici fondamentali per l’affermazione del principio di partecipazione in Francia; ha ricordato che in seguito agli anni ’60 si è verificata una crescente presenza dello Stato nella società civile anche per il moltiplicarsi del numero delle controversie causate dall’ingerenza dello Stato in settori e/o materie non di sua competenze. È in quegli stessi anni che in Francia si vanno affermando le associazioni e cominciano a far parte integrante nella vita politica pubblica.
Charbonneau ha esposto con puntualità tutte le modalità di partecipazione previste nell’ordinamento giuridico francese, soffermandosi, in particolare, sull’istituto del dibattito pubblico e mettendo in rilievo le modalità di svolgimento e gli effetti nonché gli aspetti critici dello stesso. Charbonneau mette in luce le problematiche concernenti la Commissione nazionale del dibattito pubblico, le modalità di nomina dei suoi componenti e le conflittualità continue con le associazioni ed i cittadini. Nel corso del suo intervento ha ribadito il ruolo significativo che ormai il dibattito pubblico ha assunto nel tessuto sociale francese; si tratta di una procedura che segna un progresso importante per l’affermazione di una cultura che deve tenere necessariamente conto dei cittadini e del loro pensiero soprattutto quando si tratta di realizzare opere pubbliche che abbiano un forte impatto sulla popolazione. Al contempo, il relatore ha messo in rilievo che molto spesso il dibattito pubblico, così come organizzato, non risulta perfettamente credibile, anche perché a volte la discussione si svolge nel momento in cui la decisione è già stata assunta o comunque non può essere sostanzialmente modificata. (Questo è per esempio quanto accaduto con riferimento alla decisione concernente lo spostamento di uno stabilimento nucleare).
Secondo Charbonneau il dibattito pubblico ha ancora oggi un effetto troppo debole rispetto alla decisione finale; tant’è che nell’80% dei casi non ha avuto alcun effetto, mentre solo in alcuni rari casi il progetto è stato accantonato in seguito al dibattito. Ad avviso del relatore una delle criticità dell’istituto in esame consiste nella modalità di composizione della Commissione, ed in particolare delle commissioni distribuite a livello locale che molto spesso sono presiedute dai prefetti che rispondono inevitabilmente al potere amministrativo.
La conclusione dell’intervento mira a sottolineare l’importanza della valorizzazione degli istituti della partecipazione, prevedendo correttivi che rendano credibili gli istituti e gli consentano di avere un reale impatto sulla decisione finale. Segue l’intervento di Charbonneau una brevissima replica della rappresentante della Commissione nazionale che ha tenuto a fare delle precisazioni in particolare sulle modalità di svolgimento del dibattito pubblico e sulla composizione della commissione. È stato chiarito che l’Autorità è deputata a controllare il rispetto del principio di partecipazione; che il dibattito pubblico non rappresenta il momento della decisione bensì il momento del dialogo e dell’ascolto; esso soddisfa un bisogno della società, ovvero l’importanza di essere informati. Nel prossimo mese di settembre sarà avviato un dibattito pubblico sulle nanotecnologie, affidato dal Ministero alla Commissione. La Commissione ha quale compito precipuo quello di aiutare a fare chiarezza, di informare i committenti e di aiutare il legislatore a legiferare, procedendo affinché vengano rispettati tutti i soggetti coinvolti.
Particolare interesse ha anche rivestito l’intervento di Ganza Fernandez sulla “Democrazia e partecipazione in Spagna” che si è particolarmente soffermato sul tema del bilancio partecipativo.
Il bilancio partecipativo nelle esperienze spagnole rappresenta, infatti, lo strumento mediante il quale la cittadinanza partecipa direttamente alla definizione di una parte del bilancio pubblico.
