Il conflitto tra interessi pubblici e privati – Resoconto Convegno

03.05.2002

Il conflitto tra interessi pubblici e privati

Facoltà di Giurisprudenza e Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia.

Perugia, 19 Marzo 2002

di Gabriele Zampagni


PROFESSOR MAURO VOLPI

Introduzione
Il Professor Volpi esordisce fornendo ai presenti una nozione di conflitto di interessi, che valga quantomeno sul piano pubblicistico: si è in presenza di un tal tipo di conflitto quando vi sia un contrasto, non necessariamente reale, ma anche soltanto potenziale, tra interesse generale ed interessi privati di titolari di cariche politiche. Il problema si pone perché, siccome l’interesse generale deve incondizionatamente prevalere sulle aspettative economico-patrimoniali delle imprese e dei cittadini, va evitata ogni possibile confliggenza di interessi che siano riconducibili, in modo diretto o indiretto, alla medesima persona fisica. La questione non è certo nuova, ma al contrario, dibattuta già sin dai tempi della democrazia ateniese: il grande pensatore antico Platone, infatti, riferisce sulla necessità di una separazione intercorrente tra potere politico e potere economico.
Risulta evidente, secondo l’analisi del Professor Volpi, che il nostro Paese viva, in questi anni, una situazione di conflitto di interessi, sicuramente potenziale ma probabilmente anche reale e che la questione necessiti di una risoluzione che sarà, comunque, tardiva.
La problematica relativa al nostro Paese, inoltre, risulta aggravata, per il fatto che a configgere con gli interessi pubblici non sono interessi meramente economici, ma soprattutto ruotanti attorno ad un settore già di per sé molto delicato, quello della comunicazione e dell’informazione. Nei casi ‘ordinari’ di conflitto, infatti, la preoccupazione cui si deve far fronte è che il Governo possa favorire, in qualche modo, più o meno diretto, determinate imprese: nel caso italiano, invece, può verificarsi anche il fenomeno inverso e cioè, che le imprese di comunicazione di proprietà del Presidente del Consiglio dei Ministri e che occupano una posizione a dir poco centrale nel mercato dei media, possano essere strumentalizzate al fine di apportare sostegno all’azione governativa, così da impedire o, quantomeno, fortemente limitare, un corretto esercizio del diritto di voto e della sua, connaturale, libertà. Sul piano economico, infatti, esiste a tutt’oggi in Italia un sostanziale duopolio televisivo: da una parte la RAI-TV, titolare della concessione pubblica televisiva e, dall’altra, il colosso Mediaset, di proprietà di Silvio Berlusconi. Tale duopolio, già di per sé epifania di un malfunzionamento del sistema, risulta aggravato per il rilievo che anche il maggior concorrente di Mediaset, la RAI, deve essere ricondotta, dal punto di vista gestionale, alla figura del Presidente del Consiglio. Come si sa, infatti, i vertici della RAI vengono nominati, d’intesa, dai due Presidenti delle Camere, che sono espressione, entrambi, della maggioranza politica. Deve essere precisato, tra l’altro, che una tale tipologia di nomine aveva un senso ed una ragion d’essere nel lungo periodo fino al 1994, quando, per una prassi trentennale, un Presidente di una Camera veniva scelto tra i membri dell’Opposizione. Tale meccanismo, infatti, consentiva una nomina dei vertici RAI gradita o, almeno, non sgradita alle più rilevanti componenti culturali e politiche del Paese, compreso, almeno, il più importante partito dell’Opposizione. Dal 1994, invece, la antica prassi è stata abbandonata e, sull’onda del ‘nuovo corso’ maggioritario, si è ritenuto opportuno che entrambi i Presidenti delle Camere fossero espressione della Maggioranza di Governo. Tale rilievo non può essere passato sotto silenzio, perché incide fortemente sui criteri di nomina dei vertici RAI. La gravità e l’anomalia del ‘caso’ italiano, tra l’altro, non costituiscono semplici ‘impuntature’ di qualche estremista politico del nostro Paese, ma vengono continuamente evidenziate anche nel panorama giuridico internazionale, anche da parte di analisti qualificati e ‘super partes’: l’ultimo, solo in ordine di tempo, è stato il Commissario per la libertà dei Media dell’ OCSE, che ha chiesto la formulazione di norme molto più rigide in questa materia, delicata e sensibile per definizione. In particolare il Commissario, per evidenziare due casi particolarmente gravi di conflitto di interesse e di concentrazione anomala di potere nel mondo, ha citato la situazione del Kazakistan, insieme a quella italiana. L’aspetto ‘paradossale’ ed anche un po’ comico della questione, è che i Kazaki, chiamati in causa, pare si siano difesi sostenendo la carenza di legittimazione alla critica da parte dell’Europa che, proprio nel suo ‘cuore’, presenta e sembra tollerare un caso analogo, cioè quello italiano.
La situazione del nostro Paese, tra l’altro, evidenzia la particolarità non di uno solo, ma di una pluralità di conflitti, tutti riconducibili alla persona del Presidente del Consiglio dei Ministri ma, in alcuni casi, anche ai titolari di alcuni dicasteri: si pensi, a solo titolo esemplificativo, al conflitto sulla giustizia che vede in veste di imputati per gravi delitti molti uomini del Governo, ed al fenomeno dei cosiddetti ‘Avvocati-legislatori’. Si tratta di parlamentari che, mediante la loro attività legislativa, possono condizionare, anche fortemente, processi in corso, in cui rivestono la qualifica di difensori di imputati per delitti gravi ed anche gravissimi.

