La funzione normativa di Comuni, Province e Città Metropolitane nel nuovo sistema costituzionale – Resoconto Convegno

03.08.2002

La funzione normativa di Comuni, Province e Città Metropolitane nel nuovo sistema costituzionale


Trapani, 3-4 maggio 2002-05-14


Università degli Studi di Palermo – Dipartimento di Diritto Pubblico



a cura di Andrea Piergiorgio Baccarini





Il Convegno è stato aperto dal prof. Luigi Scurto, direttore del Dipartimento di Diritto Pubblico dell’Università di Palermo, che, in un breve intervento, ha evidenziato l’importanza che l’iniziativa assume all’interno dell’ampio dibattito sull’individuazione dei nuovi assetti normativi delineatisi a seguito dell’entrata in vigore della legge n.3/2001.

Successivamente il dott. Fabrizio Clementi, direttore dell’Osservatorio sul Federalismo Comunitario, ha sottolineato come, fin dal 1992, si sia cercato di realizzare una “tavola rotonda” per il dialogo ed il confronto sulle problematiche generali relative alle autonomie locali.

Il dott. Clementi afferma che, con l’entrata in vigore della legge n.3/2001 di riforma del Titolo V della Costituzione, sia necessario procedere ad un ripensamento del ruolo e dell’organizzazione della Regione, essendo riconosciuta a questa, in prevalenza, una funzione di programmazione, direzione ed integrazione tra i differenti livelli di governo locale. Proprio al fine di garantire alla regione tale accentuato ruolo di coordinamento e mediazione fra gli enti locali – i quali, a seguito dell’entrata in vigore della riforma, debbono essere considerati come i nuovi attori del governo locale – è auspicabile procedere all’istituzione dei Consigli regionali delle autonomie.

L’oratore, inoltre, propone un ampliamento del confronto tra lo Stato, le Regioni e le Autonomie Locali, e soprattutto la diffusione di un maggiore senso di responsabilità da parte degli istituzioni interessate, sui quali deve gravare l’onere di promuovere un utilizzo più adeguato dello strumento della sussidiarietà.


A seguito di un breve intervento, nel quale la dott.ssa Giulia Adamo, Presidente della Provincia Regionale di Trapani, asserisce come l’autonomia debba essere uno strumento di governo e non un ulteriore aggravio della burocrazia per le amministrazioni, il dott. Girolamo Fazio, Sindaco del Comune di Trapani, afferma che la riforma del Titolo V della Costituzione prospetta un quadro confuso che deve essere adattato all’interno degli enti locali. A tale riguardo il dott. Fazio evidenzia, da una parte, come vi sia una differenza sostanziale tra il complesso delle nuove previsioni normative e lo stato effettivo di attuazione delle stesse e, dall’altra, come le Regioni abbiano intrapreso una “fuga in avanti” – ossia uno straripamento delle proprie competenze – che comporta un indebolimento del ruolo assegnato dalla riforma agli enti locali, e una loro marginalizzazione in una posizione secondaria.

Inoltre, l’oratore, ricordando la particolarità statutaria della regione siciliana, esprime perplessità in ordine allo stato di attuazione della riforma costituzionale nelle Regioni a Statuto Speciale. A tal riguardo è opportuno valutare, da una parte, se ed in quale modo la riforma possa produrre effetti positivi nei confronti delle Regioni a Statuto Speciale e, dall’altra, se la stessa possa trovare applicazione indistintamente nei confronti di tutti gli enti locali, ovvero se si renda necessario prevedere delle deroghe nei confronti delle autonomie locali appartenenti alle regioni a statuto speciale.


Il dott. Titti Bufardeci, Presidente dell’Anci Sicilia, traendo spunto dai quesiti posti dal Sindaco del Comune di Trapani, evidenzia come alle potenzialità espresse dalla legge di riforma costituzionale non stia seguendo una adeguata attività di collaborazione tra i differenti livelli di governo, necessaria per superare resistenze e difficoltà applicative. Inoltre, lo stesso sottolinea che, attraverso quella che definisce “sussidiarietà perversa”, si stanno assegnando agli enti territoriali competenze e compiti di difficile gestione, con un conseguente “decentramento delle tensioni”, senza la garanzia degli strumenti necessari ed idonei alla corretta realizzazione degli intenti della riforma.


In seguito il portavoce del dott. Guido Lo Porto, Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, ha messo in evidenza come si sia infranto il centralismo dello Stato e con esso la medesima identità che ha unito la penisola per quasi cento anni, e come vi sia la preoccupazione diffusa che al centralismo statale vada a sostituirsi una sorta di “centralismo regionale”, problema nei confronti del quale è doveroso rispondere con soluzioni adeguate.


