* Intervento alla tavola rotonda sul tema “Codice etico e regolamentazione”, alla quale hanno partecipato il prof. Gianfranco Pasquino e il dott. Claudio Velardi, con la presidenza della dott.ssa Mariolina Marcucci, svoltasi a conclusione del convegno “Chi ha paura delle lobby? Come e perché le lobby possono far bene alla democrazia e al mercato”, Firenze, Villa “Il Ventaglio”, 16 settembre 2005.
1. Davanti al tema di questa tavola rotonda, dedicata all’eventuale introduzione di un codice etico o, più in generale, di forme di regolamentazione dell’attività di lobbying, ho provato a collocarmi in due ottiche diverse: da un lato, ho cercato di leggere il tema dal punto di vista del giurista “di professione”, da quello cioè di chi, seppure da pochi mesi, studia e insegna, a tempo pieno, una materia giuridica; dall’altro, ho sviluppato qualche riflessione sulla base di un’esperienza – ben più breve e meno prestigiosa rispetto a quella del prof. Gianfranco Pasquino, che a lungo è stato autorevole senatore – di operatore presso le istituzioni parlamentari, in veste di consigliere della Camera dei deputati.
2. Dal primo punto di vista, desidero anzitutto confessare una certa ritrosia a studiare a fondo le norme dedicate, in altri ordinamenti o de iure condendo nel nostro, al fenomeno del lobbying (segnalo peraltro i contributi sul tema elaborati da un paio di ricercatori che fanno capo all’Università Luiss-Guido Carli: Paolo Zuddas e Pierluigi Petrillo), forse perché intravedo il rischio che le regole giuridiche, particolarmente su un tema come questo, non colgano i fenomeni reali, che sono stati descritti così efficacemente, dai diretti protagonisti, nel corso del seminario odierno. La regolazione giuridica del lobbying tende spesso ad essere qualcosa di molto artificiale e il più delle volte inefficace: la stessa legge della Regione Toscana in materia, aldilà del positivo riconoscimento delle associazioni realizzatosi nella fase iniziale, non mi sembra aver prodotto fin qui grandi frutti sul piano del livello di trasparenza dei processi decisionali.
Certo, non nego che una qualche normazione minimale possa avere una sua utilità, specie nella già ricordata ottica volta a sottolineare il valore positivo del lobbying e nel superare alcune ritrosie che ci sono nell’affrontare questo tema. Il mancato riconoscimento del fenomeno a livello statale produce infatti conseguenze paradossali: basti pensare che ancora oggi l’accesso ai palazzi parlamentari è regolamentato dal Collegio dei questori della Camera del Senato in maniera assolutamente non trasparente, per cui spesso c’è il giornalista parlamentare che fa il lobbista, l’assistente parlamentare che in realtà fa il lobbista, e così via. Quindi, non nego che la regolamentazione giuridica possa produrre qualche effetto positivo, ma non ho grandissima fiducia nell’efficacia di tali regole a definire i contorni del fenomeno.
Sempre dal punto di vista del giurista, mi interessa inoltre richiamare come l’approccio giuridico dominante e forse, ancor prima, la costruzione del nostro ordinamento giuridico e di altri ordinamenti dell’Europa occidentale siano contraddistinti da una serie di caratteristiche che tendono ad ostacolare il pieno riconoscimento dell’attività del lobbista. In altri termini, la paura nei confronti delle lobbies trova, dal punto di vista del giurista e dal punto di vista dell’ordinamento giuridico, alcuni fondamenti, che finiscono perciò per giustificare un atteggiamento di sospetto nei confronti delle lobbies.
Un primo esempio può essere considerato il mito dell’interesse pubblico, su cui è costruito l’intero edificio del diritto amministrativo, dal XIX secolo ad oggi, e che solo da qualche decennio appare oggetto di consapevolezza critica e fors’anche in via di superamento: pure nella scienza giuspubblicistica, si incomincia a comprendere che l’interesse pubblico, se esiste, non può che essere il frutto di un processo di confronto tra gli interessi particolari nel procedimento amministrativo. Tuttavia, è ancora molto diffusa l’idea che l’amministrazione ha la supremazia sul soggetto privato, appunto perché persegue, per definizione, l’interesse pubblico.
Analogamente, ostacola il riconoscimento del lobbying anche l’idea della rappresentanza politica come rappresentanza generale, che è frutto della tradizione francese. Diversamente, tale idea non trova spazio nella tradizione inglese, perché lì la rappresentanza particolare diventa automaticamente, seppure molto gradualmente, rappresentanza parlamentare: in quella tradizione manca insomma la cesura costituita dal divieto di mandato imperativo, che invece ci portiamo appresso, ancor oggi, in tutte le culture giuridiche continentali. Che il rappresentante debba rappresentare un interesse generale e debba farsi rappresentante della nazione, è la nostra carta costituzionale a dirlo, all’art. 67: “ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue finzioni senza vincolo di mandato”. Non a caso, questo principio fondante ha fatto sì che in Italia sia stato occultato tutto un filone di studi, quello della cosiddetta scuola della “Public choice” – facente capo al premio Nobel per l’economia James Buchanan –, la quale ci dimostra, con notevole efficacia, come tutti i parlamentari siano più o meno direttamente legati ad un centro di interesse e, più in generale, come tutti gli esponenti di un organo decisionale portino avanti essenzialmente interessi particolari: è dal confronto di questi interessi che nasce una decisione pubblica, che assurge ad un livello di maggiore generalità quanto più il confronto è trasparente e tale da generare dinamiche positive. In questa ottica, le buone regole giuridiche, in particolare quelle della procedura parlamentare, hanno appunto il compito di far sì che il confronto tra questi interessi si svolga in modo trasparente e tale da consentire accordi non meramente “mercantili”.
