Le deleghe legislative: riflessioni sulla recente esperienza normativa e giurisprudenziale – Resoconto Convegno

10.07.2002

Le deleghe legislative: riflessioni sulla recente esperienza normativa e giurisprudenziale

Pisa, 11 giugno 2002

a cura di Paolo Zuddas

I lavori sono stati introdotti dal prof. A. Ruggeri, che ha ricordato tra l’altro che, in assenza di principi e criteri direttivi, le deleghe vanno intese in senso minimale, valendo per il decreto legislativo il principio di legalità in senso sostanziale. Le interferenze tra decreti legge e decreti legislativi vanno inoltre presunte come illegittime, in ragione della probabile insussistenza dei presupposti di necessità e urgenza che abilitano al ricorso allo strumento del decreto legge; in tali circostanze dovrebbe peraltro invertirsi l’onere della prova della necessità e urgenza, la cui dimostrazione spetterebbe al governo. Il decreto legge, inoltre, non può modificare i principi e criteri direttivi della legge delega: se li vuole modificare, il governo deve presentare un nuovo disegno di legge delega. Muovendo dalla considerazione che la regola non richiede motivazione, mentre la richiede l’eccezione, il prof. Ruggeri ha affermato che – stante la presunzione di conformità del parere parlamentare alla legge di delega – in caso contrario l’onere della prova graverebbe sul governo che si discosti dal parere: un tale sistema peraltro responsabilizzerebbe maggiormente sia il governo che il parlamento. Lo stesso rapporto tra motivazione delle regole e dell’eccezione dovrebbe valere anche per le leggi di delega, che rappresentano in qualche misura una eccezione alla attribuzione della potestà legislativa al parlamento. La delega deve giustificare se stessa: la necessità del ricorso a tale strumento, infatti, solo talvolta è scontato, per tabulas (ad es., per i codici). In conclusione, il prof. Ruggeri ha affermato che la logica dei procedimenti integrati deve sottostare al principio di ragionevolezza. In questo senso, la legge che si allontani da metanorme contenute in leggi presenti non è incompetente, ma irragionevole: così il canone di ragionevolezza utilizzato dalla Corte costituzionale supplirebbe all’assenza di norme sulla normazione.

Il dott. G. Tarli Barbieri – intervenendo su La grande espansione della delegazione legislativa – ha ricordato in primo luogo che la prassi contraddice la dottrina costituzionalistica sul carattere eccezionale e derogatorio della delega legislativa. La delega, infatti, è ed è sentita come fonte ordinaria e ‘normale’ per procedere a riforme settoriali e intersettoriali; ne risulta quindi ridimensionata la centralità della legge. Ma il fenomeno che appare più evidente è che il sistema politico sembra essersi appropriato del sistema delle fonti. Basti qualche esempio: il governo ha emanato ordinanze contingibili e urgenti in previsione dei problemi futuri di ordine pubblico connessi alla prossima presidenza italiana dell’UE; la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione non è ancora avvertita come vincolante in sede parlamentare, tanto che alcune leggi delega non tengono conto del nuovo riparto di competenze.