Il prof. Andrea Piraino, dell’Università di Palermo, sostiene che è stato sottovalutato, “o meglio disconosciuto”, il valore innovativo della riforma del Titolo V della Costituzione.

Ancora oggi alla funzione normativa degli enti locali non è attribuito un adeguato spazio, se non nel caso in cui le fonti regionali non abbiano provveduto precedentemente in tal senso. Pertanto la fonte normativa locale, nonostante le previsioni della riforma costituzionale, potrebbe continuare ad assumere un ruolo subordinato rispetto alla fonte regionale.

A tal proposito, il prof. Piraino evidenzia come sia necessario spostare il baricentro del sistema delle fonti normative verso il basso, e quindi verso gli enti locali, creando in tal modo un “sistema a rete”.

La fonte normativa locale deve costituire la “fonte primaria” del sistema normativo. “Fonte primaria” non in virtù del grado che essa assume all’interno del sistema delle fonti, ma piuttosto in quanto la stessa “deve venir prima” rispetto alle altre fonti normative.

Il relatore sottolinea che la Costituzione non fonda la Repubblica su rapporti di sovraordinazione tra i soggetti che la compongono, ma, al contrario, esalta l’autonomia delle comunità locali. L’autonomia deve essere finalizzata alla costituzione di rapporti paritari e collaborativi tra gli organi di governo, in modo tale da garantire, da una parte, un ordinamento aperto, e dall’altra, la realizzazione di un local government e di un effettivo coordinamento dei servizi territoriali, nei quali si articola la vita della popolazione della Repubblica.

A tal fine è necessario stabilire sia un collegamento tra le autonomie locali, sia un coordinamento delle stesse con le istituzioni sovraordinati.

La legislazione nazionale non costituisce strumento idoneo a garantire il soddisfacimento di tutti gli interessi dei differenti livelli di governo: pertanto occorre provvedere all’implementazione di un’autonomia normativa locale maggiormente incisiva che, sebbene coordinata dal livello di governo superiore, sia in grado di arginare la tendenza all’accentramento delle competenze normative verso il vertice.

Il prof. Piraino osserva come la maggiore autonomia degli enti locali si realizzi, oggi, non più attraverso la gerarchia delle fonti, bensì mediante il coordinamento funzionale delle stesse, le quali è necessario che siano equiordinate e parimenti concorrenti nella determinazione dell’assetto ordinamentale locale.

Il criterio della competenza delle fonti normative dovrebbe, pertanto, sostituirsi a quello gerarchico. Statuti e regolamenti devono stabilire la disciplina esclusiva dell’ordinamento locale, lasciando alla fonte legislativa lo spazio di intervento necessario per assicurare il coordinamento e l’integrazione delle diverse fonti. In particolare gli statuti devono disciplinare i “fatti strutturali” dell’ente locale, ossia gli aspetti statici, mentre i regolamenti devono disciplinare i “fatti funzionali”, riguardanti, invece, gli aspetti dinamici dell’ente locale.

Secondo quanto detto, statuti e regolamenti assumerebbero un ruolo paritario: non vi sarebbe più una distinzione basata sul ruolo di norma di principio per i primi e di norma di dettaglio per i secondi; ma tra le due fonti vi sarebbe una distinzione per ambiti di competenza esclusiva.

Infine in relazione ai rimedi azionabili per la tutela dell’autonomia riconosciuta alla potestà normativa degli enti locali, il prof. Piraino afferma che si potrebbe prevedere la possibilità di ricorrere alla Corte Costituzionale attraverso il riconoscimento agli stessi della qualità di “poteri dello Stato”.


Il prof. Silvio Gambino, dell’Università della Calabria, ritiene possibile leggere nella legge cost. 3/2001 un nuovo assetto costituzionale, in particolare nell’art. 120 Cost., che fonda la piena parità degli enti autonomi, ma al contempo l’unità della Repubblica, concetto quest’ultimo che deve costituire un punto di partenza per l’attuazione del sistema delle autonomie.

Il prof. Gambino afferma che il nuovo quadro istituzionale delineatosi nei rapporti tra le fonti normative statali, regionali e locali a seguito della riforma, non ha definito procedure orientate verso lo sviluppo di un regionalismo forte.

Pertanto “la partita che è in gioco con la riforma del Titolo V costituisce l’architrave della riforma”, ed “il quadro che deriva dall’architettura normativa e costituzionale è lo stesso principio della sussidiarietà e quello della leale collaborazione”.