Il quadro comparato
Sul piano comparato si rileva che le forme di regolamentazione del fenomeno assumono una pluralità di dimensioni: in alcuni Paesi, ad esempio, come nel caso del Regno Unito e di alcuni Stati del Nord Europa, la questione non trova una esplicita regolamentazione giuridica. Il dato, tuttavia, va spiegato con il diffuso ‘senso’ di etica pubblica presente in tali Paesi: sarebbe del tutto inimmaginabile, infatti, che in questi Stati accadesse ciò che è accaduto da noi e, proprio perché la morale comune supera in tempestività la regolamentazione giuridica, non si è sentito il bisogno di una legge ad hoc. Gli U.S.A., invece, si collocano all’estremo opposto, perché forniscono una regolamentazione particolarmente dettagliata del fenomeno. In questo Paese è apparsa necessaria una legge ‘severa’ sul conflitto di interessi perché in quel contesto la selezione della classe politica non passa attraverso l’opera mediatrice dei partiti, ma vede come suo elemento propulsore il denaro, quindi la potenza economica. La legge americana risale al 1978 ed è significativamente denominata ‘sull’etica degli affari di Governo’. La legge, che istituisce anche un ufficio, l’ office of Government act, si articola su tre direttrici fondamentali:

  1. Una assoluta pubblicità e trasparenza delle operazioni patrimoniali degli uomini di Governo;
  2. Un obbligo, incondizionato, di astensione sulle decisioni che riguardino eventuali interessi in conflitto;
  3. Un controllo esercitato da una autorità, l’ Office, che, per la sua composizione strutturale, garantisce assoluta imparzialità.

L’ufficio, sul piano pratico, può adottare due rimedi, differenti per gravità: il Blind Trust e la Daevestiture.
Il primo, letteralmente, ‘fondo cieco’, consiste nell’affidamento, forzoso, da parte del titolare, della gestione dei titoli finanziari ad un fiduciario, il Trustee, che non deve intrattenere alcun tipo di rapporto con il proprietario. In questo modo, dunque, il titolare del patrimonio non conosce affatto il destino dei suoi averi, salva la possibilità di riottenerne la disponibilità alla scadenza del mandato pubblico. Come verrà spiegato successivamente, questo tipo di soluzione si rivela efficace solo in alcune delle ipotesi e non può funzionare, invece, in altre. La Daevestiture, è invece un rimedio più grave e consiste nell’obbligo di dismissione dei beni detenuti dal soggetto che si trovi in potenziale conflitto di interessi.
In Europa, a parte il già citato caso inglese, molti Paesi si affidano ad una regolamentazione espressa dei casi di conflitto di interessi, che raggiunge differenziati gradi di ampiezza e precettività: in Francia, ad esempio, tale regolamentazione trova la sua ‘sede’ normativa naturale nella disposizioni costituzionali, mentre in altri Stati europei la regolamentazione è affidata alla legislazione ordinaria.

