Gli oneri fiscali per l’esecuzione dello sfratto sono illegittimi – Nota a Corte Costituzionale 24 settembre 2001, n.333

10.10.2001

Gli oneri fiscali per l’esecuzione dello sfratto sono illegittimi – Nota a Corte Costituzionale 24 settembre 2001, n.333

di Raffaella Marzulli

1. Vicende processuali

La questione di legittimità dell’art. 7 della legge n. 431 del 1998 è stata presentata per la prima volta al vaglio della Corte Costituzionale, in particolare con riferimento ai limiti che tale articolo impone al locatore al fine di esercitare il diritto di agire in giudizio, in materia di rilascio di immobile locato.

Nella specie, il conduttore si opponeva all’esecuzione di un provvedimento giudiziale di convalida di sfratto, in ragione della mancanza nel precetto delle condizioni di cui all’art. 7 della L. 431/98.

Il Tribunale di Firenze, giudice a quo, ha ritenuto che la sollevata questione di legittimità non fosse manifestamente infondata, giacchè ” l’art. 24 Cost. assicura a tutti il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi; tale tutela ricomprende, all’evidenza, anche l’aspetto esecutivo dei provvedimenti. [Mentre] l’art. 7 della L. 431/98 pone una condizione che si configura come un limite ad agire esecutivamente, senza che tale limite sia minimamente determinato da esigenze di contemperamento delle esigenze del locatore esecutante e del conduttore esecutato”.

Nella Giurisprudenza di merito, già precedentemente l’art. 7 aveva suscitato sospetti di incostituzionalità. Davanti alla Pretura di Monza era stata sollevata, infatti un’eccezione di illegittimità costituzionale in riferimento alla stessa norma e pressoché negli stessi termini; conclusasi, però con il rigetto del giudice a quo che nella vicenda ritenne l’eccezione manifestamente infondata. L’allora giudice nell’ordinanza affermò che “ove il privato intend[eva] attingere alla massima espressione della forza autoritativa dello Stato per conseguire l’attuazione concreta di un diritto, mediante la sostituzione dei suoi organi all’inerzia o alla resistenza dell’altra parte, [doveva] in primo luogo dimostrare di essere egli stesso ottemperante degli obblighi fiscali che lo Stato gli impone”.

Il Tribunale di Firenze non ha ritenuto di accogliere l’orientamento del suo predecessore. Generalizzando il principio sostenuto dal giudice di Monza, si sarebbe arrivati, altrimenti, a dover imporre, ex art. 3 Cost., il deposito della propria dichiarazione dei redditi a tutti coloro che avrebbero voluto adire l’autorità giudiziaria, siano essi attori o convenuti, in materia di locazione o in altri ambiti.

La sentenza della Corte Costituzionale in esame ha, dunque, definitamente espunto dall’ordinamento l’art.7 della legge n. 431 del 1998, dichiarandolo illegittimo perché in contrasto con il 1° comma dell’art. 24 Cost.

La questione di legittimità sottoposta alla Corte Costituzionale è essenzialmente fondata sulla necessità di contemperare esigenze che almeno prima facie sembrano difficilmente conciliabili tra loro. In realtà il vizio dell’art. 7 è essenzialmente nei principi che esso presuppone. A tal fine pare necessario, dunque, far luce sugli interessi sottesi alle norme che la Corte costituzionale ha posto a base della sua statuizione.

2. Art. 24 Cost.: il diritto di agire in giudizio

L’art. 24 Cost., in ossequio al principio di uguaglianza, riconosce a tutti la possibilità di ricorrere al sistema giudiziario per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi. Tale norma è suscettibile di integrazione con i principi sanciti nell’art. 3 Cost.: in particolare ha il compito di rendere effettivo ed operante il diritto all’uguaglianza, anche in sede processuale, posto che l’assenza di ogni discriminazione soggettiva è il presupposto comune della titolarità di qualsiasi diritto o dovere civico. Solo consentendo a tutti il diritto di accesso alla giustizia, si può realizzare concretamente il principio di uguaglianza annoverato tra i principi supremi della Costituzione, in quanto connesso con lo stesso principio di democrazia.