Nel nuovo quadro costituzionale se da un lato la competenza legislativa non appartiene più allo Stato ma alle regioni, dall’altro un decisivo cambiamento ha caratterizzato il ruolo dello Stato, chiamato a  garantire la convivenza comunitaria e democratica.

Lo Stato non deve più dettare disposizioni valide nei confronti di tutti i differenti livelli di governo, ma, attraverso le fonti normative locali, devono essere disciplinati settori specifici e particolari, tali da garantire l’effettiva autonomia degli enti locali.

Gli statuti ed i regolamenti, non più ordinati in modo gerarchico, devono stabilire la disciplina esclusiva dell’ordinamento, lasciando, poi, alla fonte legislativa lo spazio di intervento che si rende necessario per assicurare coordinamento e garanzia.

Il prof. Gambino ha espresso forti critiche nei confronti dei nuovi assetti che scaturiscono dall’entrata in vigore della legge 3/2001. In particolare si è fatto riferimento al rischio di uno stallo nella realizzazione del sistema delle autonomie, il quale dovrebbe essere superato, soprattutto, attraverso l’adozione di modifiche ai regolamenti parlamentari che diano piena attuazione all’art. 11 della legge 3/2001. Inoltre si rende necessaria una legge attuativa della lettera p) dell’art. 117 Cost.


Il prof. Antonio Ruggeri, dell’Università di Messina, afferma che da tempo la dottrina si interroga se esista e cosa sia un sistema delle fonti. Questo si fonda, innanzitutto, sulla tipicità degli atti ed, in secondo luogo, sul modo tipico, vario da un ordinamento all’altro, della composizione dei criteri della gerarchia e della competenza.

Nel nostro sistema delle fonti è venuto meno il criterio della competenza, caratteristico di un modello “a separazione”, e si è, pertanto, passati ad una classificazione gerarchica delle fonti. Occorre domandarsi se tale fatto sia stato adeguatamente preso in considerazione nella stesura del nuovo Titolo V e se, soprattutto, con la riforma costituzionale si sia recuperato il sistema della separazione delle competenze tra legge statale e regionale.

Il relatore afferma, inoltre, che occorre transitare da una normazione per atti ad una normazione per risultati. Tuttora, infatti, si continua a mantenere un sistema normativo costituito sulle fonti, sistema non più fondato, principalmente, sulla legge, ma, al contrario, aperto sia agli interventi normativi sovranazionali sia a quelli delle autonomie locali.

Il prof. Ruggeri, infine, ponendosi il quesito se esista ancora un sistema delle fonti, afferma al riguardo che esso si deve considerare ancora esistente, anche perché lo stesso costituisce l’ossatura del sistema normativo, ma questo non può rimanere uguale a sé medesimo, dovendo, pertanto, essere modificato al fine del conseguimento di risultati congrui alle nuove esigenze.


Il prof. Gian Candido De Martin, dell’Università Luiss di Roma, sottolinea che, con la riforma del Titolo V, è stato tributato riconoscimento costituzionale al potere statutario e regolamentare degli enti locali.

Tuttavia bisogna ricordare che le autonomie locali hanno sempre beneficiato, in passato, della potestà di adottare propri regolamenti, producendo, in tal modo, norme proprie. Difatti, già, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, l’attribuzione a comuni e province dell’autonomia normativa, che ha consentito loro l’autoregolamentazione e l’autogoverno, è desumibile, in particolare, dagli artt.5 e 128. A tal proposito, se da un lato, si è sviluppata una dottrina che ha ricondotto i regolamenti degli enti locali alla categoria di quelli autonomi ed indipendenti, dall’altro si è assistito ad una sempre maggiore affermazione del principio di competenza delle fonti, rispetto a quello gerarchico.

Il sistema basato sulla gerarchia delle fonti ha subito delle modifiche operate da due elementi, ben spiegati dalla dottrina: Crisafulli, con riferimento al ruolo che assume la legge all’interno del sistema normativo, ha ritenuto sussistente una sorta di riserva di autonomia regolamentare degli enti locali nei confronti della legge, mentre Modugno, più di recente, ha messo in evidenza quali fenomeni di portata dirompente rispetto alla passata esperienza, sia le fonti comunitarie, sia il potenziamento delle fonti locali.