Il ‘caso’ italiano
In Italia, come già rilevato, manca una effettiva regolamentazione giuridica del fenomeno, quantomeno, a livello del Governo centrale: una tale assenza, tuttavia, non può essere in alcun modo equiparata al ‘modello’ inglese, anzi ne rappresenta una ipotesi opposta. Nel Regno Unito, infatti, il forte senso civico diffuso rende superflua una legge, mentre da noi si è verificato il fenomeno, opposto, del riempimento, pericoloso, di un ‘vuoto’ normativo. Fino al 1993, infatti, la presenza di un saldo sistema dei partiti che fungeva anche da incontrastato selettore politico, rappresentava un valido contraltare a questo vuoto ma, con lo sgretolarsi di tale sistema, il problema è emerso immediatamente, nella sua interezza. Bisogna sottolineare, tra l’altro, che una assoluta carenza normativa si registra solo in ordine ai conflitti di interessi di chi eserciti l’attività di Governo e non anche di chi sia eletto Parlamentare. L’articolo 65 della Costituzione, infatti, prevede che la legge determini i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di Deputato o di Senatore (e non anche di membro del Governo). Tale, apparente lacuna, tuttavia, può essere ben spiegata con il rilievo che, nel 1948, si dava per scontato che i membri del Governo dovessero esserlo anche, necessariamente, del Parlamento.
A questo proposito, il D.P.R. 361 del 1957, all’articolo 10, dispone che non sono eleggibili, tra gli altri, coloro che siano vincolati con lo Stato per Concessioni o Autorizzazioni amministrative di rilevante valore. Va rilevato, incidentalmente, che già nel 1994, all’indomani dell’elezione alla Camera dell’Onorevole Silvio Berlusconi, questa norma venne invocata da più parti per sostenerne la ineleggibilità. L’interpretazione maggioritaria, tuttavia, restrinse il campo d’azione di questa norma ai soli amministratori delle società e non anche ai meri proprietari. Ne consegue, in modo paradossale, che, a proposito di Mediaset, il Dottor Fedele Confalonieri, amministratore del gruppo, non sia eleggibile al Parlamento, ma che stessa sorte non tocchi all’Onorevole Berlusconi, che è, invece, proprietario dell’ impresa.
Quanto alle ipotesi di regolamentazione futura del fenomeno e, specificamente alla individuazione della fonte normativa da impiegare, il Professor Volpi ritiene che una previsione costituzionale specifica, ancorché opportuna, non sarebbe comunque necessaria. Sarebbe sufficiente, infatti, anche la formulazione della disciplina sul conflitto di interessi mediante una legge ordinaria che si porrebbe come attuativa di una serie di principi già previsti ed enunciati in Costituzione. Un elemento di guida, ad esempio, potrebbe essere riscontrato nel disposto dall’articolo 51, primo comma della Costituzione che, evocando l’accesso alle cariche pubbliche ed elettive in condizioni di parità per tutti i cittadini, rimanda, però alla legge, la regolamentazione specifica ed i limiti della materia. L’articolo 51, infatti, richiede che di fronte alla possibilità di accesso alle cariche pubbliche sia garantita una parità di chances, secondo i criteri di legge. In questa ottica, dunque, una regolamentazione del conflitto di interessi rispetto al diritto di elettorato passivo, non sarebbe affatto incostituzionale, ma si porrebbe, al contrario, come attuazione del disposto dall’articolo 51. Ancora, come supporto costituzionale di una disciplina sul conflitto potrebbero essere evocati gli articoli 97 primo comma e 98. Il primo enuncia i principi di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione, mentre il secondo, richiedendo che i pubblici impiegati siano al servizio esclusivo della nazione, sembra escludere che questi possano tutelare, contestualmente a quelli pubblici, altri tipi di interessi, magari privati e particolarmente rilevanti. La particolare condizione italiana in cui il Capo del Governo è anche il proprietario del più grande gruppo privato di informazione, permette di richiamare anche un’altra norma costituzionale e, precisamente, l’articolo 48, secondo comma. Questo esige che il voto politico sia libero ed eguale: si tratta di caratteristiche coessenziali al voto che, in effetti, potrebbero essere messe in discussione in un sistema in cui l’informazione e tutto il processo di conoscenza di massa non fossero ispirate al pluralismo, ma dovessero essere ricondotte ad un unico canale.
Come si sa, è stato recentemente messo in discussione alla Camera un nuovo progetto di legge che aspirerebbe a regolamentare il fenomeno del conflitto di interessi. Tale progetto, tuttavia, si caratterizza per una eccessiva indulgenza e produce l’unico effetto di ‘fotografare’ e legittimare una realtà già presente nel nostro Paese. Il progetto, infatti, non considera incompatibile con l’assunzione di cariche pubbliche la mera proprietà di grandi gruppi, ma solo la loro amministrazione. Inoltre, quanto ai casi di incompatibilità rispetto a determinati e specifici atti, l’articolo 3 del progetto la prevede e la regola, con l’esclusione, tuttavia, degli atti che riguardino la generalità o una determinata categoria di interessi. Questa deroga al regime delle incompatibilità appare, in realtà, troppo larga e capace di svuotare il contenuto dell’intera disciplina. Per eludere il divieto di un atto potenzialmente favorevole a chi lo compie, infatti, basterebbe che il suo autore ne provasse la natura di atto generale o, peggio, la sua afferenza ad una determinata categoria di interessi, ad esempio, legati al macrosettore ‘sanità’ o ‘assicurazioni’.
