La Presidenza del Consiglio dei Ministri alla prova della sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 29 maggio 2002

09.10.2002

“Que farai fra’ Iacovone / Ei venuto al paragone”

scrive in una delle sua laudi più ispirate Iacopone da Todi, poeta, frate francescano rigorista e, suo malgrado e per una volta di troppo, uomo politico del Due-Trecento.

Iacopone, incarcerato ed in catene da un anno e mezzo in una cella sotterranea di un convento a Todi, si domanda il da farsi ed è alla resa dei conti con se stesso.

Come e perché si fosse cacciato in una situazione del genere è subito detto: dopo l’elezione al soglio pontificio di Bonifacio VIII, i Colonna, e con loro anche fra’ Iacopone, avevano sottoscritto a Lunghezza, presso Palestrina, un manifesto in cui dichiaravano l’illegittimità della nomina del nuovo papa.

Correva l’anno 1297 e finì male: Bonifacio VIII mise sotto assedio il castello di Lunghezza, lo espugnò e condannò tutti i sottoscrittori del proclama al carcere a vita, previa scomunica.

Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 29 maggio 2002, anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri è venuta “al paragone” e si interroga sul da farsi.

È opportuno fare un passo indietro: periodicamente, Palazzo Chigi ha tentato di attribuirsi, di fatto o con legge ordinaria, lo stesso grado di autonomia proprio di un organo costituzionale, senza che la Presidenza lo sia.

Le due Camere, la Presidenza della Repubblica e la Corte Costituzionale, che organi costituzionali sono, escludono i rispettivi atti di organizzazione interna, di bilancio e di gestione del personale da qualsivoglia controllo esterno, preventivo o successivo.

A tale impostazione la Corte Costituzionale ha dato il proprio avallo quando, investita della questione di costituzionalità del regolamento della Camera dei Deputati, si è riconosciuta incompetente a sindacarne la legittimità costituzionale, fondando la propria decisione (sentenza n. 154 del 1985) sull’impossibilità di riconoscere a tale atto rango legislativo, con conseguente carenza di giurisdizione del Giudice delle Leggi.

La dottrina è, dal canto suo, orientata nel senso di riconoscere ai regolamenti degli organi costituzionali una forza superiore a quella della legge ordinaria ovvero, come sembra preferibile, a considerarli espressione di una competenza riservata dell’organo costituzionale chi li sottrae alla legge ordinaria (Galeotti).

Se, com’è ovvio, è la struttura organizzativa del Governo nel suo insieme a rappresentare il termine di paragone rispetto al quale gli apparati degli altri organi costituzionali possono dirsi autonomi, è peraltro indubbio che la Presidenza del Consiglio manifesti dei tratti differenziali marcati rispetto ai Ministeri, quanto alle funzioni, interne nella prima, ed esterne nei secondi.

Mentre l’apparato servente di un Ministro è volto alla realizzazione delle policies attribuite alla competenza del titolare del dicastero, e come tale cura interessi esterni a quell’apparato, la Presidenza del Consiglio, anche in considerazione del trasferimento ai Ministeri di funzioni non riconducibili a funzioni di impulso e coordinamento del Presidente disposto dall’art. 10 del D. Lgs. 303/99, svolge un’attività servente alle funzioni interne di iniziativa, coordinamento e promozione del programma di Governo svolte dal Premier.

Se ciò fa della Presidenza del Consiglio un “Ministero sui generis” (Rizzoni), tanto basta per avvicinarla al grado di autonomia degli organi costituzionali?

Come già anticipato, Palazzo Chigi in questo ha spesso creduto.

Un primo tentativo fu posto in essere de facto con il DPCM ordinamentale del 10 marzo 1994, non inviato al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, in quanto ritenuto atto organizzativo privo di rilevanza esterna.

La reazione della magistratura contabile per cui il decreto in questione era in sostanza un regolamento non già illegittimo, ma inefficace per mancata registrazione, non si fece attendere. Solo a seguito di una intesa istituzionale tra i due contendenti, Palazzo Chigi decise l’approvazione di un nuovo regolamento, inviato al visto. Dal canto suo la Corte dei conti “accettò” l’emanazione del DL 23 ottobre 1996, n. 543, convertito nella legge 20 dicembre 1996, n. 639, con il quale fu sancita la titolarità esclusiva delle funzioni individuate dall’articolo 19 della legge 400/88 in capo al Segretario Generale della Presidenza del Consiglio, quando non attribuite ad un Ministro senza portafoglio o delegate ad un Sottosegretario, in deroga alla normativa generale di cui al D. Lgs. 29/93 (ora 165/01) che vuole tali funzioni attribuite ai dirigenti amministrativi e non ad un organo, qual è il Segretario Generale, dalla natura ibrida, certo più politica che amministrativa.

