Con le ordinanze n. 2794 del 28 maggio 2001 e n. 3155 del 7 giugno 2001 , anche il Tribunale di Firenze ha riconosciuto al domain name valore di segno distintivo, ribaltando le decisioni assunte in prima istanza. Con l’ordinanza del 28 maggio la sezione II del Tribunale di Firenze ha accolto il reclamo proposto contro l’ordinanza del Tribunale di Empoli datata 23 novembre 2000 nella quale il giudice aveva ritenuto inapplicabile ai nomi di dominio la normativa sui marchi e sulla concorrenza sleale. Prima del ‘ribaltone’, la giurisprudenza toscana si contraddistingueva per ritenere il domain name un mero indirizzo alfanumerico telematico che consente di raggiungere il sito da qualsiasi parte del globo. Era esclusa qualsiasi equiparazione sia al marchio, in quanto il domain name non identifica il prodotto aziendale ma solo il computer collegato alla rete, sia all’insegna, dato che quest’ultima, indicando il luogo ove l’imprenditore esercita la propria attività, ha una valenza ed una funzione prettamente territoriali, estranee al domain name che serve ad identificare il computer nella rete indipendentemente dalla sua dislocazione territoriale. Ogni computer è, infatti, dotato di un indirizzo basato sul protocollo Internet composto da quattro serie di numeri (da 0 a 225) separate da un punto. Poiché questo codice numerico non è di agevole memorizzazione gli è stato associato un indirizzo alfanumerico che costituisce, per l’appunto, il nome di dominio che si suddivide in Top Level Domain, indisponibile e geografico ( it. – .eu – .fr) o tematico (.org), ed in Second Level Domain, che è scelto dall’utente e costituisce il vero e proprio elemento caratterizzante l’indirizzo telematico. Essendo intrinsecamente diversi dai segni distintivi, in mancanza di una legge speciale, i giudici fiorentini (cfr. Tribunale di Firenze, ord. 29 giugno 2000, Soc. Sabena c./Castellani; ord. 12 settembre 2000, Novamarine spa c./Dada spa; ord. 23 novembre 2000, Bosch spa c./Nessos Italia srl; ma anche Tribunale di Bari, ord. 24 luglio 1996, Teseo spa c./Teseo Internet Service Provider srl.) applicavano, quindi, ai domain name unicamente le regole tecniche del Naming. Considerando prevalente l’aspetto tecnico-funzionale e la natura informatica del dominio ritenevano legittimo registrare un sito utilizzando come nome di dominio il marchio di un prodotto venduto sul mercato da un altro imprenditore. Con le ordinanze del 2001 il Tribunale di Firenze ha abbandonato tale posizione e si è allineato alla giurisprudenza dominante che tutela, invece, il domain name come un marchio: il domain name, che viene in concreto utilizzato dagli utenti della rete Internet per stabilire i contatti, digitato alla stregua di un numero telefonico, non viene, infatti, assegnato casualmente o d’ufficio ma è liberamente scelto dall’utente che, evidentemente, sceglie il dominio ritenuto più opportuno al fine di segnalare la propria presenza sulla rete e facilitare il contatto con gli altri utenti interessati alla sua attività. Il domain name svolge, quindi, non solo una sua funzione specifica nell’ambito dei codici comunicativi utilizzati nell’ordinamento di Internet, ma anche l’ulteriore funzione di segno distintivo dell’impresa che opera nel mercato elettronico. In applicazione dell’art. 1 della legge sui marchi, nella quale il termine segno è utilizzato dal legislatore con un significato talmente ampio da poter ricomprendere qualsiasi espressione grafica o fonetica preordinata all’individuazione di un’attività di impresa, il Tribunale di Firenze ha quindi riconosciuto alla società titolare del marchio (regolarmente registrato presso l’Ufficio italiano dei brevetti e dei marchi) il diritto di vietare a terzi di usare – come domain name – un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi identici, qualora a causa dell’identità o somiglianza fra i segni o dell’identità o affinità dei prodotti o servizi possa determinarsi un rischio di confusione; altresì ha riconosciuto il diritto di vietare a terzi di usare un segno identico per prodotti e servizi non affini se l’uso del segno, senza giusto motivo, consente di trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o rechi pregiudizio allo stesso (cd. tutela ultramerceologica del marchio rinomato). E tale diritto sussiste anche se il sito, registrato utilizzando come nome di dominio un marchio altrui, risulta ancora inattivo.