Gli obiettivi perseguiti dai bilanci partecipativi in Spagna (si contano 30 esperienze a livello nazionale nell’anno 2008), secondo ragioni politiche, sono essenzialmente le seguenti: 1) aumentare l’informazione e la trasparenza della gestione pubblica; 2) aumentare il controllo politico e il rendiconto mediante un processo di presa di decisioni pubbliche; 3) favorire la partecipazione cittadina nella gestione pubblica.
I bilanci partecipativi, in tal senso, si propongono di stabilire un processo intenso di partecipazione in cui vi sia un dialogo continuo tra la cittadinanza e il governo municipale, inteso quale strumento di democrazia diretta al fine di permettere il miglioramento della stessa democrazia partecipativa.
I conflitti politici e sociali generati nell’ambito dei bilanci partecipativi non hanno permesso né di modificare gli assetti amministrativi, né di stabilirsi come canale di comunicazione tra la cittadinanza e il governo. Il Bilancio Partecipativo sembra volere, tuttavia, migliorare la democrazia anche solo per stabilire un processo di acquisizione di decisioni pubbliche aperto alla cittadinanza.
Sempre in chiave comparata, un altro intervento di grande interesse, è stato quello svolto da P. Booth “Problems of participatory democracy in town & country planning in Britain”. Booth ripercorre lo sviluppo dello spatial planning nel Regno Unito, con ciò intendendo la pianificazione urbana ed extra-urbana e le caratteristiche partecipative che possono riscontrarsi sia nelle normative che si sono succedute che nella pratica amministrativa, sino alla riforma di ispirazione Laburista dell’ultimo decennio.
Tradizione cooperativo-mutualistica e radicata considerazione per il diritto di proprietà convivono nella storia inglese e sono elementi costanti già dall’introduzione dei primi Consigli Municipali del 1835. Tali organismi, dapprima espressione della élite proprietaria, hanno visto modificare la propria natura man mano in senso democratico, rivelandosi, tuttavia, insufficienti al fine di un effettivo coinvolgimento della cittadinanza.
Sin dall’Housing, Town Planning etc Act del 1909, le legislazioni in materia hanno sostanzialmente codificato quanto implementato dalle autorità locali, ed hanno cercato di contemperare partecipazione pubblica ed efficienza e velocità dei meccanismi decisionali in presenza, inoltre, di una significativa tendenza al cosiddetto atteggiamento NIMBY (not in my back yard); fenomeno inteso come aspetto degenerativo e volutamente dilatorio del processo partecipativo.
Con gli interventi normativi del 1932, 1947 e 1972, seppur con evidente cautela, sono state concesse delle aperture seppur graduali alle diverse forme della partecipazione, dal dialogo tra autorità e possidenti terrieri sino alla forme di consultazione dei cittadini prima dell’adozione di piani di zona.
È con il Planning and Compulsory Purchase Act ed il Town and Country Planning Act del 2004 che più decisamente si introducono elementi di partecipazione e coinvolgimento (involvement) dei cittadini, soprattutto nel momento iniziale delle scelte di pianificazione tentando di evitare atteggiamenti opportunistici di opposizioni; è il caso dei progetti di grandi infrastrutture per lo sviluppo. Le autorità locali inglesi hanno, dunque, l’obbligo di predisporre una Dichiarazione di Coinvolgimento della Comunità (Statement of Community Involvement) che, a seguito di un pubblico invito a produrre contributi alla luce dell’annuncio di proposizione dei piani, deve indicare come si intenderà garantire un effettivo coinvolgimento della cittadinanza.
Pur se alcuni studiosi considerano queste innovazioni quali meri adeguamenti a pratiche già in essere a livello locale, sembra pacifico affermare che nell’ultimo decennio si sia assistito ad uno spostamento dalla democrazia rappresentativa alla democrazia deliberativa, almeno per quel che riguarda la pianificazione territoriale locale. Tuttavia, altri sostengono che una ad spinta in tal senso corrisponderebbe una scarsa comprensione degli effetti, senza un reale approfondimento di come si possa effettivamente riconciliare l’interesse collettivo con quello personale.