Il secondo tentativo, avviato con legge ordinaria, di affrancare la Presidenza del Consiglio dal regime ordinario dei controlli sugli atti del Governo di cui all’articolo 100, c. 2, della Costituzione e all’art. 3 della legge 20/94, realizzato con la legge 59/97 ed il successivo decreto delegato 303/99, ha portato alla pronuncia della Corte Costituzionale che qui si commenta.

La Presidenza ha interpretato con larghezza la delega contenuta nella legge 59/97 in tema di autonomia organizzativa, regolamentare e finanziaria, giungendo alla previsione, nel decreto n. 303/99, di una forma di autonomia prossima a quella degli organi costituzionali, caratterizzata dalla esclusione dei propri decreti ordinamentali, di personale e di bilancio dal controllo della Corte dei conti (art. 9, c. 7, primo periodo, del D.Lgs. 303/99 che così recita: “ai decreti di cui al presente articolo [in materia di ordinamento del personale] ed a quelli di cui agli articoli 7 [di struttura o ordinamentali] e 8 [di bilancio] non sono applicabili la disciplina di cui all’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e quella di cui all’articolo 3, commi 1, 2 e 3, della legge 14 gennaio 1994, n. 20)”.

Di qui, l’emanazione del DPCM 23 dicembre 1999 di autonomia di bilancio e dei successivi decreti ordinamentali del 15 aprile, del 4 agosto e del 12 settembre 2000, tutti pubblicati in Gazzetta Ufficiale senza sottoposizione al visto della Corte dei conti.

Di qui, la proposizione da parte del magistrato contabile del ricorso per conflitto di attribuzioni con la richiesta di annullamento dell’art. 9, c. 7, primo periodo, del D.Lgs. 303/99 e la conseguente dichiarazione di inefficacia dei decreti presidenziali di cui supra, perché non sottoposti al visto della Corte.

Di qui, le conseguenze che sarebbero potute derivare dall’accoglimento pieno dei motivi di ricorso da parte della Corte Costituzionale: annullamento della norma-madre (art. 9, c. 7, primo periodo, del D.Lgs. 303/99) e dichiarazione di inefficacia dei decreti ordinamentali e di bilancio. Dichiarazione di inesistenza giuridica, cioè, di quei DPCM che contengono il DNA organizzativo degli uffici di amministrazione attiva di Palazzo Chigi (Segretariato Generale e Dipartimenti affidati a Ministri senza portafoglio), che dettano le norme-quadro perché, con altri DPCM (emanati e non inviati al controllo della Corte dei conti né, tanto meno, pubblicati, perché ritenuti atti a rilevanza interna) sono stati costituiti, ai sensi dell’art. 6, c. 1, del DPCM 4 agosto 2000, gli uffici di diretta collaborazione degli organi politici ed, infine, che regolano il bilancio, il consuntivo, la gestione delle spese, del patrimonio e dell’attività contrattuale della Presidenza.

Il tutto ora per allora, cioè, in altri termini, a far data dal dicembre 1999 per gli aspetti contabili e finanziari a dall’aprile del 2000 per quelli organizzativi.

La sentenza che qui si commenta non è giunta a tanto: ha dichiarato fondato il ricorso della Corte dei conti relativo all’eccesso di delega (la legge 59/97 non delegava il Governo, nella costruzione del sistema di autonomia organizzativa, regolamentare e finanziarie della Presidenza del Consiglio di Ministri, a derogare al sistema dei controlli esterni di legittimità, previsto dall’art. 100, c. 2, della Costituzione, dall’art. 17 della legge 400/88 ed, infine, dall’art. 3, cc. 1-3, della legge 20/94) e ha pertanto annullato l’art. 9, c. 7, primo periodo, del D.Lgs. 303/99 per violazione dell’art. 76 della Costituzione.

Il Giudice delle Leggi non ha, peraltro, fatto discendere dalla dichiarazione di incostituzionalità della norma-madre quella di inefficacia dei DPCM da essa derivati ritenendo il ricorso, per tale parte, inammissibile, con le stesse parole della Corte, “nel giudizio su conflitto costituzionale di attribuzioni, in cui non si discute meramente di regime degli atti giuridici cioè, nella specie, delle conseguenze che dalla violazione della legge possono derivare sulla (legittimità o sulla) efficacia degli atti giuridici”, aggiungendo che le conseguenze che dall’annullamento della norma de qua derivano con riguardo ai decreti ”emanati sulla sua base devono essere tratte nell’esercizio di altre competenze, non rientranti tra quelle spettanti alla Corte Costituzionale”.

