Regolazione e gestione dei servizi pubblici locali
A cento anni dalla legge 29 marzo 1903, n. 103
Comune di Bologna
in collaborazione con la
Scuola di Specializzazione
in Studi sull’Amministrazione Pubblica
dell’Università di Bologna
Bologna, 29 marzo 2003
a cura di Davide Della Penna
Con legge 29 marzo 1903, n. 103 (meglio nota come legge Giolitti sulla municipalizzazione) vennero disciplinate organicamente le forme di gestione dei servizi pubblici locali.
Quelle disposizioni, poi raccolte nel testo unico 15 ottobre 1925, n. 2578, restarono in vigore per quasi un secolo e non furono del tutto abrogate neppure con la riforma delle autonomie locali dettata con legge 8 giugno 1990, n. 142. A quest’ultima legge seguirono varie discipline di settore sugli specifici servizi pubblici locali (legge Galli per il servizio idrico integrato, decreto Ronchi per la gestione dei rifiuti urbani, decreto Burlando per i trasporti, decreto Letta per la distribuzione del gas naturale), così come orientamenti comunitari che, pur se non tradotti in apposita direttiva, devono essere tenuti ben presenti dagli Stati membri.
Ne è derivato un sistema di regole complesso e composito, circa il quale emerge la necessità di delineare i caratteri ed i tratti unificanti degli istituti giuridici.
La recente riforma di cui all’art.35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Norme in materia di servizi pubblici locali) è certamente ispirata alla volontà di stabilire un quadro di riferimento omogeneo, con regole certe e soluzioni coordinate. Ma a questa riforma occorre dare coerente attuazione, considerando il dettato dei nuovi artt.117 e 118 della Costituzione e la chiara introduzione nel nostro ordinamento dei principi di sussidiarietà orizzontale e verticale.
Fabio Roversi Monaco (Direttore della Scuola di Specializzazione in Studi sull’amministrazione pubblica) ha presieduto la prima parte del Convegno in cui sono intervenuti Fabio Merusi, Giuseppe Severini, Gianluca Galletti e Franco Pellizzer.
Fabio Merusi (ordinario nell’Università di Pisa). I servizi pubblici locali a cento anni dalla legge Giolitti.
A cento anni dalla approvazione della legge 29 marzo 1903, n. 103, meglio nota come legge Giolitti sulla municipalizzazione, è possibile fare una carrellata dei problemi che si sono succeduti facendo poi il punto su ciò che sta accadendo adesso. Nella legge Giolitti il tema centrale è quello di affrontare il problema dei monopoli naturali o giuridici. Si era dimostrato che ogni qualvolta si manifestava un monopolio anche l’utilizzazione di strumenti amministrativi come la concessione non permetteva alla pubblica amministrazione di tutelare efficacemente l’utente. La pubblica amministrazione non era in grado di controllare con uno strumento giuridico come la concessione l’andamento economico del servizio. La soluzioni offerta da Giolitti è la seguente: esistono imprese marginali nell’ambito delle quali non è possibile la libera concorrenza. Per tutelare il cittadino occorre un intervento della pubblica amministrazione con una gestione diretta in modo da infrangere gli effetti negativi del monopolio.