In questi ultimi anni, ci si accorge che queste caratteristiche del nostro ordinamento giuridico stanno venendo un po’ svuotate dal di dentro. Dovendo individuare la causa prevalente di questo processo di svuotamento direi che probabilmente esso costituisce, con ogni probabilità, uno dei tanti effetti derivanti dalla sempre maggiore rilevanza dell’ordinamento comunitario. I caratteri di quest’ultimo, infatti, nascono dal confronto e dalla mescolanza di una molteplicità di culture giuridiche, tra cui figurano quella anglosassone e quella dei paesi scandinavi, che non hanno le stesse origini della cultura giuridica francese ed italiana. Non a caso, nell’ordinamento comunitario il fenomeno del lobbying non soffre di quel pregiudizio negativo che, invece, come prima si accennava, incontriamo in Italia.
Ho la sensazione che questi processi, ed in qualche misura il diffondersi delle società di lobbying in Italia, siano legati all’ordinamento comunitario. Anche per questa ragione il progetto di legge sul lobbying, attualmente all’esame della Commissione affari costituzionali della Camera, sta andando avanti, seppure non a ritmi velocissimi.
Sempre a proposito dell’ordinamento comunitario, vorrei sottolineare che la possibilità di agire a più livelli istituzionali (comunitario, nazionale, regionale, e spesso anche provinciale e comunale) è, per il lobbista, un evidente vantaggio: è cioè un elemento che agevola la pressione che esso esercita sul decisore politico. Certo, i processi decisionali a più livelli rendono più complesso il lavoro del lobbista, ma al tempo stesso fanno sì che sia sempre più necessario il supporto del lobbista nei confronti di un parlamentare, che controlla molto meno il processo decisionale di quanto non lo controllasse qualche decina di anni or sono. Ma, soprattutto, un processo decisionale così articolato consente al lobbista di giocare su più tavoli: e una volta che anche su uno solo di quei tavoli ha trovato spazio, diventa molto più facile far valere quella posizione anche su altri tavoli.
3. Se provo a guardare al tema dell’odierna tavola rotonda alla luce dell’attività svolta nelle quale segretario di commissione parlamentare, mi viene in mente soprattutto l’esperienza che ho avuto, da ultimo, presso la Commissione Agricoltura. Si tratta infatti di una commissione in cui le lobbies sono molto forti e spesso trasversali, come è dimostrato dalla circostanza che gli emendamenti identici – identici finanche nelle virgole, pur essendo presentati dai parlamentari dei diversi gruppi – costituivano la regola. Inoltre, trova conferma quanto diceva il prof. Pasquino, ossia che spesso l’attività di lobbying è svolta direttamente dai parlamentari, i quali si specializzano in un certo settore, finendo per costituire, su quel tema, un punto di riferimento per il proprio gruppo ma spesso anche per l’intera commissione. Infine, nella Commissione Agricoltura le associazioni di categoria sono molto forti, e sono in grado di esprimere i propri parlamentari, mantenendo al tempo stesso la capacità di essere interpartitiche: altrimenti, i propri emendamenti non troverebbero spazio in larga parte dello schieramento politico.
Direi che anche nelle regole di procedura parlamentare il sospetto nei confronti delle attività di lobbying si è fatto sentire e in parte si fa ancora sentire. Basti pensare alle resistenze frapposte all’introduzione delle udienze legislative, che per lungo tempo sono state superate solo in via di fatto, attraverso l’utilizzo a tale scopo delle audizioni informali e delle indagini conoscitive; solo nel 1997 il regolamento della Camera ha espressamente consentito lo svolgimento di tali strumenti conoscitivi nel corso del procedimento legislativo, durante l’istruttoria legislativa in commissione. Sta di fatto, però, che la disciplina delle audizioni non è del tutto soddisfacente, dal momento che si tratta di un modulo bon a tout faire: lo si usa per sentire gli esperti, ma anche per sentire i ministri e i rappresentanti delle categorie. Il che origina problemi, sui piani più variegati. Ad esempio, relativamente alla pubblicità dei lavori, che non sempre è adeguatamente garantita, o anche, per richiamare un caso banale ma emblematico, con riferimento alle spese: dandosi per presupposto che i rappresentanti delle categorie in genere dispongano di una propria sede a Roma e comunque abbiano un proprio interesse a parlare di fronte ad una commissione parlamentare, non è prevista nessuna forma di rimborso delle spese per chi partecipa all’audizione, per cui, ad esempio, chiamare un professore da Milano o da Palermo, in qualità di esperto “disinteressato”, rischia di diventare complicato.