Il prof. De Martin sottolinea come sia mutato il quadro di riferimento delle autonomie locali, in quanto il nuovo Titolo V ha spostato il baricentro del sistema sul piano sia amministrativo sia normativo: le fonti locali non devono più essere considerate come accessorie rispetto a quelle legislative ma, piuttosto, come espressione di un potere di autoregolazione di comuni e province. Inoltre, il prof. De Martin evidenzia come, con la riforma, si ponga il problema della collocazione di statuti e regolamenti locali all’interno del sistema delle fonti, sistema nel quale il primato della fonte legislativa sia stato, da tempo, messo in discussione.

Le norme statutarie e regolamentari introducono disposizioni immediatamente operative ed autoapplicative, che non necessitano di norme attuative, espressione del medesimo potere di cui gli enti locali, già in precedenza, erano titolari e che ora è stato ulteriormente rafforzato.

Il relatore ha, poi, affrontato alcune delle questioni poste dalla riforma costituzionale. In particolare si sottolinea come il potere normativo e regolamentare sia ora riconosciuto, oltre che a comuni, province e città metropolitane, anche alle unioni di comuni e alle comunità montane.

Altro quesito posto dalla riforma riguarda il limite del potere normativo degli enti locali nel rapporto con la legge. Il problema sarebbe in questo caso la collocazione delle fonti regolamentari degli enti locali all’interno del sistema normativo, dovendosi, al riguardo, tenere in considerazione l’attuale centralità che assume la legge all’interno dello stesso.

Inoltre, il prof. De Martin evidenzia come debba essere operata una revisione del testo unico degli enti locali, laddove in contrasto con le nuove disposizioni costituzionali.

Il relatore aggiunge che la riforma costituzionale del sistema delle autonomie deve avere valore nei confronti di tutti i soggetti della Repubblica e quindi anche nei confronti delle Regioni a Statuto speciale.

Tra le necessità da segnalare, il prof. De Martin afferma che occorre assicurare al più presto un accesso alla Corte Costituzionale da parte degli enti territoriali, al fine di delimitare le sfere effettive di competenza della legge statale e regionale, e di quella regolamentare degli enti locali.


Il prof. Ignazio Maria Marino, dell’Università di Catania, in relazione alla classificazione delle fonti normative, sottolinea che, da una parte, vi è la consapevolezza della necessità di un superamento della classificazione gerarchica delle stesse, ma che, dall’altra, l’orientamento attuale, a fronte della riforma costituzionale, è tuttora quello di mantenere validi i principi consolidati.

In questo quadro la fonte statutaria rappresenta l’espressione migliore della sovranità delle autonomie. La fonte legislativa non può essere più considerata il riferimento prevalente del sistema normativo in quanto, in relazione alle funzioni normative, si assiste ad una forte limitazione sia dal basso da parte degli enti territoriali, sia dall’alto da parte della Comunità Europea.

“La crisi della legge investe la positività del diritto, che si è sclerotizzata in un formalismo eccessivo, e l’assolutismo giuridico quale referente della normazione”.

La questione che si pone riguarda la definizione di nuovi equilibri nella democraticità del sistema derivante dalla crisi della legge: nonostante lo stesso sia stato caratterizzato in passato da un ruolo forte della fonte legislativa, non si può, tuttavia, escludere che sia possibile ricercarne un modello differente. A tal proposito occorre tenere in considerazione che il sistema normativo non deve essere eccessivamente vincolato alla fonte legislativa, potendo lo stesso essere fondato anche sulla fonte locale.


Il prof. Michele Scudiero, dell’Università di Napoli, pone l’attenzione sulla nuova rilevanza che acquista il valore dell’unità e dell’omogeneità della Repubblica, il quale comporta la necessità di individuare le linee principali di uniformità cui la normativa dovrà necessariamente attenersi.

In tale contesto, è opportuno, in particolare, riflettere sull’effetto che la riforma costituzionale può produrre nei confronti delle leggi ad alta valenza politica, come ad esempio la legge finanziaria e le leggi comunitarie.


Il prof. Stelio Mangiameli, dell’Università di Teramo, afferma che il Titolo V segna un profondo cambiamento, dal momento che, per la prima volta, si ritrova in Costituzione il fondamento delle funzioni normative degli enti locali e non il mero riconoscimento del principio dell’autonomia.

Nell’intervento del prof. Mangiameli acquistano rilevanza soprattutto alcuni punti: innanzitutto, le fonti locali hanno rilievo diretto nella regolazione degli interessi degli amministrati; a seguito dell’inserimento in Costituzione delle fonti locali, non ci si può limitare alla sola constatazione della mera esistenza di tale atti normativi, dovendosi, piuttosto, attribuire ad essi delle vere e proprie riserve normative; infine, gli atti normativi non possono essere considerati sulla base della sola forza di legge.