I contrasti che si sono avuti in giurisprudenza circa la natura giuridica dei domain name e che nel recente passato hanno determinato profonde iniquità (la negazione o il riconoscimento del diritto dipendevano unicamente dalla scelta operata dal Tribunale adito senza che sussistesse alcuna certezza del diritto) sono da ricondurre alla mancanza di una regolamentazione uniforme nei vari Stati interessati dalle relazioni telematiche e dal vuoto normativo presente nell’ordinamento italiano, nonostante l’infruttuoso tentativo della passata legislatura di colmarlo con il disegno di legge Passigli. Il disegno di legge presentato nella scorsa legislatura aveva l’obiettivo di frenare il cd. cybersquatting o domain grabbing, cioè la pratica di registrare sulla rete come nomi di dominio nomi o marchi già in uso per rivederli successivamente alle persone fisiche o giuridiche proprietarie. A tal fine era fatto divieto a colui che non era titolare, o che non poteva disporre del consenso scritto del titolare, di registrare come domini una serie di nomi (es. nomi identici o simili a quelli che identificano persone fisiche o giuridiche, nomi identici o simili a marchi di impresa o altri segni distintivi di impresa o di opere dell’ingegno, nomi che identificano cariche pubbliche, enti pubblici o località geografiche) e, prescindendo dalla buona fede, qualificava l’inosservanza del divieto come uso indebito di nome altrui, fatto che consentiva di ottenere l’ordine di cessazione dell’uso ed un risarcimento danni prefissato nella misura minima di 30 mila euro indipendentemente dal danno effettivamente patito (si trattava, quindi, di una misura punitiva più che risarcitoria). Tale scelta finiva, però, per incentivare il fenomeno opposto al domain grabbing, il cd. domain name hijacking, la richiesta, cioè, da parte del titolare di un nome o di un marchio di riappropriazione del domain name registrato casualmente da un soggetto diverso. Il disegno di legge ha suscitato le critiche degli operatori del settore, in quanto, oltre a rendere lunghissimi i tempi di registrazione, non indicava chiaramente se il destinatario del divieto fosse il richiedente la registrazione, il suo esecutore, ovvero l’intermediario che esegue per il richiedente le procedure necessarie (cd mantainer). Pur non essendo facile una verifica esaustiva, non esistendo elenchi completi di nomi riservati, sulla stessa linea, la Naming Authority nel maggio 2001 ha emanato un elenco di nomi che non possono essere registrati come domini. Si tratta, tuttavia, essenzialmente dei nomi geografici, dei nomi delle regioni, delle province e dei comuni italiani e delle corrispondenti traduzioni in lingua inglese. In seguito all’archiviazione del disegno di legge per frenare il fenomeno del cybersquatting, il 20 marzo 2001 è stato sottoscritto anche un protocollo d’intesa tra lo Iat – l’Istituto per le applicazioni telematiche del Cnr che opera in qualità di Registration Authority – ed Infocamere – una società consortile che gestisce i servizi informatici del sistema camerale – che prevede lo scambio delle informazioni tra i due enti per quanto riguarda i nomi di dominio richiesti e registrati dalle imprese italiane. L’accordo prevede che lo Iat, al fine di prevenire eventuali conflitti sui nomi assegnati, confronti i dati di chi richiede un dominio aziendale con quelli contenuti nel Registro delle imprese per determinare la priorità sull’uso dei nomi. Infocamere, da parte sua, provvederà a registrare nel Repertorio economico ed amministrativo, collegato al Registro delle imprese, i nomi di dominio assegnati alle singole imprese in modo da aumentare la certezza del diritto sulla presenza in Rete delle denominazioni sociali: l’accordo, però, riguarda solo i nomi di imprese contenuti negli archivi di Infocamere – presupponendo che siano aggiornati – e non anche quelli delle persone fisiche.
In realtà, ad ingenerare contrasti è anche il sistema di registrazione dei domini stabilito dalla Naming Authority italiana e gestito dalla Registration Authority italiana. Il sistema di registrazione si basa su uno standard generale che, nato in America alla fine degli anni Ottanta ad opera dell’Iana (Internet Assigned Number Authority alla quale nel 1998 è subentrata l’Icann – Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), si è poi articolato nel mondo attraverso la creazione di varie autorità di registrazione locali che adottano procedure definite da autonomi organismi collaterali. Le Autorità operano, generalmente, in base alla regola del first come first served secondo la quale il dominio viene assegnato a chi per primo lo domanda senza che venga svolta dalla Registration Authority alcuna indagine sulla legittimità della richiesta, salvo verificare successivamente la legittimità dell’uso attraverso la procedura amministrativa della riassegnazione prevista dall’art. 16 delle regole di Naming. L’organizzazione interna dei registri nazionali e la gestione delle varie funzioni non hanno, però, mai interessato né l’Iana né l’Icann. Nel 1994 l’Iana ha emesso il RFC 1591 che fissa i criteri generali di funzionamento dei registri nei ccTLD (country code Top Level Domain) lasciando, però, a questi totale autonomia organizzativa. Nel 1999 l’Icann ha emesso un ulteriore documento che precisa alcuni concetti espressi nel RFC 1591, senza aggiungere, però, precisazioni per quanto riguarda l’organizzazione dei registri. Altri documenti provenienti da fonti autorevoli si sono occupati dei criteri di gestione dei ccTLD come, ad esempio, il ‘Principles for the management and the delegation of ccTLD’ emesso dal Governmental Advisory Committee (GAC) dell’Icann che affronta, in particolare, il rapporto tra i governi, i registri nazionali e l’Icann, esprimendo il concetto che il registro gestisce un bene pubblico e che, quindi, deve agire nell’interesse della Local Internet Comunity (LIC), con una qualche forma di riconoscimento da parte del governo. Nessun documento di quelli sopra citati affronta, però, alcune problematiche particolarmente rilevanti, tra le quali segnaliamo: quale dovrebbe essere la tipologia della struttura che gestisce il registro; come si definisce e si risolve il problema della rappresentanza della LIC; come si realizza il riconoscimento da parte del governo; come vengono realizzate le principali funzioni del registro (tipicamente funzioni regolamentari, amministrative, operative e promozionali). Su questi punti è lasciato ampio margine di discrezionalità e non poteva essere altrimenti, dato che i ccTLD sono sorti in modo autonomo e, per molto tempo, non si e’ avvertito alcun incentivo ad un reale coordinamento tra di loro. La situazione del ccTLD ‘it’ ha, ad esempio, caratteristiche di unicità nel panorama dei ccTLD a livello mondiale, in quanto le funzioni gestionale e regolamentare del registro sono gestite da due entità distinte ed autonome – la Registration Authority e la Naming Authority – senza che esista alcun documento formale esplicito che sancisca i rapporti tra i due organismi (anche se è allo studio una nuova struttura regolamentare per la definizione delle procedure di registrazione dei nomi di dominio che prevede la costituzione in seno allo Iat/Registration Authority di un comitato di regolamentazione composto da 14 membri che sostituirà il potere regolamentare della Naming Authority).