La proliferazione di deleghe ha inizio a partire dall’undicesima legislatura, conseguentemente all’evoluzione della forma di governo: prima del 1992 e della legge n. 400 del 1988 la delega era infatti poco usata. Si registra inoltre non solo un incremento quantitativo sia delle leggi delega che dei decreti legislativi, ma anche un crescente rilievo delle materie oggetto di delegazione legislativa (v. la delega sulla riforma della finanza pubblica), insieme ad un legame tra delega e concertazione. Nella XIII legislatura – come conseguenza sia del consolidarsi dei mutamenti intervenuti nella forma di governo, sia della sent. 360/96 che ha determinato una contrazione della decretazione d’urgenza – il Governo ha presentato un ddl contenente ben 59 deleghe, suscitando la dura reazione dell’opposizione, che ha paventato il rischio di una ‘abdicazione’ del parlamento. In ordine al numero e all’importanza dei decreti legislativi poi emanati, basti ricordare: i 39 decreti in materia fiscale; i 66 decreti emanati in base alla l. 59/97, 52 decreti di attuazione di direttive comunitarie. Si consideri inoltre che la grande ampiezza del disegno riformatore elaborato dal governo ha portato ad una sovrapposizione di deleghe legislative. Sempre in ordine alle disfunzioni registratesi nella prassi applicativa della delegazione, in tema di principi e criteri direttivi, il dott. Tarli Barbieri ha ricordato il caso del decreto su Sviluppo Italia come un caso significativo in cui si fa un d.lgs e poi si discute su quale legge delega sia più adatta. Nella XIII legislatura, tra l’altro, il parere parlamentare diventa così incisivo da configurare quasi una co-legislazione, dando luogo a fenomeni di vera e propria ‘integrazione’ della delega (sul punto giova ricordare che l’u.c. dell’art. 72 Cost. dispone per la delegazione legislativa la riserva di assemblea). Tra le altre tendenze emerse nel corso della XIII legislatura, il dott. Tarli Barbieri ha ricordato: la trasformazione da delega a delegificazione e viceversa; il fenomeno delle delegificazioni che condizionano deleghe; il ricorso a deleghe atipiche (v. l. sulla parità scolastica). Nella XIV legislatura si sono invece registrati: casi di confusione tra oggetto e criteri direttivi; genericità dei principi e criteri direttivi (da desumere dalla legislazione vigente); iniziative di legge di origine parlamentare anche dell’opposizione, di delega al governo; delega al governo, all’interno del ddl annuale di semplificazione, sulla riforma dei sistemi di produzione normativa; una delega sulla riforma dell’ordinamento giudiziario; il ddl La Loggia, che delega il governo a compiere una ricognizione sui principi e criteri direttivi della delega stessa. Il dott. Tarli Barbieri ha concluso il proprio intervento esprimendo l’auspicio – al fine di ristabilire un equilibrio tra i poteri – che si realizzi un rafforzamento del governo in parlamento, secondo l’esempio francese.

In ordine al ddl La Loggia, il prof. Ruggeri ha confermato la tesi della illegittimità, ribadendo che, se ci sono i principi e i criteri direttivi, non c’è ricognizione; se non ci sono, la delega viola l’art. 76 Cost.

Il dott. M. Malo – intervenendo sul tema Testi unici e proposte di codificazione – ha ricordato che la codificazione può costituire sia uno strumento di riordino ispirato al principio della certezza del diritto, volto alla riaffermazione dello Stato di diritto; sia uno strumento di semplificazione volto all’espansione dell’autonomia privata. La codificazione persegue peraltro due diverse finalità: 1) ridurre l’intervento normativo delle pubbliche autorità; 2) migliorarne la qualità, rendendolo più facilmente applicabile. In ordine alle differenze tra testi unici e codici, il dott. Malo ha ricordato che i testi unici in senso stretto sono fonti del diritto che non determinano innovazioni sostanziali, limitandosi ad operare un mero riordino delle norme e introducendo solo innovazioni formali, mentre i codici introducono innovazioni sostanziali. Si consideri inoltre che, mentre risulta opportuno o ammissibile che in sede di delega per la formulazione di un T.U. si autorizzi il governo ad operare una delegificazione, occorre comunque aver presente che in tal modo si supera la misura del riordino o del coordinamento formale: si attivano in particolare due procedimenti, che danno luogo a due atti diversi. In ordine al rapporto fra testi unici e deregolamentazione, il dott. Malo ha precisato che il testo unico riduce drasticamente il numero delle fonti e delle disposizioni inutili, compiendo un’opera di sfoltimento, senza tuttavia realizzare una deregolamentazione vera e propria. Quando invece il testo unico vuole proporsi come fonte di riordinamento di apparati e strutture della P.A., occorre considerare che anche in tal caso si va oltre il semplice riordino formale della materia. Il testo unico è inoltre una sede appropriata per applicare le regole di tecnica legislativa, con particolare riguardo all’uso della formula di abrogazione espressa. Il dott. Malo ha fatto quindi riferimento ad alcuni casi di formulazione impropria dei testi unici, quale ad esempio l’art. 137 T.U. edilizia che, indicando le leggi che restano in vigore a latere del T.U., cita anche fonti riprodotte all’interno dello stesso T.U. Con riferimento allo strumento della delegazione legislativa per la formulazione di testi unici, il dott. Malo ha ricordato che la delega nell’art. 76 Cost. è pensata per l’esercizio di un potere legislativo pieno, attraverso scelte di indirizzo tecnico legislativo, non in funzione di un riordino normativo, per il quale si sconta l’assenza nel nostro ordinamento di un procedimento appropriato. C’è da chiedersi peraltro fino a che punto può spingersi il governo nell’elaborazione di testi unici, potendosi ammettere un adeguamento alle decisioni della Corte costituzionale, mentre permangono dubbi circa le decisioni di altri organi giurisdizionali: in tali casi, infatti, graverebbe sul governo l’obbligo di motivare un adeguamento alle pronunce giudiziali. Con riguardo al quadro normativo di riferimento per l’attività di semplificazione e riordino, il dott. Malo ha ricordato che l’art. 7 della l. 50/99 dispone insieme riordino normativo, semplificazione procedimentale, riordino degli apparati, delegificazione, visibilità delle norme. Utili indicazioni per un corretto procedimento di riordino normativo dovrebbero – in conclusione – ispirarsi ad un maggiore rispetto del dettato costituzionale e della centralità del Parlamento. In particolare, per i T.U. di leggi statali, ci vorrebbe un procedimento governato dalle Camere stesse, che coinvolga auspicabilmente il Comitato per la legislazione con approvazione in sede deliberante. Il procedimento per la formulazione di testi unici di leggi regionali risulterebbe invece più semplice, stante la presenza di una sola Camera, e anche in questo caso si dovrebbe privilegiare il ricorso alla Commissione deliberante. Dal canto suo, infine, il governo dovrebbe operare un riordino a livello regolamentare. Alla base di questi processi si avverte comunque l’esigenza di creare uffici tecnici specificamente preposti all’elaborazione di testi unici.