Al riguardo, occorre tenere presente che nel sistema normativo, nonostante la riforma, viene sminuito il ruolo della normazione secondaria, a causa tra l’altro  della crescente legificazione da parte del Parlamento, che ha provocato una profonda crisi della fonte regolamentare, sia governativa che locale. Pertanto i regolamenti locali, dovendo essere conformi alle leggi, continuano a costituire una fonte subordinata rispetto alle fonti primarie.

Con la riforma costituzionale, il riconoscimento dell’importanza delle fonti locali, rispetto alla passata esperienza, consente a  comuni e province di acquisire maggiore spazio ed autonomia effettiva nei confronti della legge statale.

Secondo il prof. Mangiameli sarebbe necessario un superamento del rapporto gerarchico tra fonti normative, al fine di favorire una suddivisione delle stesse ispirata al criterio della competenza.

Infine l’attribuzione costituzionale di funzioni normative proprie agli enti locali, introdurrebbe un limite invalidante della legittimità degli atti normativi statali e regionali.


Per il prof. Giovanni Pitruzzella, dell’Università di Palermo, si possono rinvenire tre aspetti rilevanti nella riforma del Titolo V: i raccordi istituzionali tra Stato e regioni ed enti locali, il raccordo tra funzione legislativa e risorse finanziarie e quello tra funzione legislativa e forma di governo locale regionale. In relazione al primo aspetto si deve osservare che, ad un attento esame delle nuove disposizioni costituzionali, vi sono alcune interferenze nelle competenze normative, come ad esempio accade con riguardo alla materia dell’urbanistica. In relazione all’aspetto concernente le risorse finanziarie si deve, invece, evidenziare che la riforma del Titolo V disegna un regionalismo differenziato forte di contingentamento della solidarietà, nel quale il fondo perequativo va a beneficio dei territori con minore capacità fiscale per abitante.

In relazione al terzo aspetto, la capacità delle regioni di legiferare efficacemente costituisce una questione problematica in quanto il funzionamento delle assemblee regionali non permette un efficace esercizio delle nuove competenze attribuite. Pertanto è necessario delineare un nuovo sistema di regolazione dei compiti attribuiti alle assemblee regionali.


La prof.ssa Margherita Raveraira, dell’Università di Perugia, sostiene che l’attribuzione alle regioni del potere di adottare regolamenti, riconosciuto dall’art. 117, comma 6, del nuovo Titolo V della Costituzione, ha aperto una nuova prospettiva orientata verso un rafforzamento della possibilità per le regioni di un maggiore utilizzo della fonte regolamentare rispetto a quella legislativa.

Tuttavia, ad un attento esame della legge di riforma del Titolo V, si potrebbe giungere a conclusioni differenti, dal momento che non risulta che gli statuti possano disporre della materia delle fonti del diritto al di là del quadro delineato dalla Costituzione.


Il prof. Beniamino Carovita, dell’Università La Sapienza di Roma, sottolinea come il nuovo Titolo V acquisti una notevole rilevanza in relazione al riordino dei pubblici poteri che, attualmente, sta attraversando la realtà istituzionale italiana. Tuttavia, la riforma del Titolo V della Costituzione, nel ridefinire il riparto di competenze fra Stato ed enti territoriali, necessita di un chiarimento e di una ulteriore definizione, al fine di risolvere le problematiche rimaste aperte.

Il primo passo per affrontare tali problematiche è il disegno di legge La Loggia, che scioglie alcuni nodi problematici. In particolare il disegno di legge La Loggia, in riferimento all’art.117 Cost., che prevede che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, afferma che tali disposizioni sono rivolte allo Stato e alle Regioni, e prevede che gli obblighi internazionali, che devono essere rispettati dalla legge sia statale sia regionale, devono essere intesi con riferimento solamente a quelli aventi forza di legge, che vengono introdotti nell’ordinamento nazionale.

In secondo luogo il disegno di legge La Loggia, in riferimento alla potestà legislativa concorrente, pur mantenendo saldo l’esercizio della potestà legislativa regionale, affida al governo la definizione dei principi fondamentali vigenti in ogni materia, consentendo, in tal modo, di eludere successive contestazioni di fronte alla Corte Costituzionale.

Infine, in relazione alle funzioni amministrative ed alle correlate risorse finanziarie che devono essere trasferite sulla base dell’art.118 Cost., il disegno di legge prevede che le funzioni amministrative, nelle materie di competenza regionale, siano autonomamente appropriabili dalle Regioni, ai sensi del riparto di competenze di cui all’art.117 Cost., essendo, invece, necessario un atto statale per il trasferimento delle risorse finanziarie e personali.