Il 1° comma dell’art. 24 esprime la volontà del legislatore di condannare ogni tipo di discriminazione che possa sopprimere o menomare i diritti civili. In quest’ottica, si spiega anche la collocazione del diritto alla tutela giurisdizionale tra i diritti sanciti nella I parte della Carta Costituzionale, dedicata ai diritti della persona. Essa infatti funge da “suggello all’insieme dei mezzi di garanzia dei diritti e delle norme organizzative destinate a dare concretezza alla tutela delle libertà”.

Tuttavia, il diritto ad agire in giudizio è, secondo la dottrina e la giurisprudenza, suscettibile di limitazioni, anche se, ancora incerto rimane il confine tra i limiti compatibili con il dettato costituzionale e i limiti che lo violano, in quanto destinati a svuotare di significato la garanzia sancita nella Carta.

E’ pacificamente ammessa la possibilità di limitare i diritti costituzionalmente garantiti, in presenza di interessi superiori. Accanto ai singoli diritti inviolabili ne esistono degli altri, di pari rango, che la gerarchia di priorità e di valori, accolta nella Costituzione, impone di considerare ugualmente meritevoli di protezione e che debbono essere armonicamente coordinati in modo da limitarsi a vicenda, restando così nella legittimità costituzionale.

Difficile resta, però l’individuazione dei parametri di comparazione dei vari interessi o diritti tutelati, qualora le stesse norme costituzionali non ne consentono una sicura definizione. I giudici della Consulta hanno determinato, nel tempo, i limiti all’esercizio dei singoli diritti, in virtù dell’esigenza di tutela, non solo di altri diritti costituzionali, ma anche di salvaguardia di interessi pubblici prevalenti.

Si è quindi, circoscritto l’ambito entro cui il sacrificio della tutela giurisdizionale può ritenersi costituzionalmente ammissibile, affermando, in riferimento all’art. 24 Cost., che esso è suscettibile di violazione soltanto quando una norma ordinaria impedisca “irragionevolmente” l’azionabilità processuale di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo.

3. (segue): il dovere di adempimento degli oneri fiscali

Uno dei problemi di maggiore rilievo nella Giurisprudenza della Corte Costituzionale è rappresentato, dunque, dalla compatibilità tra il precetto dell’art. 24, 1° comma, Cost. e le norme ordinarie intese a disciplinare e a limitare in concreto le modalità di esercizio dei poteri di iniziativa giudiziale.

I confini di una legittima limitazione del diritto d’azione, così come delineato dalla giurisprudenza costituzionale, rimangono ancora piuttosto confusi. Talvolta la Corte costituzionale ha ritenuto legittimi gli oneri patrimoniali o fiscali, negando una compressione del diritto di accesso alla tutela giurisdizionale. In particolare, la Corte giustificava l’apposizione degli oneri patrimoniali in quanto essi prevengono eventuali ed inammissibili eccessi nell’esercizio del diritto di azione; e degli oneri fiscali, solo se rispondono ad un’esigenza di ragionevolezza e di tutela di interessi superiori. In altre occasioni, la stessa Corte ha esplicitamente affermato l’illegittimità degli oneri fiscali, obiettando che “le garanzie processuali non possono essere limitate al fine di agevolare la riscossione dei tributi”, censurando qualsiasi tipo di giurisdizione condizionata.

Subordinare l’esercizio del diritto d’azione di cui all’art. 24, 1° comma, Cost. all’adempimento dei oneri fiscali fa sorgere una questione di ponderazione di interessi costituzionalmente tutelati, giacché crea un collegamento tra norme di diversi settori, per cui occorre stabilire quale fra essi risulta prevalente.

