Le banche dati pubbliche

12.05.2003

La nozione di banca di dati ha, nel nostro ordinamento, due definizioni normative. La prima è contenuta nell’art. 1 della legge 675/96, secondo il quale essa è “qualsiasi complesso di dati personali, ripartito in una o più unità dislocate in uno o più siti, organizzato secondo una pluralità di criteri determinati, tali da facilitarne il trattamento”. La seconda definizione è, invece, contenuta nell’art. 2 della legge 633/41 (modificata dalla legge 169/99), in base al quale le banche di dati sono intese “come raccolte di opere, dati o altri elementi indipendenti, sistematicamente o metodicamente disposti ed individualmente accessibili mediante mezzi elettronici o in altro modo”.
La prima definizione si riferisce ad archivi di dati personali. Pertanto, la nozione di banca di dati assolve la funzione di individuazione delle modalità strutturali, attraverso le quali viene realizzato il trattamento dei dati sensibili di un soggetto. La seconda definizione, invece, si prefigge di assicurare un adeguato livello di protezione e di tutela giuridica alle banche di dati, in modo che il costitutore della banca possa ottenerne un beneficio economico. Si può dire che la “banca di dati” viene diversamente considerata dal legislatore, sia nazionale che comunitario, a seconda delle finalità perseguite. Infatti, una volta l’espressione è usata per consentire la verifica della tutela del contenuto della banca di dati (come nel caso dei dati personali), altra volta è usata per indicare le modalità strutturali (per la tutela del diritto d’autore), o ancora è usata per sottolineare la rilevanza degli investimenti economici (il diritto sui generis del costitutore), ovvero delle modalità di accesso di soggetti pubblici o privati ai dati contenuti nelle banche di dati.
E’ fuor di dubbio che “banca di dati” è una locuzione utile ad individuare un insieme di dati organizzati ed archiviati, in modo tale da consentire il rapido reperimento di un’informazione esaustiva. Tale accezione presuppone l’utilizzazione di un’efficiente capacità elaborativa dei dati contenuti nella banca, e quindi implica l’utilizzazione di tecnologie informatiche. Pertanto, per definire un archivio come “banca di dati”, bisogna sempre tener presenti tre elementi di tipo strutturale. Un primo elemento riguarda la presenza di dati informativi di base, i quali sono organizzati ed archiviati. Il secondo elemento riguarda il metodo in cui tali dati informativi vengono organizzati ed archiviati. Infine, il terzo elemento riguarda le modalità di consultazione e di estrazione delle notizie.
L’ambito normativo, precedentemente delineato, non prevede alcuna definizione di banca di dati pubblica. Infatti, l’unico cenno alle banche di dati pubbliche è rinvenibile nell’art. 25 della legge 340/2000, il quale, al primo comma, recita che “le pubbliche amministrazioni, che siano titolari di programmi applicativi realizzati su specifiche indicazioni del committente pubblico, hanno facoltà di darli in uso gratuito ad altre amministrazioni pubbliche, che li adattano alle proprie esigenze”. Inoltre, il comma secondo dello stesso articolo prevede che “le pubbliche amministrazioni hanno accesso gratuito ai dati contenuti in pubblici registri, elenchi, atti o documenti da chiunque conoscibili”. In realtà, né il primo né il secondo comma si riferiscono in senso stretto alle banche di dati pubbliche. Infatti, il primo comma si riferisce ad una facoltà che già esisteva nelle pubbliche amministrazioni ai sensi della L. 633/41, e non riguarda tanto le banche di dati, quanto il software applicativo. Il secondo comma, poi, non riguarda l’accesso a banche di dati pubbliche, bensì ad altri tipi di registri, che potrebbero essere assimilati alle banche di dati, soltanto in presenza dei tre elementi strutturali, di cui si è detto sopra.
Per comprendere appieno la fattispecie delle banche di dati pubbliche, bisogna partire da un criterio soggettivo. Cioè, sono banche di dati pubbliche, le banche di dati realizzate e gestite da soggetti appartenenti alla pubblica amministrazione, ossia da tutti quelli indicati all’art. 1 del d.lgs. 165/2001. Bisogna però precisare che, concordemente con l’art. 27 della legge 675/96, sono esclusi da tale novero gli enti pubblici economici. Sul punto la dottrina si è divisa. Alcuni commentatori hanno infatti sottolineato l’eccessivo formalismo del dato normativo, fondato sulla considerazione che il tasso di pubblicità si ricava dall’attività svolta, preordinata o meno al raggiungimento di un interesse pubblico. Altra dottrina ha invece argomentato che l’esclusione dei soggetti pubblici economici si giustifica alla luce del fatto che essi, pur essendo soggetti pubblici, hanno una propensione ad operare come imprese, e quindi come soggetti di diritto privato.
Da un punto di vista soggettivo, possiamo concludere che le banche di dati pubbliche possono essere definite come le banche di dati realizzate e gestite, direttamente o indirettamente, da pubbliche amministrazioni, ovvero da organismi di diritto pubblico, sulla base delle finalità istituzionali proprie di detti enti. Tali banche di dati sono generalmente accessibili dagli utenti, in base ai principi generali inerenti alla consultazione dei documenti amministrativi, e possono essere sottratte all’uso, solo in caso di limiti afferenti alla segretezza delle informazioni e alla tutela dei dati personali.
