La Dirigenza “pubblica” all’indomani dellalegge 15 luglio 2002, n. 145 – Resoconto convegno

03.07.2003

La Dirigenza “pubblica” all’indomani della legge 15 luglio 2002, n. 145

Seminario di studio organizzato
dalla Rivista “Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni”

Corte Suprema di Cassazione

Biblioteca Centrale Giuridica

Roma, 7 maggio 2003




Presiede:   Dott. G.  Ianniruperto (Presidente della sez. lavoro della Corte di Cassazione).

Relazioni: Prof. F. Carinci (Prof. Ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Bologna); Dott. P. Picone (Consigliere della Corte di Cassazione).

Interventi: Prof. A. Corpaci (Prof. Ordinario di Diritto Amministrativo nell’Università di Firenze); Dott. F. Curcuruto (Consigliere della Corte di Cassazione); Prof. G. D’Alessio (Prof. Straordinario di Diritto Amministrativo nell’Università di Roma Tre);  Prof. A. Maresca (Prof. Ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Roma Tre);  Prof. L. Zoppoli (Prof. Ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università degli Studi di Napoli- Federico II).

Introduzione

Il 7 maggio 2003 si è tenuto, presso la Biblioteca Centrale Giuridica della Corte Suprema di Cassazione, il seminario di studio, organizzato dalla rivista il lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni sul tema: “La dirigenza “pubblica” all’indomani della legge 15 luglio 2002, n. 145.”
L’iniziativa è nata da un’idea del prof. Carinci, al fine di riflettere sulla tematica della dirigenza pubblica, che oggi si presenta come uno dei “cantieri aperti” in tema di riforme legislative.
La tematica del pubblico impiego è di particolare interesse, in quanto è difficile coniugare ed innestare, in ciò che tradizionalmente  apparteneva al diritto amministrativo, una disciplina di tipo privatistico. Ancor più difficile è il nodo da sciogliere con riferimento alle figure di vertice, quali i dirigenti, dove si intrecciano esigenze contrapposte di servizio e di impiego.
La legge n. 145/02 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato) ha apportato numerose modifiche alla disciplina della dirigenza nel pubblico impiego privatizzato, aprendo “ulteriori” interrogativi e portando a galla numerose problematiche, messe a fuoco in sede di seminario (Dott. Ianniruperto).


Relazione del Prof. Carinci

Il clima in cui è avvenuta la privatizzazione del Pubblico Impiego è quello  degli anni ‘90, in cui ci fu una risposta riformista dei Governi tecnici, che miravano ad un recupero di governabilità (del Governo verso: il Parlamento,  l’Amministrazione, le Parti Sociali, le Autonomie). Nella riforma in questione il punto cruciale è rappresentato dalla riscrittura del rapporto tra politica ed amministrazione. La gestione deve essere meno all’insegna del principio di legalità (in senso formale) e più all’insegna degli obiettivi di efficienza e di efficacia.
Dunque la privatizzazione è stata qualcosa di “servente”, per  restituire un potere di contrattazione ai sindacati e per dare ai dirigenti poteri manageriali, a fronte dei quali, nella logica dei summenzionati obiettivi di efficienza e di efficacia, si affiancano i controlli di gestione per la verifica dei risultati conseguiti.

Preoccupazione dei riformisti era tenere ancorata la privatizzazione alla variazione di giurisdizione (anche se, nei fatti, si riscontra ancora oggi molta giurisprudenza dei TAR). La problematica della giurisdizione si pone, sin dall’inizio, in chiave di materia. Nella legge delega n. 421/92  l’individuazione delle materie non era ben chiara, vi erano molte sottomaterie pubbliche. In seguito si fece un’elencazione di materie “per inclusione”, sicché se è privatizzato tutto ciò che attiene alla gestione, si tratterà di atti privatistici, dunque la giurisdizione apparterrà al G.O. (così facendo si mantenne il criterio di riparto di giurisdizione con riferimento alla situazione soggettiva da tutelare – causa petendi).

I problemi emersi erano determinati:
– dalla costruzione macchinosa del conferimento dell’incarico (contratto a tempo determinato, con definizione dell’oggetto, che altrimenti risulterebbe indeterminato, accompagnato da un “provvedimento amministrativo,” che assume la forma di decreto  del Presidente della Repubblica,  del Presidente del Consiglio dei ministri, o del dirigente generale);
– dal potere del Giudice Ordinario di fronte al provvedimento “presupposto.”