Gli oneri fiscali si pongono come limite sostanziale giustificato dall’esigenza di coordinare la tutela del diritto di azione con la salvaguardia del pubblico interesse alla riscossione dei tributi, sancito all’art. 53 Cost. Bisogna, però, non confondere, sotto il profilo dell’illegittimità, i vari istituti che impongono l’assolvimento di oneri processuali.

A tal fine la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 113 del 3 luglio 1963, ha distinto gli oneri processuali in due tipologie: quelli che hanno lo scopo di “assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione” e quelli “tendenti al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali. Mentre i primi sono consentiti in quanto strumento di quella stessa tutela giurisdizionale che si tratta di garantire, i secondi si traducono in una preclusione o in un ostacolo all’esperimento della tutela giurisdizionale e comportano perciò la violazione dell’art. 24 Cost.”.

Secondo l’orientamento ormai consolidato, a cui anche i giudici odierni si riportano, se l’onere è un mezzo tipicamente utilizzato nel processo, al fine di indurre le parti a compiere attività considerate utili affinché il processo possa meglio conseguire il suo scopo, esso si configura come uno strumento inteso “a garantire il regolare svolgimento e l’efficacia pratica del processo medesimo”. Contrasta, invece, con tali principi, ed è perciò illegittimo, l’onere che incide direttamente sui poteri di azione del soggetto onerato, in modo tale da renderne impossibile l’esercizio.

Ne deriva che il nostro ordinamento ammette una restrizione dell’art. 24 Cost. solo laddove essa tenda ad assicurare il miglior esercizio dei poteri processuali, garantendo il principio supremo del perseguimento della giustizia. Mentre sono da condannare e censurare, con la sanzione dell’illegittimità, quelle norme che costituiscono un onere processuale in capo ad un soggetto ponendo de facto un ostacolo, non giustificato da un preminente interesse pubblico, al legittimo svolgimento del processo.

Si tratta, dunque di accertare, caso per caso, fino a che punto l’attribuzione al legislatore di determinati poteri di imposizione di oneri fiscali possa comprimere ragionevolmente il diritto di fare valere attivamente in giudizio i propri diritti o interessi legittimi.

Le garanzie costituzionali hanno, in genere, l’effetto sul legislatore di precludergli qualsiasi attività di normazione in contrario.

4. Gli oneri fiscali in materia di locazioni abitative

La recente normativa in materia di locazioni abitative (legge n. 431 del 9 dicembre 1998), con una disposizione innovativa, l’art. 7, prevede che “la messa in esecuzione” del provvedimento di rilascio dell’immobile locato sia condizionata alla dimostrazione di alcuni adempimenti tributari da parte del richiedente.

In particolare, l’esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile locato è ammessa a condizione che il contratto di locazione sia registrato, che l’immobile sia denunciato ai fini dell’applicazione dell’I.C.I. e che il reddito derivante dall’immobile medesimo sia stato dichiarato ai fini dell’applicazione dell’imposta sui redditi.

Tali dichiarazioni non sono dei meri requisiti formali di validità dell’atto di precetto, ma debbono considerarsi delle condizioni di procedibilità, cioè dei requisiti sostanziali il cui difetto condiziona la prosecuzione dell’azione esecutiva.

L’art. 7 citato, costituendo un ostacolo allo svolgimento delle attività processuali, preclude in definitiva la possibilità di tutela dei propri diritti e degli interessi legittimi da parte dell’attore e si pone così in contrasto con il dettato costituzionale. La norma si propone di realizzare uno scopo di natura esclusivamente fiscale: soddisfare cioè i bisogni finanziari dello Stato, piuttosto che agevolare l’ordinato svolgimento del processo e il perseguimento della giustizia.

La disposizione ha per oggetto uno stesso comportamento dal quale, però, discendono diversi effetti; il mancato pagamento di un’imposta ha l’effetto di produrre una duplice conseguenza: alla sanzione tributaria si aggiunge la sanzione dell’improcedibilità della sentenza esecutiva di sfratto, producendo la paralisi del processo e quindi la perdita dell’esercizio della tutela giurisdizionale.