Passiamo ora a definire le banche di dati pubbliche attraverso un criterio oggettivo. Un primo dato normativo è costituito dall’art. 27 della legge 675/96, il quale ci ricorda il principio della finalità pubblica, relativa al trattamento dei dati personali rispetto alle funzioni istituzionali delle amministrazioni pubbliche. Non ci pare superfluo ricordare che il principio della finalità pubblica, altro non è che il principio del vincolo di scopo dell’attività amministrativa. Infatti, il vero elemento per distinguere l’attività informativa svolta da soggetti privati e quella svolta da soggetti pubblici, è proprio nel perseguimento dell’interesse pubblico, cioè nella realizzazione degli obiettivi che la legge prevede  per le pubbliche amministrazioni. Il vincolo di scopo dell’attività amministrativa rende in gran parte irrilevante il profilo della tutela giuridica del diritto sui generis. Infatti, come specifica la direttiva comunitaria 96/9/CE, il diritto sui generis consiste nell’accordare, al costitutore della banca di dati, una tutela mirante a salvaguardare l’investimento effettuato per costituire la banca di dati. Perciò, appare evidente che la tutela accordata serve a proteggere interessi di carattere imprenditoriale, che mal si conciliano con la finalità di pubblico interesse, propria delle pubbliche amministrazioni. La direttiva 96/9/CE precisa inoltre che costitutori di una banca di dati sono le persone fisiche e giuridiche di uno Stato, ad esclusione dei soggetti che rientrano nella pubblica amministrazione.
Sebbene pare da escludersi un diritto sui generis delle pubbliche amministrazioni, qualche precisazione va fatta. Infatti, l’attività finalizzata al perseguimento di pubblici interessi può essere svolta in forma imprenditoriale. Una banca di dati può rientrare nello svolgimento di una tale attività. In tal caso (si pensi a società che gestiscono servizi pubblici, ad esempio trasporti pubblici), non sembra che si possa escludere, in capo ai soggetti costitutori, un diritto sui generis, tutelabile ai sensi della direttiva comunitaria 96/9/CE. Ovviamente, ciò non esclude che i dati contenuti nelle banche siano assimilabili a meri documenti amministrativi, e perciò accessibili da chiunque vi abbia interesse. Inoltre, le informazioni contenute nella banca di dati, proprie perché strumentali al perseguimento di un fine pubblico, devono essere messe a disposizione di chiunque voglia svolgere un’analoga attività pubblica.
Alcuni commentatori non hanno mancato di sottolineare un altro aspetto importante in tema di banche di dati pubbliche: il problema della concorrenza e del monopolio delle informazioni. Le modalità di raccolta e di organizzazione dei dati e delle informazioni costituiscono un valore aggiunto alle informazioni medesime, perché da dati semplici si possono ricavare informazioni articolate, e quindi più appetibili. Perciò, le informazioni derivanti da particolari tipi di banche di dati pubbliche (ad esempio quelle di albi professionali) hanno un valore economico, in forza delle caratteristiche di completezza e aggiornamento che le sono proprie. Sul tema è intervenuta l’autorità antitrust, che ha stabilito che la disponibilità di informazioni, in ragione di una particolare posizione esclusiva, configura una posizione dominante. Pertanto, la circostanza che l’accesso alle informazioni finali sia limitato, integra una fattispecie di abuso di posizione dominante, perseguibile ai sensi della legislazione antitrust.
Ancora, si può affermare che è possibile la commercializzazione dei dati finali contenuti nelle banche di dati pubbliche, qualora essi derivino da un attività di organizzazione e archiviazione di dati grezzi, successivamente trattati. Infatti, non si rinvengono norme nell’ordinamento, secondo le quali sia gratuita l’erogazione di servizi pubblici informativi.
Un ultimo aspetto interessante, in tema di banche di dati pubbliche, è quello riguardante il diritto d’autore. Sotto il profilo soggettivo, a norma dell’art. 11 della legge 633/41, le pubbliche amministrazioni possono essere titolari di un diritto d’autore sulle opere create sotto il loro nome o per loro conto. Sul punto si può sostenere che le banche di dati pubbliche sono proteggibili, se ricorre il requisito della creatività, in forza del diritto di autore, ovvero sono proteggibili sulla base del diritto sui generis, solo nel caso in cui l’investimento, realizzato direttamente o indirettamente, sia stato rilevante rispetto al normale svolgimento dell’attività amministrativa. Infatti, l’insieme delle informazioni, contenute in una banca di dati pubblica, deve poter essere resa accessibile ai soggetti che ne facciano richiesta, in regime di condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie, e sulla base di criteri di remuneratività che siano equiparati ai costi, e che in ogni caso non siano di ostacolo allo svolgimento di un’attività concorrenziale.

di Vincenzo Ruggiero Perrino