Oltre alla rottura dei monopoli, un’altra delle tematiche presenti nel dibattito parlamentare (soprattutto nella relazione Giolitti) è se esiste un mercato dei servizi pubblici locali e come va definito, in particolare in relazione ad una problematica ricorrente che accompagna quella dei poteri locali da Rattazzi ad oggi: la dimensione dei Comuni non è tale da permettere in tutti l’erogazione di servizi identici, non esiste un sistema che possa garantire l’esistenza di una erogazione del servizio che abbia caratteristiche omogenee. Come venirne fuori? Giolitti è condizionato dalla soluzione antinapoleonica di Rattazzi basata non sulla disciplina del potere locale in rispondenza alle esigenze economiche territoriali, ma sui diritti naturali delle comunità locali (soluzione sabauda poi applicata al Regno d’Italia): è il riconoscimento delle patenti regie alle comunità locali nate sulla base di una accessione storica progressiva. Il riconoscimento della legge Rattazzi dei Comuni sulla base delle patenti regie ha provocato il noto fenomeno che tutt’oggi assilla le comunità locali e che non viene quasi mai affrontato per ragioni di politica contingente: l’irrazionale suddivisione territoriale dei poteri locali, che appare evidente a Giolitti quando si tratta di disciplinare l’erogazione dei pubblici servizi. Giolitti è consapevole che la soluzione dei grandi Comuni del nord, che hanno già introdotto servizi di avanguardia (come l’elettricità, le farmacie), non è esportabile e direttamente applicabile ai Comuni del sud. Lo dice espressamente sperando che spontaneamente chi indica soluzioni di avanguardia riuscirà a persuadere gli altri ad adottare delle soluzioni ottimali con la forza dell’evidenza dei risultati. Per la definizione dell’ambito territoriale di erogazione del servizio pubblico il suggerimento è quello di associarsi, costituendo dei consorzi in modo da arrivare ad una erogazione economica del servizio. Ma questa possibilità illuministica di soluzione autonoma del problema della definizione del mercato dei pubblici servizi non verrà seguita.
Con il testo unico 15 ottobre 1925, n. 2578, c’è un’altra soluzione per l’individuazione di un bacino di erogazione dei servizi pubblici: è l’idea della municipalizzazione delle Provincie, cioè la possibilità per le Provincie di realizzare dei servizi municipalizzati in sostituzione dei Comuni. Ma la “provincializzazione” dei servizi pubblici non ha avuto alcun seguito.
La rottura del sistema di erogazione dei servizi avverrà con una tecnica che in passato è stata definita della organizzazione arcana o nascosta dei pubblici servizi (Giannini, 1954). Nella prima metà degli anni ’50, quando si pone all’attenzione della classe politica italiana il problema di ripensare la disciplina dei servizi pubblici locali, emerge chiaramente la tendenza di sottrarre determinati tipi di servizi alla disciplina generale (es. telefonia, elettricità, acqua). La legislazione statale sottrae la disciplina di determinati servizi alla disciplina locale.
La situazione è andata avanti così fino al 1990, anno in cui il legislatore nazionale affronta per la prima volta l’idea di un intervento organico sulla municipalizzazione. Ma il legislatore del 1990 era in ritardo rispetto a quello che stava realmente accadendo. Il 1990 era l’anno dell’introduzione, anche in Italia, dello Stato del mercato, della abolizione del sistema della gestione diretta dell’economia con il passaggio all’economia di mercato. Questo passaggio è sanzionato da due leggi: la legge antitrust, che introduce per la prima volta la concorrenza tra i principi generali dell’ordinamento italiano (sovvertendo il terzo comma dellart.41 Cost.), e la legge sul procedimento amministrativo, che introduce per la prima volta il principio del tempo necessario nell’azione della pubblica amministrazione (il tempo è un fattore del mercato e anche la pubblica amministrazione deve rispettare il principio del tempo certo come elemento tipico dello Stato concorrenziale).
Intanto si afferma in ambito comunitario il principio dell’obbligatorietà della concorrenza simulata (giuridica), in quei settori in cui tale concorrenza non c’è. L’idea di base è la seguente: non è vero che la concorrenza non possa realizzarsi nei suoi benefici effetti nei monopoli naturali ed in maniera particolare nei servi pubblici, ivi compresi quelli locali, perché la concorrenza, che elimina gli effetti negativi del monopolio anche quando è gestito da soggetti pubblici, è realizzabile artificialmente con strumenti giuridici.
In Italia nel 1990 questa logica europea è mal digerita e, con riferimento ai servizi pubblici locali, c’è una prima soluzione ipotetica. C’è l’indicazione della società per azioni con partecipazione maggioritaria degli enti locali. La società per azioni, tuttavia, è soltanto uno strumento di efficienza nella gestione dell’impresa e non è in grado di realizzare la concorrenza simulata. Occorreva andare più in là.