Vi è, in definitiva, “un’assurda confusione e commistione di aspetti”: l’aspetto fiscale e l’aspetto del diritto all’ottenimento del rilascio, in base ad un provvedimento giudiziario esecutivo, dell’immobile locato.

Con la sentenza in esame, i giudici costituzionali hanno ben coordinato il principio che garantisce al cittadino la tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), con quello che obbliga a concorrere alle spese pubbliche (art. 53 Cost.), ritenendo che gli oneri di cui all’art. 7 della suindicata legge siano irragionevolmente restrittivi delle garanzie costituzionali e perciò illegittimi, in quanto meri strumenti di controllo fiscale sul locatore, senza alcuna connessione con il processo e con gli interessi da tutelare.

5. Una decisione da approvare

L’esigenza pubblicistica di tutela degli interessi superiori, quale può essere considerata la riscossione dei tributi, non può giustificare una normativa che conduca a soffocare o addirittura limitare il diritto inviolabile di esercizio dell’azione giurisdizionale, sancito nella Costituzione.

“Nessun reato, anche il più grave, porta con sé come sanzione questa specie di esilio giudiziario che è stabilita a carico di chi non sia in regola con i tributi”. “Chiunque di media sensibilità giuridica dovrebbe fortemente approvare la decisione della Corte”.

L’art. 7 ha, infatti, esclusivo riguardo all’adempimento di oneri processuali giustificati da finalità puramente tributarie, estranee alle esigenze giurisdizionali.

In definitiva con la sentenza in commento, la Corte Costituzionale ha negato che l’interesse pubblico alla riscossione dei tributi fosse costituzionalmente prevalente sull’interesse dell’individuo ad agire in giudizio.

Porre l’interesse tributario in posizione paritetica rispetto alle garanzie costituzionali, collocandolo tra i doveri dei cittadini sanciti nella Costituzione, non significa riconoscergli preminenza idonea ad affievolire la protezione del supremo ed inviolabile diritto alla tutela giurisdizionale.

Il diritto d’azione può essere legittimamente limitato dalla necessità di tutelare interessi processuali e superiori esigenze di giustizia. Negli altri casi, “le garanzie costituzionali dell’individuo vanno considerate elementi cardine della Costituzione”, poiché la struttura di uno Stato democratico si fonda su norme di garanzia e di tutela del cittadino nei confronti dei pubblici poteri.

L’art. 7 sembra essere finalizzato unicamente a creare un sistema di controllo della posizione fiscale del locatore. Ma la necessità di far emergere situazioni irregolari sotto il profilo tributario, anche se di interesse pubblico, non può essere assicurata con lo strumento introdotto dall’art. 7, in considerazione del limite posto al legislatore ordinario dalla norma costituzionale.

Sembrerebbe, altrimenti, affidare ai conduttori il compito di “sentinelle dei doveri fiscali” quasi dei “sostituti processuali del fisco”: adendo l’autorità giudiziaria non si lamenta la lesione dei propri diritti, bensì si denuncia il mancato pagamento dei tributi.

Invece, “la ricerca degli evasori non rientra né tra le attribuzioni dell’autorità giudiziaria (giudicante), né dei conduttori di immobili urbani, ma è dovere dei pubblici uffici, “organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”(art. 97 Cost.), cioè agli uffici finanziari, far sì che siano adempiuti i doveri fiscali”.

In assenza della plaudita sentenza, nell’applicazione pratica della censurata disposizione normativa, si potrebbe arrivare al paradosso di consentire all’inquilino moroso di rimanere tranquillamente in casa, allorquando il locatore non avesse esattamente provveduto ai suoi obblighi fiscali, sacrificando in tal modo, non solo il diritto di azione in giudizio, ma anche il diritto di proprietà di chi, invece, vorrebbe legittimamente essere assicurato dalla tutela giurisdizionale riconosciuta dall’ordinamento giuridico.

di Raffaella Marzulli