Analogamente, non essendoci un elenco dei rappresentanti delle diverse categorie, si riscontra una elevata casualità nel chiamare certi soggetti, che vengono individuati dall’Ufficio di presidenza della commissione, integrato dai rappresentanti dei gruppi: ci sono alcuni settori dove si instaura una prassi, attraverso una sorta di archivio molto approssimativo, per cui si chiamano certi soggetti, mentre quando si affronta un settore del tutto nuovo e magari un po’ trasversale, che va a cavallo con le competenze di più commissioni parlamentari – commissioni parlamentari che, detto per inciso, rimangono quelle pre-riforma dei ministeri e pre-riforma del titolo V della Costituzione – il rischio di saltare qualche associazione, anche rilevante, è in agguato.
Gli esempi che fin qui sono stati portati nel corso della tavola rotonda fanno riferimento pressoché esclusivamente al parlamento, come sede delle attività di lobbying. Direi però che ormai – come molti in questa sala potrebbero confermare – una società di lobbying che curasse solo il parlamento sarebbe fallimentare. Il processo di trasformazione delle fonti di produzione normativa e della stessa procedura parlamentare – che presenta alcuni aspetti fisiologici, accanto ad altri più patologici: tra questi secondi collocherei, ad esempio, il fenomeno dei cosiddetti maxiemendamenti – spostano in modo radicale il baricentro dell’attività di lobbying sul governo. I governi che hanno operato nella scorsa legislatura hanno invero realizzato, in proposito, una serie di iniziative dirette ad instaurare un dialogo permanente con le associazioni di categoria: penso all’Osservatorio sulla semplificazione, al cosiddetto “patto di Natale” del 1998, ma anche alla stessa AIR-analisi d’impatto della regolamentazione, nel cui ambito sono previste delle procedure di consultazione (che hanno peraltro una finalità diversa rispetto a quelle che si svolgono per “sentire gli interessati”). Si trattava dunque di tentativi di codificare o di rendere oggettive e trasparenti queste procedure, che invece restano, e sono, a tutt’oggi, rimesse alla volontà dei politici e dei dirigenti ministeriali, e comunque pressoché completamente occulte, quando si svolgono in seno al governo. Se in parlamento c’è perlomeno l’onere di sottoscrivere un emendamento, magari a nome di alcune categorie, ciò non avviene se la norma compare in un decreto-legge o in un decreto legislativo; neppure quando ci si trova davanti ad una disposizione collocata in un maxiemendamento, magari presentato all’ultimo momento nel corso della sessione di bilancio (penso, ad esempio, ad un paio di disposizioni in materia di tartufi o di riparto di giurisdizione relativamente alle quote latte presenti nell’ultima legge finanziaria).
4. In conclusione, terrei ad evidenziare che occuparsi solo di lobby, dal punto di vista del giurista ma fors’anche dello studioso delle istituzioni, diventa assai difficile, ove non si abbiano presenti una serie di altre tematiche, che in qualche modo circondano la questione del lobbying.
Penso, facendo una sorta di elenco della spesa, un elenco cioè dei temi che occorrerebbe sempre considerare insieme a quello del lobbying – e mi scuso ovviamente di ciò, ma il tempo è ormai terminato – anzitutto alla regolamentazione giuridica dei partiti. In proposito, la battuta del dott. Claudio Velardi era perfetta, perché con ogni probabilità è vero che il lobbying in Italia ha faticato più che da altre parti, perché da noi c’erano i partiti “pigliatutto”: i partiti, cioè, facevano da collettore delle domande dei gruppi sociali, ed ovviamente, non potendosi regolamentare i partiti, a maggior ragione non si potevano regolamentare le lobbies.
Ma penso anche ai costi della politica e al conflitto di interessi: a quest’ultimo riguardo, è evidente che un conto è il rappresentante degli interessi che sta in parlamento, un conto ben diverso è quello che diventa ministro o sottosegretario, il quale ha modo di agire in modo assai più diretto e meno trasparente per favorire quel certo interesse.
Non trascurerei, infine, un altro tema, quello delle norme che prevedono ineleggibilità e incompatibilità, e quello delle forme di verifica di ineleggibilità e incompatibilità: si tratta di un tema assolutamente rilevante e, in questo momento, negletto dall’opinione pubblica, benché l’attuale contenuto dell’art. 66 della Costituzione non possa non apparire un controsenso in un Parlamento eletto con il sistema maggioritario, dal momento che affidarsi ad una delibera parlamentare a maggioranza, riguardo al giudizio di ineleggibilità e incompatibilità, è qualcosa che evidentemente fa a pugni con i principi dello Stato di diritto ed osta all’introduzione di qualsivoglia regola giuridica diretta ad evitare almeno i casi più clamorosi di identificazione personale tra parlamentari e portatori di un certo interesse.