Soltanto con l’art.35 della legge 28 dicembre 2001 si affronta anche nel nostro ordinamento il problema di introdurre un sistema di concorrenza simulata. Ciò viene fatto con una serie di difficoltà che vanno da subito accennate:
1) c’è una lenta presa di coscienza che non tutti i servizi pubblici sono uguali: vanno nettamente divisi i servizi riconducibili ad un mercato concorrenziale da quelli che non lo sono. C’è la distinzione tra servizi industriali, che sono sottoposti soltanto ad un’organizzazione efficientistico-imprenditoriale (la società per azioni) organizzata secondo le forme che le esigenze della concorrenza e dell’efficienza determinano, e servizi che non hanno rilevanza industriale, a cui continua ad applicarsi la tipologia di erogazione del servizio classico (azienda speciale, istituzione, ecc.). Ma come si fa a distinguere tra servizi industriali e non industriali? Esiste nella prassi una larga cultura empirica di distinzione dei servizi economico-produttivi dagli altri. Certamente sulla base delle teorie commercialistiche è difficile agganciare a specifici articoli del codice civile la distinzione tra i due tipi di servizi, però è anche vero che esiste una lunga trattazione di tipologia dei servizi stessi, ormai elaborata da tempo ed esplicitata dalla confederazione delle municipalizzate, che consente tale distinzione. All’interno di questa distinzione andranno applicate in futuro le tecniche che consentiranno di distinguere il demanio dal gestibile in concorrenza, in modo da realizzare l’effetto positivo della concorrenza portando fuori ciò che viene visto come necessario ai fini della gestione che rimane pubblica.
2) Altro problema irrisolto nell’art.35 è quello di definire l’ambito del mercato. Ci scontriamo con la disciplina degli enti pubblici locali stabilendo i bacini di utenza dei servizi, oppure lasciamo fare ai diretti interessati? La soluzione non è indicata. C’è solo la soluzione della concorrenza per il mercato (per entrare dentro il mercato). Ma il concorrere per il mercato non è ancora concorrenza nel mercato.
Concludendo di può ritenere che le tematiche giolittiane attraversano un secolo e sono per alcuni versi ancora non risolte.
Giuseppe Severini (Consigliere di Stato). L’affidamento dei servizi pubblici locali: caratteri e procedure.
Nel modello precedente l’art.35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, il momento dell’affidamento del servizio pubblico alle società si poneva, oltre il velo delle forme giuridiche, come lo snodo di una articolazione che continuava ad essere ancora interna all’assetto complessivo dell’amministrazione locale e l’assenza della gara ne era il segno manifesto. Coerentemente con questo inquadramento, la giurisprudenza e la dottrina vedevano la necessità della gara e dell’evidenza pubblica non già nel momento dell’affidamento del servizio (che dovrebbe essere il passaggio naturale dal mondo del pubblico a quello del privato), ma in quello del reclutamento del privato compartecipe da iscrivere al novero degli operatori privati chiamati a svolgere per conto degli interessi dell’amministrazione una determinata attività. Questo lo si affermava sia per le società miste a dominante capitale pubblico, sia per quelle a partecipazione pubblica minoritaria.
Sopravviene ora l’art.35. Per i servizi pubblici a rilevanza industriale questo modello continua a persistere limitatamente alla titolarità e alla gestione delle reti. Per le società che gestiscono il servizio la prevalenza pubblica del capitale diviene un elemento negativo, penalizzante e oggetto di un tendenziale sfavore del legislatore.
L’erogazione del servizio da svolgere in regime di concorrenza avviene secondo le discipline di settore con conferimento della titolarità del servizio a società di capitali. Il modello diviene quello del conferimento ad una mera società di capitali, con una composizione di capitale non qualificato in cui la partecipazione pubblica e la sua dimensione sono in principio indifferenti. Questo fatto è marcato non solo dalla imprescindibilità della gara, ma anche dalla affermazione della eguaglianza tributaria. La portata innovativa di questo nuovo assetto va nel senso della privatizzazione.