Chi lamenta l’illegittima registrazione di un nome di dominio, oltre a rivolgersi al giudice ordinario per chiedere l’accertamento del diritto esclusivo all’uso del dominio contestato, senza avere – perlomeno in passato – la certezza che tale diritto gli fosse riconosciuto, può rivolgersi anche alla Registration Authority e chiedere un provvedimento di trasferimento a proprio favore del nome di dominio. Tale procedura, ispirata all’analoga procedura adottata dall’Icann (l’organismo internazionale che, oltre ad occuparsi delle registrazioni dei domini, ne sviluppa anche di nuovi come il recente ‘.biz’) è stata introdotta dalla Naming Authority italiana in data 28 luglio 2000. Dal 18 agosto 2001 è in vigore la versione 3.1 che prevede tempi più lunghi a favore della difesa rispetto al passato: 30 e non più 15 giorni per presentare memorie e documenti utili. In ogni caso sia durante il procedimento, sia a conclusione dello stesso le parti possono rivolgersi al giudice ordinario o istaurare un giudizio arbitrale ex art. 15 delle regole di Naming. Quest’ultimo rappresenta il terzo rimedio che un soggetto, di fronte all’illegittima registrazione di un dominio, può esperire, a condizione, però, che all’atto di assegnazione del dominio, nella lettera di responsabilità diretta alla Registration Authority, abbia sottoscritto la cd clausola arbitrale che comporta la devoluzione di eventuali controversie ad un collegio arbitrale denominato Comitato di arbitrazione.
Da un’analisi dei più recenti procedimenti di riassegnazione (cfr. procedura di riassegnazione del nome di dominio ‘championsleague.it’ del 18 gennaio 2002, Uefa c./ Future Time sas, in www.giurdanella.it ; procedura di riassegnaziome del nome di dominio ‘escada.it’ del 11 febbraio 2002, Escada Ag c./ Call Center Solutions srl, in www.studiocelentano.it), che rappresentano oramai il rimedio più diffuso contro il domain grabbing o cybersquatting, sia per la rapidità dei tempi di decisione (max 60 gg dalla presentazione del reclamo), sia per l’economicità della procedura che, però, può avere per oggetto solo i nomi di dominio registrati sotto il ccTLD ‘.it’, nonché dei lodi arbitrali della Naming Authority (es. lodo arbitrale del 2 agosto 2001, Cybersearch spa c./ Sig. ra F.S., in www.cittadinolex.kataweb.it/Internet/domini ; lodo arbitrale del 13 novembre 2001, Dvd Italia spa c./ Stemma srl, in www.e-jus.it) emerge, oramai indiscutibilmente, l’equiparazione dei domain name ai segni distintivi, in particolare al marchio, come affermato oggi anche da tutta la giurisprudenza. Tale indirizzo è confermato sia a livello internazionale, negli atti e nelle decisioni arbitrali della Wipo – World Intellectual Property Organization – (tra le ultime, cfr., Wipo Arbitration and Mediation Center, Salvatore Ferragamo Italia spa v. Eric Schier , Case n. D2001-0025 del 11marzo 2001), sia a livello europeo nelle risoluzioni del Parlamento europeo del 15 marzo e del 2 luglio 2001 e nella comunicazione della Commissione del 26 febbraio 2002 relative, rispettivamente, alla messa in opera del dominio di primo livello Internet ‘.eu’ e al passaggio ad Internet di nuova generazione basato sul sistema di trasmissione dati Ipv6. In particolare, nel delineare le linee di indirizzo di politica generale che la Commissione dovrà adottare per la messa in opera del dominio di primo livello ‘.eu’, si sottolinea la necessità di prevenire e risolvere – data l’analoga natura – i possibili conflitti tra nomi di dominio e diritti di proprietà intellettuale in conformità alle raccomandazioni della Wipo.