Il convegno è proseguito con una serie di relazioni concernenti le caratteristiche e le problematiche inerenti la partecipazione a livello locale. Diversi sono stati, infatti, gli interventi che si sono soffermati a riflettere sulle modalità di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte politiche che hanno un impatto sulla popolazione.
Canafoglia ha analizzato le esperienze di bilancio partecipativo in otto comuni italiani (Arezzo, Bracciano, Locate Triulzi, Modena, Nonantola, Novellara, Paderno Dugnano, Reggio Emilia). Le esperienze descritte sono riconducibili a due modelli; Arezzo, Modena, Nonantola e Reggio Emilia sono riconducibili al modello A, basato sui tavoli di confronto, mentre Bracciano, Locate Triulzi, Novellara, Paderno Dugnano, sono riconducibili al modello B basato sulle assemblee deliberative. Altrettanto interessante la relazione di Montagnani che ha invece affrontato la questione della partecipazione dei cittadini alla formazione delle decisioni pubbliche a Reggio Emilia. L’amministrazione comunale di Reggio Emilia si era prefissata come obiettivo quello di elaborare una serie di indirizzi e di criteri guida da tenere presenti nel momento dell’avvio di un processo partecipativo.
Morisi, con una relazione dal titolo “Partecipazione e governo del territorio” ha spiegato in maniera precisa e puntuale le questioni relative alla tematica della partecipazione civica nella formazione e nella operatività delle opzioni di governo del territorio avendo cura di richiamare il nuovo Piano di indirizzo territoriale della Regione Toscana approvato nel mese di luglio 2007.
La partecipazione, sostiene Morisi, non può sostituire il processo di pianificazione territoriale, ma deve rappresentare una condizione fondamentale per giungere ad una reale condivisione delle scelte in materia di pianificazione e programmazione del territorio. E’ necessario, quindi, che la partecipazione sia momento di confronto e di ponderazione di “argomenti delicati” e non mero compromesso tra le differenti posizioni. Il valore della partecipazione è di espletarsi come esercizio di “democrazia argomentativa”, riconoscendo al policy making un ruolo più rilevante al fine di definire politiche complesse anche in presenza di conflittualità locali.
Secondo l’opinione di Morisi, è, infatti, troppo parziale parlare del tema della partecipazione senza considerare le conflittualità territoriali in ambito locale. Per affrontare problematiche più delicate sul piano sociale e culturali è necessario, innanzitutto, organizzare forme di partecipazione che prevedano particolari strategie di informazione e di comunicazione che permettano di conoscere gli aspetti fondamentali delle politiche pubbliche perché “per deliberare occorre conoscere”.
L’intervento di Alessandra Albanese ha approfondito il tema riguardante la partecipazione organica, forma di partecipazione che operando attraverso i modelli organizzativi coinvolge la società civile nella definizione delle politiche pubbliche. Negli ultimi anni, con la crisi di legittimazione rappresentata dalle amministrazioni pubbliche, la partecipazione organica è cresciuta in maniera significativa, in particolare nel settore sanitario che la stessa Albanese pone al centro dell’attenzione nel corso del suo intervento. In particolare, vengono ripercorse le funzioni fondamentali degli organi di partecipazione nelle Società della Salute della Regione Toscana (Comitato di partecipazione, inteso quale sede non di semplice “consulenza e rappresentanza degli interessi della società civile”, ma “luogo di mediazione, confronto e selezione fra tali interessi” e la Consulta del terzo settore), per concludere, infine, con alcune riflessioni in merito al funzionamento dei meccanismi di partecipazione democratica. Gli organi di partecipazione, infatti, devono in tal senso garantire le condizioni affinché la società e i cittadini partecipino alle fasi di condivisione e accettazione delle scelte pubbliche.

Caterina Bova e Federica Parisi