In questo quadro, lo snodo del conferimento si profila come elemento centrale dell’articolazione tra pubblico e privato. Il modello della società partecipata persiste in varie altre figure definite dall’art.35, sia in via transitoria, sia a regime per i servizi privi di rilevanza industriale. Ma la centralità del conferimento del servizio resta quella della sua formazione concorrenziale. Questo conferimento assorbe in realtà elementi notevoli della concessione o dell’affidamento a terzi del precedente regime dei servizi pubblici locali, per la ragione fondante che costituisce l’atto con cui culmina un procedimento caratterizzato da una gara con procedura ad evidenza pubblica. Non si tratta di un contratto di appalto di servizio, ma di un provvedimento amministrativo di concessione. L’appalto di servizio riguarda prestazioni che sono rese in favore dell’amministrazione, mentre la concessione riguarda un articolato rapporto trilaterale che interessa al tempo stesso l’amministrazione, il concessionario e gli utenti.
Va sottolineato come la concessione vada a caratterizzare, quale alternativa storica alla gestione diretta, la disposizione di compiti economici riservati alla mano pubblica. Il rapporto pubblicistico che ne deriva, e che precede l’impresa e la sua attività totalmente privatizzati, offre all’amministrazione il potere di introspezione, direzione e controllo sull’attività del concessionario. Questo fa sì che l’attività sia costantemente funzionalizzata alle finalità di pubblico interesse.
La conseguenza di tutto questo è che la scelta del socio dell’ente locale si sottrae alle logiche dell’evidenza pubblica. Se l’affidamento diretto scompare, la scelta del socio finisce per rispondere ad un compito che non può più essere ricondotto ad un fenomeno di autorganizzazione del sistema amministrativo dell’ente locale.
L’art.35 ha “depubblicizzato” almeno per quanto riguarda la attività di erogazione di servizi tuttavia, una liberalizzazione sostanziale è ancora da definire.
Gianluca Galletti e Franco Pellizzer (assessori al Comune di Bologna). Il mercato dei servizi pubblici e le strategie per la riorganizzazione delle imprese: l’esperienza del Comune di Bologna.
Due considerazioni di carattere generale sull’incidenza della “depubblicizzazione” dei servizi pubblici sulle amministrazioni locali appaiono fondamentali.
La prima è che l’art.35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 incide direttamente sul cittadino – utente.
La seconda è che sia dal punto di vista economico, sia da quello organizzativo, siamo davanti ad un passaggio molto importante che sta cambiando radicalmente la struttura degli enti locali. Sempre di più emerge l’esigenza di portare fuori dal bilancio comunale le spese che riguardano alcuni servizi pubblici locali fondamentali. Si profila, per questo, un Comune che da erogatore di servizi diventa controllore di servizi. Ciò richiede un notevole adeguamento della struttura dell’ente locale, ad esempio attraverso la creazione di un nucleo interno alla struttura organizzativa locale che consenta un controllo dei servizi esternalizzati.
Gianluca Galletti è intervenuto sulla applicazione concreta dell’art.35 all’esperienza del Comune di Bologna.
Le due principali società partecipate comunali di Bologna sono la HERA (ex SEABO) che opera nel settore delle multiutilities (gas, rifiuti, acqua, energia) e la ATC (società di trasporto pubblico locale).
Con riferimento alla HERA si è perseguito un progetto molto preciso: aumentare la redditività dell’azienda e la qualità del sevizio con l’obiettivo di approdare ad una quotazione di borsa. In quest’ottica diviene fondamentale l’incremento della pressione competitiva e dei potenziali nuovi entranti insieme all’incremento della scala minima necessaria per competere sul mercato e per cogliere al meglio le opportunità che si presenteranno in futuro.
La HERA (ex SEABO) era una piccola – media impresa le cui dimensioni non erano sufficienti a far fronte all’apertura dei mercati europei. Per questa ragione si è cercato di creare delle sinergie con tutte le imprese (undici imprese) che operavano nel territorio contiguo. Successivamente è stato messo in moto il meccanismo giuridico formale.