Per quanto riguarda l’impiego del blind trust sul modello americano, nel nostro Paese, bisogna rilevare che esso non costituirebbe affatto un rimedio ma che, anzi, attribuirebbe la natura di legittimo ad un conflitto ben lungi dall’essere risolto. Il blind trust, infatti, produce gli effetti desiderati solo nel caso in cui si tratti di titoli ed attività finanziarie, laddove è effettivamente possibile tenere all’oscuro del proprietario, impegnato in azioni pubbliche, il destino del suo patrimonio, fino alla scadenza del mandato. Nel ‘caso’ italiano, invece, l’’ontologica’ rilevanza e pubblicità degli interessi che fanno capo al Presidente del Consiglio, renderebbe del tutto impraticabile e, comunque, non risolutivo, il ricorso a tale strumento. Anche a proposito dell’ipotizzata competenza di una autorità di garanzia indipendente che dovrebbe controllare e passare al vaglio ogni atto governativo per saggiarne la rispondenza al pubblico interesse e la assenza di conflitto, bisogna dire che tale ipotesi risulterebbe di dubbia costituzionalità: si creerebbe, infatti, una inedita interposizione di una autorità indipendente, che influirebbe negativamente nel rapporto che lega il Parlamento ed il Governo. Costituisce, infatti, principio cardine del nostro assetto costituzionale quello in base al quale è il Parlamento, ed esso solo, l’organo chiamato a controllare l’operato del Governo in carica ed a trarne le conseguenze.
La debolezza dell’intera costruzione, inoltre, emerge anche per il rilievo per cui non viene previsto alcun tipo di sanzione per l’inosservanza dei precetti, eventualmente registrata dall’autorità indipendente. Si potrebbe ipotizzare, soltanto, una qualche (ed improbabile) forma di sanzione politica da parte del Parlamento, informato dell’infrazione da parte della stessa autorità.
Conclusivamente, dunque, secondo l’analisi del Professor Volpi, l’unica strada percorribile per risolvere seriamente il problema del conflitto di interessi, è quella che pone al suo centro la scelta, per chi si trovi in tale confliggenza, tra gestione del proprio patrimonio e tutela dell’interesse pubblico. Rispetto a tale principio della scelta, bisogna rilevare che secondo alcuni entrerebbe in contrasto con la Costituzione e, precisamente con l’articolo 51, laddove prevede che tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
Questo orientamento, tuttavia, appare infondato, soprattutto per il rilievo che, come si dice, prova troppo: se dovessimo, infatti, applicare alla lettera tale impostazione, secondo cui ogni limitazione all’accesso di cariche pubbliche sarebbe illegittima, dovremmo considerare contra Constitutionem ogni disposizione che impedisca l’accesso a chi abbia, ad esempio, riportato gravi condanne penali. Di fronte alla debolezza di questo argomento, allora, si finisce per evocare gli articoli 41 e 42 della Costituzione, che riguardano, rispettivamente, l’iniziativa e la proprietà private. Anche tale riferimento, tuttavia, appare estremamente debole perché è la stessa Carta fondamentale che, testualmente, non considera l’iniziativa e la proprietà come assolute, ma vi pone dei limiti insuperabili: l’iniziativa economica, ad esempio, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, mentre sono previste forme, seppur circoscritte, di espropriazioni della proprietà privata dettate da ragioni di pubblica utilità.
Il riferimento alla necessità di una scelta tra interessi pubblici e privati, per chi si trovi in una condizione di potenziale conflitto, dunque, non solo non si pone in contrasto con la Carta, ma appare la soluzione più efficace: non si tratterebbe di imporre niente a nessuno, ma si richiederebbe solo una opzione trasparente. Non sussisterebbe alcuna forma di coazione ma, impiegando le categorie del diritto civile, si potrebbe affermare che l’interessato sarebbe posto di fronte ad un onere, integralmente rimesso, nella soluzione, alla sua libera scelta.
Alcuni commentatori, negli ultimi tempi, hanno manifestato il curioso orientamento secondo cui gli elettori l’11 maggio 2001, esprimendosi nell’urna e conferendo un chiaro mandato a Silvio Berlusconi, avrebbero, nei fatti, già risolto la questione del conflitto di interessi, considerandola insussistente o comunque irrilevante nel caso italiano. Tale argomentazione, invero, appare priva di ogni rilevanza logica e, se possibile, deve essere capovolta: è proprio l’esito del voto politico del 2001, sicuramente influenzato dalla presenza del conflitto di interessi, che evidenzia limpidamente la sussistenza reale di un problema che richiede una seria e tempestiva soluzione.