Replicando alle ultime considerazioni di Malo, il prof. Ruggeri ha espresso timori per l’effettivo rispetto del principio democratico in relazione all’approvazione di codici da parte di commissioni consiliari regionali in sede deliberante (composte in media da 6-7 persone), ma ha riconosciuto che il ricorso a tale procedura probabilmente sarà inevitabile, visto il nuovo gravosissimo impegno di legiferazione che attende le regioni.

Il dott. G. Demuro – intervenendo su L’uso della delegificazione – ha sottolineato che il tema in esame si presenta connesso sia alla forma di governo che alla forma di Stato. In ordine al secondo profilo si rileva come lo schema procedurale della delegificazione abbia avuto effetti sulle fonti normative delle autonomie locali. Il dott. Demuro ha inoltre ricordato che, sebbene la delegificazione in senso tecnico comporti che la fonte autorizzatoria sia un atto avente valore di legge, va progressivamente aumentando la produzione di norme di delegificazione di rango regolamentare. Nell’intento di tracciare un bilancio della delegificazione a quattordici anni dall’entrata in vigore dell’art. 17 c. 2 della l. 400/88, il dott. Demuro ha osservato che i problemi aperti nell’88 rimangono ancora aperti, compresa la qualità della legislazione delegificante, anche se si ha l’impressione che nella XIV legislatura si voglia abbandonare la delegificazione a favore della delega legislativa. Tra i problemi aperti in sede di prassi applicativa, ricorre spesso il caso di leggi che autorizzano la delegificazione in cui l’indicazione delle finalità è attribuita direttamente al regolamento. Talvolta si lascia invece al regolamento il compito di stabilire i principi generali della materia oggetto di delegificazione. In ordine ai profili demolitori della delegificazione, si pone il problema di chi decida quali leggi debbano essere abrogate; tale elenco dovrebbe essere previsto dalla legislazione che autorizza la delegificazione, ma di fatto l’elenco è contenuto normalmente nei regolamenti. Non solo: molto spesso si dispone un’abrogazione scaglionata nel tempo attraverso il successivo intervento di decreti ministeriali. Si sconta pertanto un equivoco fondamentale sul rapporto tra legge e regolamento, col risultato che è il governo che finisce per determinare le finalità dell’abrogazione e le norme da abrogare. La preminenza dell’esecutivo in questo procedimento riflette da un lato i mutamenti intervenuti nella forma di governo, dall’altro l’assoluta incertezza del ‘dominio della legge’. In ordine al rapporto tra delegificazione e delegazione legislativa, posto che il riassetto non coincide con la semplificazione, appare senz’altro preferibile, a fini di riordino, il ricorso al d.lgs.. La delegificazione, nei tempi più recenti, ha visto un crescente coinvolgimento del sistema delle autonomie, realizzandosi in tal modo l’intuizione del Martines, che considerava la delegificazione come uno strumento per aprire spazi al mondo delle autonomie, anche funzionali. Attraverso i procedimenti di delegificazione, quindi, la legge si ritrae e lascia spazio a nuove fonti. In ordine, infine, al nuovo art. 117, c. 6 Cost., si pongono tre interrogativi:

1) che rapporto esiste tra delegificazione statale e delegificazione regionale? Può lo Stato imporre alla regione di delegificare? Possono le regioni rifiutare la delegificazione disposta dallo Stato?

2) Fino a che punto è possibile concedere spazi alle autonomie attraverso i procedimenti delegificatori?

3) Posto che l’attivazione di flussi integrati di normazione rappresenterebbe il vero segnale di ‘pacificazione’ tra i diversi livelli di governo, non sarebbe auspicabile la formulazione di regole condivise sulla normazione?

Il prof. Ruggeri ha replicato sostenendo la necessità che le norme sulla normazione fossero più dettagliatamente disciplinate dalla Carta costituzionale. In ordine, infine, ad un possibile fondamento consuetudinario della delegificazione – nei termini di una consuetudine di rilevanza costituzionale in materie disciplinate dalla legge – ha aggiunto che un fondamento siffatto costituirebbe un avallo giuridico di una prassi ‘continuamente discontinua’….

Nel corso del dibattito che ha concluso la sessione pomeridiana, il dott. Tarli Barbieri ha sottolineato che nella XIV legislatura sono emersi altri elementi nuovi: 1) la ‘blindatura’ dei ddl di attuazione del programma del governo (che non hanno subito modifiche nella seconda Camera; 2) l’esclusione del ricorso a deleghe legislative nella sessione di bilancio (ma nella legge finanziaria si ricorre alla delegificazione); 3) la valorizzazione della delega rispetto alla delegificazione, ad eccezione dell’attuazione delle direttive UE nella legge comunitaria.

La seconda sessione – dedicata ai profili giurisprudenziali della delegazione legislativa – si è aperta con alcune osservazioni da parte del prof. P. Caretti, che ha individuato tre ragioni della crisi delle fonti: 1) l’evoluzione della forma di governo; 2) l’intreccio tra diritto interno e diritto comunitario; 3) l’evoluzione della forma di Stato. Questi elementi rappresentano quindi i tre fattori rispetto ai quali valutare le prassi normative, senza considerarle semplicemente come pratiche in contrasto con la Costituzione. Il prof. Caretti si è chiesto quindi se il modello di funzione legislativa che si va oggi delineando è contro la Costituzione, o c’è un modo per salvare quel poco che rimane della potestà legislativa del Parlamento. In questo ambito i problemi non si risolvono con un anacronistico ritorno al passato, anche perché si colgono negli sviluppi di questi ultimi trent’anni elementi oramai irreversibili. Per esempio, l’attuale riserva di legge non è più un argine: bisogna pensare a riserve di legge per materie e con legge organica. Inoltre, dopo la riforma del Titolo V, il criterio di competenza tende ad affermarsi a discapito del criterio di gerarchia, come accade ad esempio nel rapporto tra fonti locali e fonti regionali, anche se il sistema è stato costruito sul principio di gerarchia.