Le dodici società romagnole, a norma dell’art.35, hanno scorporato le reti e gli impianti mettendole in società ad hoc costituite. Nel frattempo hanno scisso l’attività gestionale prendendo come beneficiaria la SEABO che è stata ricreata come HERA ed è stata legata alle società rimaste proprietarie delle reti degli impianti. Il risultato è quello di una società molto più grande e competitiva che svolge tutta l’attività gestionale delle società interessate. Quest’operazione ha interessato 142 Comuni (proprietari di HERA; gli ex proprietari di SEABO detengono il 51% di HERA) ed è stata realizzata in quattordici mesi (il nuovo organigramma è del 25 febbraio 2003). Da HERA sono state successivamente scorporate cinque società operative territoriali che fanno riferimento ad una holding (HERA).
Il percorso giuridico seguito permette l’apertura a qualsiasi altra azienda che volesse entrare a far parte dell’organizzazione creata perché sono già stati definiti i criteri di ingresso e il modello di aggregazione.
Entro il mese di aprile 2003 verrà presentata la domanda di ammissione in borsa di HERA. Per quanto riguarda l’o.p.v., circa il 45% del capitale sociale sarà messo sul mercato con l’offerta ad investitori istituzionali e privati risparmiatori (con condizioni agevolanti per i cittadini di Bologna).
Tutto questo percorso illustrativo certamente è una testimonianza forte di come l’art.35 sia entrato nel nostro ordinamento e di come gli enti locali lo stiano utilizzando. Per tali ragioni emergono sempre più, da un lato, il bisogno di certezze su eventuali emendamenti all’art.35 e, dall’altro, l’urgenza del regolamento attuativo.
La seconda parte del Convegno è stata presieduta da Gaetano Trotta (Presidente di sezione del Consiglio di Stato) ed ha visto gli interventi di Giuseppe Caia, Stefano Zunarelli (sulla disciplina del trasporto pubblico locale), Marco Dugato, Cesare San Mauro.
Giuseppe Caia (Ordinario nell’Università di Bologna). I problemi della transizione dal vecchio al nuovo quadro normativo.
L’art.35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 introduce una riforma estremamente significativa dei servizi pubblici locali. Esistono, tuttavia, alcuni punti oscuri che devono essere risolti dal legislatore con chiarezza e lucidità e chiariti in maniera definitiva dal regolamento di attuazione.
Occorre una disciplina che realizzi un’adeguata transizione dal vecchio al nuovo sistema. Il nuovo sistema dei servizi pubblici a rilevanza industriale è improntato ad un criterio diametralmente opposto a quello che ha contraddistinto l’intero secolo scorso. La legge Giolitti del 29 marzo 1903, n. 103 e le fonti normative che si sono succedute (testo unico 15 ottobre 1925 n. 2578; legge 8 giugno 1990, n. 142) erano caratterizzate dall’indicazione di una possibile pluralità di forme di gestione tra le quali gli enti locali dovevano scegliere quella che essi ritenevano discrezionalmente più appropriata per le esigenze specifiche.
La concorrenza nel settore dei servizi pubblici locali non è importante in sé, non è il fine da perseguire, ma un elemento per raggiungere il risultato: la prestazione del servizio resa all’utente in maniera efficiente, efficace ed economica. Per questo la concorrenza va salvaguardata e sviluppata. In tale direzione si muovono varie direttive comunitarie. Ad esempio, alcune direttive impongono a tutti i gestori di determinati servizi, che siano in una determinata posizione di privilegio, obblighi assimilabili a quelli della pubblica amministrazione. Il diritto comunitario prevede le figure dell’impresa pubblica, del concessionario di diritto speciale esclusivo e anche quella più generale dell’organismo di diritto pubblico. Sono tutte figure che, avendo un determinato compito in una posizione di privilegio (nel senso che a volte hanno un compito in esclusiva, a volte ricevono un affidamento diretto), sono ascritte a degli obblighi di creare mercato. La giurisprudenza amministrativa e quella del Consiglio di Stato hanno avuto il pregio di sottolineare che le società a prevalente capitale pubblico locale non sono qualcosa di diametralmente opposto alle pubbliche amministrazioni dalle quali queste società sono state generate. Quindi queste società avranno un peso equiparato agli enti pubblici quanto agli obblighi loro imposti.