Il prof. Franco Pizzetti, dell’Università di Torino, afferma che, con il nuovo Titolo V della Costituzione, è stata introdotta una importante riforma che ha cambiato profondamente il ruolo centrale che la legge ha assunto sino ad oggi nel sistema delle fonti, quale strumento unificante del sistema.

In tale contesto, l’esigenza di unificazione viene garantita dal nuovo art.117, comma 1, della Costituzione, che prevede, quali strumenti a carattere generale, gli stessi vincoli comunitari e gli obblighi internazionali. Con la conseguenza che dovranno essere affrontate le problematiche derivanti dal ruolo che assumeranno in futuro, quali strumenti di unificazione, sia i vincoli comunitari, sia gli obblighi internazionali.

Inoltre, il prof. Pizzetti afferma che si rende necessario procedere ad un esame della differenza tra le legge di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali, potendosi verificare casi in cui il ricorso alla legge costituzionale sia giustificato anche al di fuori delle ipotesi di abrogazione parziale o modificazione del dettato costituzionale.


Il prof. Massimo Villone, dell’Università di Napoli, si sofferma su alcune problematiche relative all’effettiva attuazione della riforma ed in particolare sulle risposte fornite alla questione della continua ed incessante attività di emanazione di norme legislative da parte del Parlamento.

A fronte del continuo legiferare delle Camere, gli enti locali territoriali sarebbero di fatto limitati nella propria autonomia, con l’effetto di uno svilimento dello spirito in senso federalista della riforma. Con la conseguenza che il nuovo assetto delineato dalla riforma del Titolo V potrebbe risultare una mera elencazione di potestà attribuite agli enti locali.


Il prof. Vincenzo Cerulli Irelli, dell’Università La Sapienza di Roma, evidenzia, innanzitutto, come con la riforma del Titolo V non vi sia stata una “rottura costituzionale” ma una modifica costituzionale, intendendo con ciò evidenziare come il nuovo Titolo V sia pienamente in armonia con la Costituzione, in particolare con l’art. 5.

Il relatore sostiene che la competenza legislativa regionale è già operativa ed azionabile, tranne che in materia elettorale ed in quella relativa ai trattati internazionali.

Tra le molteplici materie attribuite alla competenza delle regioni, in particolare, in relazione alla materia del diritto amministrativo, il relatore sottolinea come sia di competenza legislativa esclusiva dello Stato la definizione dei principi del procedimento amministrativo, sostenendo al riguardo che non è possibile immaginare normative differenti da parte degli enti territoriali regionali in relazione ai principi fondamentali dell’azione amministrativa.

In relazione alle forme ed ai principi che governano la funzione legislativa si pone il problema se le Regioni possano adottare atti aventi forma di legge. A tale riguardo, nonostante la questione sia molto dibattuta, per il prof. Cerulli Irelli ciò non sarebbe possibile, anche se sarebbe necessaria una ulteriore riflessione in proposito.

Con riguardo al limite dell’interesse nazionale, occorre, poi, constatare come il problema non è più stabilire l’ampiezza delle competenze concorrenti, ma delle competenze trasversali di tutta la legislazione regionale.

Inoltre, il prof. Cerulli Irelli segnala che, in materia di svolgimento di funzioni amministrative, il principio di adeguatezza dovrebbe spingere verso una valorizzazione delle forme associative degli enti locali.


Il prof. Giorgio Recchia, dell’Università Roma Tre, constata che si è di fronte ad una riforma dinamica ed incrementale che spinge verso una ridefinizione del panorama complessivo del sistema normativo, e che tale riforma si verifica proprio in una fase in cui si è intrapreso il percorso che conduce verso la Costituzione Europea.

Il problema che, pertanto, si pone è quello della individuazione della corretta ripartizione delle competenze fra Stato, Regioni ed Enti Locali, che dovrebbe essere affrontato attraverso l’analisi di quanto disposto nell’art. 117 della Costituzione.

Nel nuovo sistema costituzionale delle autonomie, ciò che risalta con maggiore chiarezza è che sono venuti meno i controlli di merito, e che “tutto diviene vizio di legittimità”: scompare, ad esempio, il Commissario di Governo e vengono meno anche una serie di controlli che caratterizzavano il previdente regime.

Una possibile soluzione potrebbe essere quella di attuare l’art. 123, ultimo comma, mediante l’istituzione del Consiglio delle Autonomie locali come organo di consultazione fra regioni  ed enti locali.