PROFESSOR FRANCESCO MERLONI

Secondo l’analisi del Professor Merloni l’approccio terminologico al problema risulta, di per sé sbagliato: in diritto pubblico, infatti, non si dovrebbe, come si fa, parlare di conflitto di interessi, che è una nozione privatistica, ma di ineleggibilità ed incompatibilità. Ancora, deve essere preliminarmente chiarito che, nell’affrontare la problematica, si deve avere riguardo alla sua oggettività, essendo del tutto irrilevante l’analisi dei comportamenti soggettivi ed individuali. Ciò che conta, dunque, è la sussistenza, oggettiva, di incompatibilità e di conflitto di interessi.
Deve essere chiarito, ancora, secondo il professor Merloni, che la risoluzione di un conflitto di interessi, se è stata impossibile in via preventiva, cioè in modo da prevenire l’insorgenza della confliggenza, può, del tutto legittimamente, essere individuata anche in via successiva. Non è vero, inoltre, che la ricchezza, in sé e per sé considerata, sia un elemento di conflitto ‘presunto’ e che renda illegittimo un impiego di rilevanza pubblica. Ciò che rileva, invece, è comprendere, caso per caso, come tale ricchezza venga impiegata ed in quali settori, ricordando che, in ogni caso, chi ha potere può influenzare il comportamento degli elettori.
Per analizzare il fenomeno che riguarda l’ambito centrale, può rivelarsi utile analizzare come viene regolamentato il conflitto a livello locale: per quanto riguarda l’insorgenza di un conflitto di interessi successivo all’elezione, sorge in ogni caso un obbligo di astensione e di non partecipazione al voto, in capo al soggetto portatore della situazione soggettiva confliggente. Anche in questo caso, come già anticipato, rileva esclusivamente la sussistenza oggettiva del conflitto, indipendentemente dalle intenzioni del soggetto. La questione, inoltre, può avere un rilievo anche sul piano penale, poiché nei comportamenti in esame potrebbero configurarsi anche gli estremi di un reato: ad esempio potrebbe verificarsi anche il delitto di abuso di ufficio, previsto e punito dall’articolo 323 del Codice Penale, nella sua nuova formulazione, risultante dalla riforma del 1997. Va evidenziato, tuttavia, che nella dimensione penalistica non basta la sussistenza oggettiva del conflitto, ma occorre anche una accurata analisi degli stati psicologici e soggettivi: in particolare, per aversi la manifestazione del reato i esame, occorre il dolo del soggetto agente e l’obiettivo di favorire sé od altri.
L’intera materia delle ineleggibilità e incompatibilità è una di quelle che trova la sua più completa regolamentazione nella sommatoria di precetti sia positivi, che di origine etica. Nella nostra esperienza di europei continentali, tuttavia, è quasi sempre risultato opportuno non affidarsi alle sole norme etiche, ma rafforzarle che espresse regolamentazioni legislative.
Relativamente alla situazione italiana, appare opportuno passare in rassegna le più rilevanti soluzioni del problema che sono state proposte, compresa quella derivante dall’ultimo disegno di legge di origine governativa. Per ogni progetto verrà evidenziato il punto di forza e quello di debolezza, in modo da poter enucleare una disciplina che, de iure condendo, potrebbe regolamentare efficacemente il fenomeno:
Progetto di legge Soda