Il legislatore nazionale vuole superare del tutto la dicotomia che fino a qualche tempo fa è stata valida e che è tuttora valida a livello comunitario. In questo senso il legislatore italiano è più avanzato del legislatore comunitario. L’art.35 quanto ai servizi con rilevanza industriale supera la struttura proprietaria del soggetto che aspira alla gestione. Quindi i soggetti pubblici (a partecipazione pubblica) o privati devono concorrere all’affidamento del servizio in posizione di assoluta par condicio. Questa è un’applicazione molto rigorosa del principio di cui all’art.41 della Costituzione, per la parte di quell’articolo che rimane diritto vivente e cioè l’assoluta equiordinazione tra impresa pubblica e impresa privata.
Il legislatore italiano non era del tutto obbligato a questa applicazione rigida e radicale dell’art.41 Cost. dal diritto comunitario, dove sopravvive la distinzione tradizionale tra gestione diretta e gestione a mezzo di soggetti estranei alla pubblica amministrazione.
Occorre trovare il modo per giungere alla concorrenza nel mercato attraverso un adeguato periodo di transizione senza traumi, senza dispendio di risorse ed energie e senza decrementare il valore delle azioni che gli enti locali possiedono. Il periodo di transizione è necessario non solo per tutelare i gestori pubblici preesistenti ma anche per tutelare quelli privati. Perché se questi gestori pubblici o privati hanno creato degli investimenti sul territorio contribuendo con proprie risorse e finanziamenti, bisogna riconoscere loro un adeguato indennizzo laddove non siano più in grado di gestire il servizio. L’art.35 parla semplicemente del riconoscimento al gestore uscente delle quote non ancora ammortizzate in bilancio.
La bozza di regolamento in circolazione è stata per il momento accantonata, in attesa che la Corte costituzionale si pronunci sulla competenza Stato Regioni per la materia dei servizi pubblici locali. Si tratta di una materia composta di profili diversificati. C’è un profilo della tutela della concorrenza su cui è chiaro che il legislatore statale ha competenza esclusiva, ma esistono anche i profili, ad esempio, del rapporto con l’utente, della vigilanza sul gestore.
In alcune proposte parlamentari di regolamento governativo accade la disapplicazione della legge, perché la legge distingue tra due grandi categorie di società alle quali gli enti locali partecipano: le società che si possono considerare, con una semplificazione, normali e quelle per le quali alla data del 31 dicembre 2001 gli enti locali abbiano già recuperato la quotazione in borsa ovvero le società che siano già quotate in borsa. Per quelle società il legislatore ha previsto il non obbligo di scorporo delle proprietà delle reti. Inoltre, era forse possibile l’interpretazione in base alla quale le società quotate in borsa conservavano gli affidamenti fino alla loro naturale scadenza. Queste possibili letture vengono ignorate dalle bozze di regolamento. Il rischio è quello di impedire una realizzazione adeguata della concorrenza per voler raggiungere in tempi rapidissimi determinati risultati.
Pretendere di realizzare immediatamente il nuovo sistema può essere l’elemento di crisi per il raggiungimento reale dei risultati di efficienza, efficacia e concorrenza che vanno perseguiti consentendo all’ente locale di concorrere al processo di rinnovamento. Tale processo non può essere dettato solamente a livello centrale e tantomeno con meri regolamenti governativi.
Marco Dugato (associato nell’Università di Venezia I.U.A.V.). La gestione delle reti nella disciplina dei servizi pubblici locali.