Il dott. Enrico Borghi, Presidente dell’Uncem, sostiene che all’interno del mondo delle autonomie locali si ha la consapevolezza che si sta attraversando un “momento storico”, e che si è in una fase delicata di definizione delle regole, al termine della quale si potranno acquisire gli strumenti necessari per una efficace attuazione del Titolo V della Costituzione.

Sebbene il successo della riforma costituzionale necessiti dell’integrata applicazione dei tre pilastri della riforma stessa, l’art. 117, l’art. 118 e l’art. 119, tuttavia l’attenzione è stata posta da subito sull’attuazione dell’art.117, cioè sulla ripartizione della competenza legislativa tra Stato e regioni, ponendo solamente in secondo piano l’esame degli art.118 e 119 Cost.

Tra le questioni di rilevante importanza che la riforma deve affrontare vi sono l’allargamento della Bicamerale al sistema delle autonomie ed il ricorso da parte degli enti locali alla Corte Costituzionale.

Il dott. Borghi sottolinea, inoltre, come le comunità montane siano sottoposte ad una delicata riflessione sul ruolo che le stesse dovranno svolgere: l’esistenza delle comunità montane, infatti, deve essere garantita sulla base dei principi di autonomia, sussidiarietà e differenziazione.

Per questi motivi, si rende necessario discutere sui tempi e sulle modalità effettive della riforma al tavolo della Conferenza Unificata, in modo da giungere in tempi rapidi, e con la partecipazione dei soggetti interessati, all’applicazione effettiva del nuovo Titolo V della Costituzione.


Il prof. Luciano Vandelli, dell’Università di Bologna, sottolinea come le normative emanate negli ultimi anni e la riforma costituzionale abbiano delineato non solamente nuovi assetti ma anche nuove problematiche, che generano un sistema in cui regioni ed enti locali costituiscono gli elementi fondamentali di un circuito nel quale si verifica un avvicinamento dei differenti livelli di governo, e dal quale non si può prescindere per non isolare le realtà degli enti territoriali più piccoli, e per questo più deboli.

In tale quadro, al fine di consentire alla riforma di produrre un’utilità concreta anche per i comuni di piccole dimensioni, deve assumere un ruolo fondamentale il principio di adeguatezza.

Lo “spirito di sistema” deve essere tradotto a tutti i livelli di governo ed in particolare nel rapporto regioni – autonomie locali. Pertanto per garantire la partecipazione degli enti locali nei percorsi decisionali delle regioni è necessario che vengano istituiti i Consigli delle autonomie.

Occorre realizzare un meccanismo che tenga insieme l’intero sistema di emanazione delle regole, in modo tale che ne sia garantita la partecipazione di tutti i livelli di governo interessati. Al fine di realizzare questo obiettivo è fondamentale definire un quadro chiaro di rapporti tra Stato, regioni ed autonomie locali.


La riforma del Titolo V, secondo il dott. Oriano Giovanelli, Presidente di Legautonomie, ha creato una assetto complesso che può essere affrontato solamente attraverso una consapevole iniziativa unitaria degli enti locali.

Il pericolo maggiore che deve essere affrontato è il ritorno del centralismo dello Stato che rischia di minare l’autonomia degli enti locali: per tale motivo regioni ed enti locali devono superare la gestione unitaria della riforma da parte dello Stato ed intervenire con maggiore determinazione nell’attuazione della riforma.

Il dott. Giovanelli afferma, poi, come l’attuazione dei Consigli regionali delle autonomie locali debba essere un obiettivo importante da raggiungere in breve tempo.


Nell’intervento del dott. Leonardo Domenici, Presidente dell’Anci, viene evidenziato come le associazioni delle autonomie premano per una intesa che costituisca il presupposto per una maggiore collaborazione tra i differenti livelli istituzionali, e che al contempo rappresenti l’elemento prodromico per l’attuazione della riforma costituzionale.

In riferimento all’argomento delle risorse, Domenici sottolinea come sia sempre più pressante l’esigenza, manifestata da parte dei comuni, di stabilire propri tributi, e che la compartecipazione all’Irpef stia mostrando i propri limiti per far fronte alla crescente richiesta di fiscalità locale.

Inoltre, nell’intervento viene sottolineato come si renda necessario integrare la Commissione Bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti di regioni ed enti locali.


Il dott. Antonio D’Alì, sottosegretario del Ministero dell’Interno, rileva come nella fase attuale si stia attraversando un difficile momento di attuazione della riforma del Titolo V, a causa della carenza, nella legge 3/2001, di norme transitorie che ne rendano più agevole l’applicazione e che evitino il rischio di frammentare l’unitarietà della Repubblica.