Se il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali possono essere considerati  atti privatistici, allora non è cambiato nulla. Ci si domanda  allora perché continuare a mantenere la parola “decreto”, (che fra l’altro  non è neanche un vero ostacolo alla configurazione privatistica dell’atto, perché basterebbe dire che l’atto emanato dal Presidente della Repubblica è un atto solo soggettivamente amministrativo).
Il fatto è che la normativa sul riparto di giurisdizione mette in discussione le tradizionali categorie amministrative e dunque vi è una tendenza a tornare indietro, e
variare la natura dell’atto potrebbe portare alla variazione della giurisdizione.

La nuova legge n. 145/02 ha dato  maggior “mano libera” al Potere/Governo, vi è stata una rottura dell’equilibrio tra contratto e provvedimento, una maggiore flessibilità con riferimento alla determinazione degli obiettivi, dei programmi e della durata dell’incarico dirigenziale, ed è sostanzialmente saltato  il termine minimo dell’incarico, che ha fatto di conseguenza venir meno anche la possibilità di effettuare delle verifiche con riferimento all’andamento della gestione.
Di converso è stata “concessa” la vicedirigenza (la cui attuazione, per il momento, è stata rinviata) e l’inizio di una ripubblicizzazione (che per il momento è poca cosa se non varia l’art. 63 del d.lgs. n. 165/01). In pratica è come se, per il momento, non avessero concesso niente.

Certo è che se continua si continua a battere la via pubblicistica, allora bisognerà variare la giurisdizione. Inoltre, per quanto la l. n. 145/02 non parli di riforma costituzionale, la porta in se…., tanto che potrebbe oramai parlarsi di dirigenza ministeriale (lasciando che le altre dirigenze vadano per la loro strada). Quindi potremmo trovarci di fronte ad un ritorno della dirigenza ministeriale nella sfera pubblicistica ed ad una moltiplicazione delle dirigenze.

Relazione del Dott. Picone

La materia pone un intreccio tra problematiche processuali e sostanziali. Occorre stabilire preliminarmente la situazione soggettiva che si ha di fronte e dunque individuare il criterio di riparto di giurisdizione.
Le tesi che in questo volume (Fascicolo speciale de Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, su “Dirigenza statale e dirigenze nella pubblica amministrazione, n. 6/2002) il Dott. Picone ha individuato sono quattro, di cui  tre propendono per la natura pubblicistica dell’atto di conferimento dell’incarico dirigenziale ed una per la natura privatistica dello stesso.
Nella normativa sul pubblico impiego il legislatore individua il giudice espressamente, senza rifarsi al tradizionale criterio di riparto, ciò ha comportato una estensione della giurisdizione esclusiva  del G.O., che già  anche in altre normative si trovava ad essere il giudice di ciò che è la massima espressione dell’autoritatività (es.: esplulsione dello straniero, ammissione al servizio civile, atti di autorizzazione dell’Autorità Garante dei dati personali).
Quando la P.A. utilizza strumenti che non sono di diritto comune, si profilano degli interessi legittimi, di cui giudice, secondo la Costituzione, è il G.A., (inutile, dunque, parlare di interessi legittimi di diritto privato).
Con riferimento alle garanzie che spettano ai dirigenti pubblici, la Corte Costituzionale è stata chiara nella sentenza n. 11 del 2002, affermando che hanno diritto a garanzie di stabilità, ma non hanno il medesimo status dei magistrati; si riscontra però, alla luce della nuova normativa, che i contratti sono più che mai instabili.

Con riferimento alla natura dell’atto di conferimento dell’incarico (nella l. n. 145/02), le prime due tesi si basano sulla nozione di esercizio del potere pubblico autoritativo: il conferimento dell’incarico dirigenziale avviene attraverso un provvedimento, in quanto si tratta di uffici apicali. La situazione giuridica sottostante è di interesse legittimo. Ciò comporta la massima garanzia per il dirigente, il sindacato del giudice è particolarmente penetrante, ma vi è un obbligo di motivazione di particolare importanza (sul punto vi è oramai, anche prima della riforma, una giurisprudenza consolidata dell’A.G.A.).
Fatte tali premesse si ritiene, in linea con l’art. 63 del d.lgs. n. 165/01, che la giurisdizione appartenga al G.O., il quale  garantisce una tutela analoga a quella del G.A.. Tale tesi, però, deve fare i conti con la Costituzione,  perché dà per scontato che il G.O. possa tutelare gli interessi legittimi. Inoltre è dubbio che l’attribuzione di competenza del G.A., nel controllo degli atti, abbia bisogno dell’interposizione del legislatore.