Nell’art.35 della legge n. 448/2001 il tema della gestione delle reti dei servizi pubblici locali rappresenta una novità rilevante. In tutta la normativa precedente relativa ai servizi pubblici locali l’idea era quella che la rete fosse asservita, funzionale alla gestione del servizio e per questo da essa concettualmente inscindibile. Questa prospettiva è stata, almeno in apparenza, radicalmente invertita dall’art.35. Il principio cardine diviene quello della separazione della disciplina delle reti dalla gestione dei servizi. Questo sistema è fondamentale per indurre davvero la concorrenza ad una incursione nei regimi monopolistici (il caso della telefonia è in questo senso emblematico).
La chiave di lettura è duplice. Da un lato, separare le reti dalla gestione del servizio serve alla migliore concorrenza nel mercato del servizio, dall’altro, questo significa doppiare il mercato, creare due mercati (quello delle reti e quello del servizio) dove ne esisteva uno solo. In quest’ottica le previsioni legislative che prevedono la separazione tra gestione delle reti e gestione dei servizi a volte fanno una scelta (l’introduzione della concorrenza nel mercato dei servizi), a volte l’altra (la creazione di due distinti mercati), a volte contraddicono l’una e l’altra. Così, ad esempio, nel nuovo testo dell’art.113 del testo unico il secondo comma segna in apparenza la separazione netta tra la proprietà delle reti e la gestione del servizio, preservando alla proprietà degli enti locali le reti e gli impianti. Collegando il secondo comma al comma 13 si vede che questa riserva di proprietà è fatta o alla proprietà diretta dei Comuni (che possono essere intestatari diretti delle reti degli impianti), oppure alla proprietà indiretta (attraverso la costituzione di una società per azioni a capitale di maggioranza pubblica locale). Per quanto riguarda la gestione delle reti i commi 3 e 4 sanciscono un principio fondamentale secondo il quale la gestione delle reti va insieme alla gestione del servizio. Nel momento in cui si farà la gara per l’affidamento del servizio, all’affidatario verrà affidata anche la gestione delle reti. Qualora norme di settore consentano la separazione della gestione delle reti dalla gestione del servizio la gestione delle reti sarà affidata a soggetti individuati ad hoc (soggetti individuati per gara; società a capitale pubblico locale di maggioranza costituite appositamente dal comune; società proprietarie delle reti).
Dalla normativa in esame emergono alcune virtù ed alcune perplessità.
La prima virtù sta nell’assunzione della consapevolezza della centralità delle reti. Paradossalmente per come la legge si esprime dovremmo immaginare come servizio pubblico in senso stretto quello che sta nelle reti. Inoltre, emerge la centralità economica delle reti. Nella vecchia disciplina la non distinzione tra la proprietà e la gestione delle reti e la gestione del servizio era dovuta anche alla accessorietà delle reti al servizio: gli enti locali consideravano le reti come un peso, un onere economico alla cui manutenzione dovevano provvedere, mentre la parte produttiva era quella della gestione del servizio. Questo oggi è profondamente contraddetto da alcune vicende. In primo luogo c’è l’utilizzazione delle reti come strumento urbanistico di veicolo per altre cose (cablaggio delle città: la disponibilità delle reti le rende appetibili perché su di esse si possono far correre strumenti di attività di impresa extra servizio pubblico). Inoltre emerge la necessità dell’accorpamento in soggetti grandi e quindi della loro capitalizzazione con capitale che sia apprezzabile in sede di quotazione e di mercato; le reti, come bene strumentale fisico, sono sicuramente apprezzabili in questo senso.
Tra le perplessità va rilevato che nella norma (nuovo art.113) non appare chiaramente scritto il principio al quale la norma stessa dice di ispirarsi (principio della separazione fra la proprietà delle reti e la gestione del servizio). Così, ad esempio, alla gara per l’affidamento della gestione del servizio non possono prendere parte le società che siano destinatarie della gestione delle reti, ma non vi è letteralmente alcuna preclusione della partecipazione a questa gara delle società proprietarie delle reti che non siano anche incaricate della gestione del servizio. Ancora il comma 13 dell’art.113 fa delle società intestatarie della proprietà delle reti, che ovviamente non svolgono un’attività di impresa in senso tecnico, i potenziali gestori delle procedure di affidamento dei servizi e, contemporaneamente, i potenziali partecipanti alle gare per l’affidamento della gestione dei servizi. Si tratta, ovviamente, di letture rigide della norma che non rispondono al principio che ispirava il legislatore. Emerge, tuttavia, un problema di cui l’art.35 della legge n. 448/2001 non tiene conto. Con riferimento ai meccanismi di articolazione in holding, non c’è nessuna norma che impedisca alle società intestatarie delle reti di partecipare per mezzo di società, anche interamente partecipate, alle gare per l’affidamento del servizio.