Il dott. G. Famiglietti – intervenendo su Delegazione legislativa e Corte costituzionale – si è soffermato sulla giurisprudenza più recente in materia. In particolare, appaiono degne di nota quattro pronunce: 1) la sent. 276/00, che ribadisce tra l’altro che le norme dei decreti legislativi vanno interpretate nel significato più coerente con i principi e criteri direttivi della delega; 2) la sent. 292/00, che costituisce un’eccezione apprezzabile all’avallo della fumosità dei principi e criteri direttivi che la Corte ha spesso compiuto; 3) la sent. 7/99 in cui si definisce la ratio delegationis; 4) la sent. 425/00, in cui la Corte dichiara illegittime le disposizioni di un ddl correttivo perché non riscontra una consonanza fra norma delegante e norma delegata. Il problema che si pone per i decreti integrativi e correttivi è spesso la violazione del principio di istantaneità della delega legislativa, connaturato alla delega come istituto tout-court. Integrazione e correzione invece si considerano spesso quasi accessorie alla delega principale. Il dott. Famiglietti ha richiamato quindi altre recenti sentenze tra cui: la sent. 206/01, che afferma che il decreto integrativo non può realizzare la delega originaria; la sent. 503/00 che riprende i criteri interpretativi elaborati in sentenze precedenti sostenendo che non sono possibili delegazioni desumibili per relationem ; la sent. 139/01 che afferma che la violazione dell’art. 76 Cost. può ben fondare un conflitto fra poteri dello Stato. Il dott. Famiglietti ha concluso il proprio intervento chiedendosi se sia compito della Corte costituzionale ricondurre nell’alveo dell’art. 76 Cost. la delega, o sia compito del Parlamento rivedere un parametro forse ormai inadeguato alle attuali esigenze della produzione normativa.

Il prof. Caretti ha rilevato la prudenza della Corte costituzionale nel sanzionare sia l’eccesso di potere delegante sia l’eccesso di potere delegato, chiedendosi se non sia opportuno razionalizzare la prassi.

Il dott. M. Cuniberti – intervenendo su Il sindacato giurisdizionale sui regolamenti di delegificazione – ha ripercorso la giurisprudenza costituzionale dal 2000 ad oggi in tema, soffermandosi su tre profili: 1) le novità; 2) le conferme di acquisizioni consolidate; 3) i problemi aperti. Nelle pronunce più recenti la Corte costituzionale ha negato la propria giurisdizione sui regolamenti, chiudendo spiragli aperti negli anni precedenti. Nelle sentenze 456/94 e 1104/88, infatti, la Corte costituzionale aveva sindacato la legge così come attuata dal regolamento. Il dott. Cuniberti si è quindi chiesto se la Corte potrebbe sindacare l’operato dei giudici che interpretano il regolamento dando alla legge un’attuazione incostituzionale. In ordine al controllo dei giudici ordinari e amministrativi sui regolamenti di delegificazione, ha ricordato che se la legge che autorizza la delegificazione è carente nell’individuazione dei principi e criteri direttivi, il principio di legalità viene rispettato se i principi si desumono dalla legislazione vigente, ma se la legge non individua norme legislative preesistenti da abrogare, deve indicare i principi utili alla individuazione di tali norme da parte del regolamento. La Corte costituzionale inoltre attribuisce ai giudici strumenti per valutare l’effettiva portata delegificante del regolamento, e la sua abilitazione a definire le norme legislative abrogate. Il dott. Cuniberti ha posto, a conclusione del suo intervento, tre problemi: 1) sono all’altezza i giudici ordinari e amministrativi di effettuare un sindacato in ordine alla correttezza dei procedimenti di delegificazione? 2) E’ possibile e opportuno un sindacato diretto della Corte costituzionale sui regolamenti di delegificazione? 3) Il nuovo Titolo V e il nuovo potere regolamentare dello Stato ha cambiato qualcosa in quest’ambito? In ordine al primo quesito, il dott. Cuniberti si è chiesto se la Corte costituzionale farebbe di più o di meglio, rilevando come i giudici ordinari e amministrativi si stiano in realtà avvicinando a queste funzioni: ad esempio, il TAR Lazio ha dimostrato una certa padronanza del sistema delle fonti, emanando anche sentenze additive. La Corte può però sindacare la legge abilitante come interpretata dal giudice ordinario o amministrativo. In ordine al secondo quesito, potrebbe ipotizzarsi un intervento della Corte solo sui regolamenti che si qualificano come regolamenti di delegificazione, ma, una volta che la materia è delegificata, qualunque regolamento può disciplinarla. In realtà la delegificazione appare come uno slittamento delle scelte verso luoghi lontani dagli spazi coperti dalla responsabilità politica. In ordine al terzo quesito, il dott. Cuniberti ha concluso richiamando l’affermazione di Lupo – che individua nell’art. 117, c. 6, Cost. un riconoscimento espresso del potere regolamentare del Governo – e affermando invece che la norma costituzionale va riferita più in generale allo Stato, e che la legge rimane signora della definizione degli ambiti regolamentari.

Paolo Zuddas