Altra tesi ritiene che possa esservi una giurisdizione del G.A. sul conferimento dell’incarico in quanto il rapporto di lavoro con la P.A., nell’art. 63, d.lgs.n. 165/01, disegna un modello  processuale incentrato sulla tutela dei diritti nascenti dal contratto. Il G.O. avrà una giurisdizione sui rapporti di lavoro (in cui la situazione giuridica sottostante è di diritto soggettivo), più alcune particolari controversie, tra cui figurano anche il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali. Il fatto che il legislatore lo debba ulteriormente specificare significa a contrario che non si tratta  di un rapporto di lavoro.
Si è dunque voluta attribuire la giurisdizione sul conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali al G.O. perché si pensava di poterli assumere e scegliere come un manager privato, ma questo non è costituzionalmente possibile.

Altra  tesi, sempre di stampo pubblicistico, parla di atto autoritativo sul piano dell’organizzazione, ma sostanzialmente paritetico, dunque incapace di affievolire il diritto soggettivo ad interesse legittimo. Questa tesi sembra ricevere l’avallo della Corte Costituzionale (si ricorda la sentenza n. 275/01). Ma, a ben vedere la Consulta non prende una posizione sulla natura dell’atto di conferimento, ritenendo che preminente sia la scelta del  legislatore con riferimento all’attribuzione della giurisdizione.
Si può osservare che quando il legislatore ha fatto la stessa scelta con riferimento all’annullamento dell’espulsione dello straniero, tale scelta aveva un senso, perché  il G.O. consente al diritto di libertà la sua espansione. Il sistema funziona, però, perché vi è un diritto di libertà, cosa che non c’è quando si ha di fronte la promozione dei dirigenti.

L’ultima tesi, ritiene che la giurisdizione spetti al G.O. in quanto siamo di fronte ad un atto di conferimento, non ad un concorso. Abbiamo un collegamento tra ufficio pubblico e l’affidamento ad un soggetto privato. Il legislatore non ha modificato l’art. 63, del d.lgs. n. 165/01, dunque ha confermato la giurisprudenza del G.O.
L’ultimo comma dell’art. 19, del d.lgs. n. 165/01 (come modificato dalla 145/02),  afferma che “Le disposizioni del presente articolo costituiscono norme non derogabili dai contratti o accordi collettivi”.  Questa impostazione normativa è strana perché vorrebbe dire che tutto il resto è derogabile. Allora il significato da dare a questa affermazione legislativa è che si è voluto riservare un potere unilaterale del datore di lavoro. Se fosse stato un provvedimento amministrativo era chiaro che non era contrattabile, dunque si tratta di un atto privatistico.

Interventi programmati

Con riferimento al conferimento degli incarichi dirigenziali, il d.lgs. 80/98 prevedeva due atti per il conferimento dell’incarico dirigenziale: atto di conferimento vero e proprio (che assume la forma di D.P.R.,  di D.P.C.M.,  o di decreto del dirigente generale, a seconda della gradazione degli incarichi) e contratto, con cui vengono definiti  l’oggetto, gli obiettivi da conseguire, la durata dell’incarico, nonché il trattamento economico.
Entrambi gli atti in questione sono essenziali, perché vi è da una parte una scelta unilaterale e dall’altra un atto contrattuale, dunque consensuale, che permette il coinvolgimento dell’interessato. Gli atti in questione sono strettamente integrati, l’uno richiede l’altro.
Il legislatore ha voluto che la determinazione in ordine alla  definizione dell’incarico ed all’oggetto della prestazione, che il dirigente deve svolgere nel quadro delle funzioni, si componga di una dichiarazione unilaterale  dell’amministrazione datore di lavoro, accompagnata da  un atto consensuale, che sancisca un impegno dell’interessato.  
Il dirigente stipula il contratto, si obbliga a svolgere, nell’ambito delle mansioni indicate dalla legge, quell’attività che sarà determinata con l’atto di conferimento, la cui scelta spetta all’Amministrazione. Se il dirigente non firmasse il contratto, potrebbe incorrere in una non corretta esecuzione del contratto di lavoro stesso (Prof. Corpaci).
Il fatto che una scelta sia unilaterale non significa che debba essere per forza un atto amministrativo, non può tenersi conto di un profilo esclusivamente formale senza tener conto di un profilo sostanziale (Prof. Corpaci, Dott. Curcuruto).
Dunque, la l. n. 145/02 non ha portato variazioni: non convincono le ragioni della natura pubblicistica dell’atto, né dell’unilateralità della scelta. L’unilateralità della scelta, ad opera della P.A. non è una novità di questa normativa perché era già presente precedentemente (Prof. Corpaci, Prof. Zoppoli).
Inoltre non si è avuta una variazione dell’art. 63, del d. lgs. n. 165/01, sul riparto di giurisdizione, il che è anche avallato da recenti pronunce della Corte costituzionale: la n. 275/01 e l’ordinanza n. 525/02 (Prof. Corpaci, Dott. Curcuruto). Ciò a cui mira il legislatore è l’effettività della tutela (Dott. Curcuruto).