Se così deve essere, la pronuncia della Consulta fa luce sui limiti dell’attività normativa della Presidenza del Consiglio per il futuro, ma non è d’aiuto per quanto fatto fino ad oggi, vigente l’articolo del D. Lgs. 303/99, solo ora espunto dall’ordinamento giuridico.

I DPCM ordinamentali, di bilancio e quelli da loro derivati (tra cui i DPCM di struttura degli uffici di diretta collaborazione degli organi politici, costituiti giusta la previsione di cui all’art. 6, c. 1, del DPCM del 4 agosto 2000) giacciono in una sorta di limbo giuridico da cui non è agevole uscire. Posto, infatti, che gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità della norma che ne autorizzava l’emanazione senza controllo esterno si producono ex tunc, i decreti de quibus, non avendo superato la conditio legis della registrazione da parte della Corte dei conti, sono da considerarsi inefficaci, cioè, ad opinione di chi scrive, giuridicamente inesistenti.

Ed infatti le contrarie opinioni di chi li consideri atti nulli o annullabili sarebbero sostenibili se tali atti avessero completato il loro iter di formazione giuridica: se così fosse stato, ben potrebbe opinarsi se la contrarietà all’articolo 100, c. 2, della Costituzione o ad altra norma di rango ordinario integri un vizio di natura tale da condurli alla dichiarazione di nullità o all’annullamento per violazione di legge.

In realtà, non essendo ancora, in difetto di registrazione, atti giuridici perfetti pare prematuro sindacarne la legittimità ponendoli a paragone con atti, quali la Costituzione o la legge 20 del 1994, che, al contrario, norme giuridiche sono, non potendosi ragionevolmente raffrontare ad esse un qualcosa, vale a dire i DPCM in questione, che giuridicamente ancora non è.

Da tale conclusione deriva che tanto la magistratura ordinaria che quella amministrativa, lasciate da parte valutazioni su presunta nullità o annullamento, tali atti inefficaci dovrebbe considerare inesistenti e, come tali, inapplicabili (tamquam non essent).

La difficoltà che tali “competenze” (per dirla con le parole della Corte Costituzionale) abbiano a giudicare sui DPCM in questione sorge, invece, dalla natura stessa di tali atti, la cui natura è organizzativa, strutturale e di bilancio. Pare, infatti, improbabile, anche se non da escludersi a priori, che vi sia qualcuno che abbia legittimazione ed interesse ad agire in giudizio in siffatta materia.

Questo non toglie che la Presidenza del Consiglio sia “venuta al paragone” con la Corte dei conti: ed infatti, sia pur riconosciuta la difficoltà che il giudice ordinario o un TAR abbia a che fare con i DPCM di cui si tratta, per Palazzo Chigi è giunto il momento di agire, non potendo sostenere a lungo la situazione che, dopo la sentenza che qui si commenta, si è venuta a creare.

Infatti, la Presidenza del Consiglio, ben conscia che ogni suo nuovo DPCM ordinamentale, di personale e di bilancio, anche solo modificativo di quelli “salvati” dalla Consulta, dovrà essere ora sottoposto al vaglio della Corte dei conti, corre il rischio di incorrere in due possibili conseguenze, nessuna delle per lei desiderabile.

Se, per assurdo, interrompesse la propria attività di normazione in tali materie per il timore di veder sottoposti al controllo preventivo anche i DPCM ante sentenza 29 maggio 2002, n. 221, si condannerebbe da sola alla cristallizzazione di se stessa, evenienza quest’ultima che Palazzo Chigi, che deve stare al passo nella configurazione delle proprie strutture anche all’evoluzione degli equilibri politici di Governo, non può ragionevolmente permettersi.

Se, al contrario, inviasse sua sponte al controllo della Corte dei conti i DPCM, andrebbe incontro al rischio di vederseli azzerare in toto o in parte dal magistrato contabile, ora per allora. Tale eventualità è, per la Presidenza, tanto indesiderabile quanto la prima, non potendo permettere che oltre due anni di gestione finanziaria (con l’approvazione, ad oggi, di tre bilanci e due consuntivi) e di costruzione degli uffici di amministrazione attiva e di diretta collaborazione vengano cancellati.

La conclusione che chi scrive immagina per l’intera faccenda, per come si è messa dopo la sentenza della Consulta, è che oggi, come negli anni 1994-1996, i due poteri dello Stato rappresentati da quella porzione dell’Esecutivo che è la Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Corte dei conti, nelle persone del Segretario Generale della prima e del Presidente della seconda, si siedano intorno ad un tavolo e concordino una via d’uscita che permetta ad entrambi di chiudere onorevolmente la querelle.

Fino alla prossima volta.

di Antonio Di Marco Pizzongolo