Un’altra riflessione riguarda il rapporto tra regola ed eccezione nel sistema di gestione delle reti nel momento di separazione della gestione delle reti dalla gestione del servizio. La regola di cui all’art.113 (commi 3 e 4) è che la gestione del servizio e la gestione delle reti vanno insieme e l’eccezione, cioè la loro separazione, è ammissibile solo quando norme settoriali lo consentano. Anche questa affermazione contraddice un principio. Se è vero che l’intento della norma è quello di creare più occasioni di mercato e di spaccare il mercato in armonia con le previsioni comunitarie, sembrerebbe più logico un diverso assetto tra regola ed eccezione: disporre come regola la separazione tra gestione delle reti e gestione del servizio (come accade nel servizio universale) e consentire alle discipline di settore di riaccorpare la gestione delle reti e quella del servizio.
L’ultima considerazione è che il regolamento ben farà a ricondurre ad una qualche logicità di diritto commerciale l’assetto societario che si immagina per le società di proprietà delle reti e per le società di gestione. Pensiamo al continuo riferimento al concetto di maggioranza del capitale sociale. Nell’art.113 le società, tanto di proprietà delle reti quanto di gestione delle reti, sono governate da un sistema puramente basato sulla maggioranza del capitale sociale.
Cesare San Mauro (Docente nella Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione). La disciplina dei servizi pubblici locali nella prospettiva europea.
Con l’art.35 della legge n. 448/2001 emerge la scelta del soggetto pubblico nella proprietà della rete e la scelta del soggetto privato per la gestione del servizio. Con riferimento a questa diversificazione, a livello comunitario troviamo una disomogeneità all’interno dei Paesi dell’Unione Europea. Così, ad esempio, nel settore dell’acqua la Francia è in una condizione di assoluta privatizzazione. Al contrario in Olanda la gestione delle acque è praticamente tutta pubblica.
Sull’art.35 va precisato che nel rapporto con le leggi di settore queste ultime non possono che piegarsi di fronte ai contenuti innovativi della nuova legge: vengono applicate solo in quanto compatibili con le nuove disposizioni legislative di cui all’art.35.
Un altro punto evidenziato dal relatore riguarda la questione all’esame della Corte costituzionale circa la competenza Stato Regioni sui servizi pubblici locali. Certamente vi è la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza, ma anche in materia di diritto commerciale, nonché di adozione degli standard dei servizi pubblici essenziali.
Sull’inesistenza di una norma specifica atta ad impedire alle imprese proprietarie delle reti di partecipare alle gare per l’affidamento del servizio (Dugato) si può dire che questa norma è rintracciabile proprio nel regime transitorio previsto dalla legge che vieta alle società di capitali, in cui la partecipazione pubblica è superiore al 50%, di partecipare ad attività imprenditoriali al di fuori del proprio territorio.
Vale la pena riflettere anche sulla natura giuridica del contratto di servizio che diventa l’elemento principe, regolatore dei rapporti tra enti pubblici e società che gestiscono il servizio.
Il comma 11 dell’art.35 recupera l’istituto del diritto d’uso attribuendolo al caso in cui le reti siano già di proprietà di società per azioni quotate in borsa. La scelta del legislatore è di natura economica: viene considerato un diritto d’uso permanente a favore dell’ente pubblico territoriale.
Il comma 14 prevede l’istituzione di un sistema di vigilanza e controllo sui servizi pubblici. Si tratta di una possibilità per gli enti pubblici di dotarsi di strumenti di controllo ad hoc sui comportamenti e gli obblighi previsti dal contratto di servizio.