Ancora sulla formulazione dell’art. 63, del d. lgs. n. 165/01, nell’attribuire all’A.G.O. tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con riferimento alle controversie concernenti il conferimento e la revoca dell’incarico dirigenziale, si utilizza il termine “incluse”.
Il fatto che il legislatore abbia sentito l’esigenza di includerle espressamente ci fa pensare che non siano inquadrabili quali rapporti di lavoro (Prof. D’Alessio).
Inoltre, l’art. 2, comma 2 del d.lgs. n. 165/01, nell’affermare che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinate dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti  di lavoro subordinato nell’impresa, fa salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto. Ci troviamo dunque di fronte ad un diritto privato “accompagnato” da norme derogatorie, (cosa che accade anche nel rapporto di lavoro privatistico) (Prof. D’Alessio).

Si sottolinea  che le problematiche che attengono a tale testo normativo, non derivano solo dal tenore letterale, ma attengono anche all’intenzione del legislatore (Prof. D’Alessio).
È emerso che vi è troppa enfasi sulla dirigenza statale/ministeriale, infatti, il nuovo 118  cost, nell’introdurre il principio di sussidierietà, fa si che le funzioni amministrative delle amministrazioni statali siano inferiori rispetto a quelle degli Enti locali, delle Province e delle Regioni. E’ dunque il caso di ridimensionare il dibattito visto che si tratta solo di una piccola parte della dirigenza,  riflettendo maggiormente sulla dirigenze delle regioni, della scuola e della sanità (Prof. D’Alessio, contro Prof. Zoppoli).

I miglioramenti da effettuare sulla normativa riguardano: il profilo funzionale, la valutazione della dirigenza, l’eliminazione dell’annullamento governativo, la concessione di maggiori budget ai dirigenti (Prof. D’Alessio).

Si è sottolineato che il dirigente oggi ha una tutela particolarmente sguarnita, infatti, non applicando l’art. 2103 c.c. non gli si riconosce la tutela della professionalità.  La fungibilità che c’è nel pubblico impiego è impensabile nel settore privato. Possiamo infatti avere un dirigente di seconda fascia a cui vengono assegnate funzioni superiori e di converso ai dirigenti possono essere affidate funzioni di studio o consulenza, cioè incarichi di scarso contenuto professionale.
Dunque abbiamo una piena fungibilità  nell’utilizzazione della dirigenza per il raggiungimento degli obiettivi che si intendono realizzare. Inoltre, l’ultimo comma dell’art. 19, d.lgs. n. 165/01 (come modificato dalla l. n. 145/02) prevede la non derogabilità delle disposizioni del presente articolo ad opera degli accordi o contratti collettivi; dunque tale funzionalità è tanto importante da sottrarla all’invadenza della contrattazione collettiva (si tratta di una inderogabilità in senso pieno). La tutela della posizione dirigenziale è l’unico presidio che ha il dirigente pubblico. Di conseguenza, se l’incarico è conferito in contrasto con la normativa, si può pensare all’ipotesi di un risarcimento del danno.
L’art. 1418 c.c.  prevede la nullità dei contratti stipulati in contrasto con norme inderogabili. Lo stesso articolo si applica anche agli atti unilaterali. La nullità la solleva chiunque vi abbia interesse e dunque anche un dirigente di seconda fascia che abbia interesse a transitare nella prima (Prof. Maresca).

Dunque la l. n.145/02, pur mirando ad una ripubblicizzazione, non crea problemi. Ai fini dell’intera riforma la posizione della dirigenza è cruciale e la legge n. 145/02 si inserisce in un processo tortuoso e tormentato. Lo sforzo di ricostruzione sistematica deve partire da punti fermi tra cui il fatto che la relazione bilaterale tra amministrazione e dirigenza è di natura privatistica, ivi compreso il provvedimento di nomina….(il fatto che si dica provvedimento non modifica la natura dell’atto); dunque al dirigente cui non venga conferito un incarico vede una lesione di un diritto soggettivo.
Con riferimento al licenziamento e recesso del dirigente, i giudici sono tentati di ricostruire il quadro in termini garantistici, ma vi è la possibilità di concentrarsi sulla tutela per licenziamento discriminatorio (2118 –2119 c.c.) (Prof. Zoppoli).

Daniela Bolognino