Per tal motivo si rende indispensabile definire con attenzione gli aspetti relativi alla individuazione dei principi fondamentali, delle funzioni amministrative e del sistema di controllo.

E’ necessario che, nella composizione delle differenti posizioni, vengano rispettati i principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, assicurando in tal modo unitarietà dei differenti livelli di governo della Repubblica.


Per il Ministro per gli Affari Regionali Enrico La Loggia la riforma del Titolo V della Costituzione risulta essere difettosa sotto alcuni aspetti, in particolare in relazione alla questione del rispetto degli obblighi internazionali quali vincolo per la normativa statale e regionale.

Inoltre, la debolezza della riforma sarebbe da rinvenire anche nella formulazione dei principi riguardanti l’individuazione delle materie di legislazione esclusiva statale e delle materie attribuite alla competenza residuale delle regioni.

Per la corretta attuazione della riforma del Titolo V si dovrebbe procedere, innanzitutto, all’approvazione del disegno di legge di attuazione della legge costituzionale, ed in secondo luogo alla modifica del Testo Unico degli Enti Locali; a queste due fasi dovrebbe seguire, poi, il disegno di legge sulla devoluzione.


Il Coordinatore del Comitato parlamentare per l’attuazione dell’art.11 della legge costituzionale 3/2001, Nicola Mancino ricorda come sia necessario affrontare la riforma del Titolo V in modo fattivo.

In particolare, nota come la parità tra i differenti livelli di governo deve essere intesa in modo non eccessivamente estensivo, in quanto lo Stato deve, comunque, mantenere il ruolo di garante dell’interesse nazionale.

L’oratore osserva, poi, come vi siano numerose proposte in materia di conferimento di deleghe al Governo per la definizione dei principi necessari con riferimento alle materie di legislazione concorrente. E, proprio a tale riguardo, afferma che sarebbe necessario che fosse emanata una legge quadro.

Inoltre, sottolinea come sia necessario integrare la Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti di regioni ed enti locali, la quale deve, pertanto, occuparsi anche delle materie attinenti agli stessi. Gli enti locali, inoltre, dovrebbero essere partecipi della definizione dei principi fondamentali a partire dalla prossima legge finanziaria.

Infine, in relazione all’ aspetto dei rapporti fra differenti livelli di governo, Mancino sottolinea come le regioni necessitino di una più intensa collaborazione con gli enti locali.


Il prof. Sergio Panunzio, dell’Università Luiss di Roma, esprime alcuni rilievi critici in riferimento al disegno di legge La Loggia, affermando che in relazione alla determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente, una definizione degli stessi da parte dello Stato deve costituire una eventualità e non una necessità.

Pertanto solamente nel momento in cui si renderà necessario procedere alla specificazione di tali principi, dovrà essere la Corte Costituzionale ad intervenire. Se, al contrario, tali principi non ci sono e si rendono necessari, dovrà intervenire il Parlamento, il quale dovrà procedere alla definizione degli stessi.

Inoltre, il prof. Panunzio afferma come in relazione all’art.7 della legge di riforma, occorre affrontare due problematiche.

La prima, riguarda il comma 1 del suddetto art.7, ove è previsto che la questione di legittimità costituzionale di uno statuto regionale possa essere promossa entro il termine di trenta giorni dalla pubblicazione. In questo caso, il disegno di legge affronta e risolve un problema di interpretazione dell’art. 123, cioè la questione se il ricorso debba essere esperito prima o dopo l’eventuale referendum, optando per la seconda delle due ipotesi configurate. Tuttavia, tale soluzione secondo il relatore non sembrerebbe essere convincente: infatti, la stessa, ad esempio, costringerebbe la Corte Costituzionale a giudicare e a dichiarare incostituzionale uno statuto già approvato dal corpo elettorale.

Il secondo aspetto problematico attiene al comma 6 dell’art. 7, che prevede che quando viene proposto un ricorso davanti alla Corte Costituzionale contro una legge dello Stato o della regione, la stessa viene sospesa sino a che non si pronunci la Corte.

A tal proposito il prof. Panunzio esprime la perplessità che una legge ordinaria possa prevedere la sospensione di altra legge, incidendo così sull’efficacia e sulla forza di legge della stessa e degli atti ad essa equiparati.

Tale capacità rientrerebbe nella disponibilità della legge costituzionale e non di quella ordinaria, ed inoltre, sarebbe irragionevole prevedere che gli atti impugnati vengano sospesi senza che la Corte si esprima al riguardo sulla sussistenza di gravi ragioni.

Andrea Piergiorgio Baccarini