Secondo lo spirito di questo progetto, il già vigente sistema delle ineleggibilità e incompatibilità viene esteso anche al Governo (non più solo al Parlamento). Muta anche il giudice dei conflitti che non è più la Camera di appartenenza del membro, ma la Corte Costituzionale. Si è, infatti, ritenuto opportuno cercare un ‘giudice’ realmente terzo nella risoluzione del conflitto, il quale non può essere costituito dal Parlamento, soprattutto dopo la riforma elettorale che ha condotto ad un sistema prevalentemente maggioritario e che, come si sa, tende a produrre effetti distorsivi sul sistema di rappresentanza politica. La ‘scelta’ del giudice, allora, è caduta sull’organo costituzionale di garanzia per antonomasia, cioè la Corte. Tale progetto risulta carente in ordine alla disciplina intertemporale, poiché prevede una regolamentazione solo per il futuro, mancando una disciplina transitoria per i casi ad oggi pendenti.
Progetto di legge Piscitello
Secondo questa proposta, si attuerebbe una inversione di prospettiva, perché l’incompatibilità andrebbe a cadere sulla carica privata rispetto a quella pubblica, e non viceversa. Muta, inoltre, rispetto alla proposta di Soda, il Giudice chiamato a pronunciarsi nei casi di conflitto, che sarebbe costituito dalla autorità Antitrust. Questo progetto è accomunato al precedente per la carenza di una disciplina transitoria, riguardando i soli casi futuri.
Progetto di legge Bertinotti
Questo progetto, decisamente più ‘stringente’, vuole riscrivere tutto il sistema delle ineleggibilità/incompatibilità per tutti i livelli di governo. In particolare, ai già noti casi di conflitto di interesse ne aggiunge un altro e cioè il superamento di un certo livello di reddito e la partecipazione ad imprese rilevanti per l’economia nazionale. Si può notare, a questo proposito, che un tale progetto si basa sull’assunto che la semplice ricchezza, indipendentemente dalla sua natura e provenienza, può costituire un oggettivo fattore di confliggenza di interessi privati con quelli pubblici. Anche sul piano della disciplina intertemporale, questa proposta si caratterizza per un certo rigore, perché assegna solo sei mesi di tempo agli interessati per la loro regolarizzazione. Giudice, anche in questo caso, sarebbe l’Autorità Antitrust.
Progetto di legge Frattini
Si tratta della proposta in questi giorni in discussione e su cui è iniziato un accesissimo dibattito. Il punto cardine del progetto, sul quale vengono sollevate le più vigorose proteste, è che la mera proprietà privata non viene considerata in alcun caso configgente con gli interessi pubblici. Inoltre, la proposta introduce una nozione di conflitto per la quale esso è presente solo allorché si verifichi un danno per l’interesse pubblico e, in ogni caso, viene escluso laddove l’atto in questione riguardi la generalità o intere categorie economiche. Tra i tanti rilievi critici formulabili a proposito di questa proposta, c’è quello relativo alla forte problematicità e indeterminatezza del concetto di danno all’interesse pubblico, mancando qualsiasi serio parametro cui ancorare tale accertamento. Nel progetto, inoltre, non si fa alcun cenno ad un funzionale sistema sanzionatorio e, conseguentemente, ogni determinazione viene lasciata alla sfera della responsabilità politica. Questo disegno di legge, purtroppo, finisce per creare un vulnus al sistema precedente delle incompatibilità ed esprime limpidamente la difficoltà di gestire una vicenda particolarmente delicata nel nostro Paese, che sembra orami scappata di mano, per responsabilità di molti. Sarebbe stato necessario, già da molto tempo, aver provveduto a formulare una buona legislazione antitrust, capace di porre un limite alle concentrazioni economiche e in grado di riportare la problematica del conflitto di interessi nella sua, naturale, dimensione oggettiva, prescindendo dai ‘casi’ singoli e dalle manifestazioni di volontà dei singoli protagonisti.

Gabriele Zampagni