Esecuzione di appalto – risarcimento del dannoConsiglio di Stato, Sez. V, sentenza del 6 marzo 2002, n. 1373

06.03.2002

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, approfondisce il tema della condanna di una Pubblica Amministrazione al risarcimento dei danni subiti da una impresa che illegittimamente non è riuscita ad eseguire l’appalto per il quale era risultata aggiudicataria.

Particolare attenzione merita la predetta sentenza soprattutto nella parte in cui si sofferma ampiamente a spiegare l’aspetto per cui non sempre il bene della vita che viene perseguito dall’impresa attraverso la proposizione di un’azione giudiziaria – cioè l’esecuzione dell’appalto per il quale l’impresa è risultata aggiudicataria – può essere sostituito da un equivalente monetario individuato in via equitativa dal giudice.

Difatti, nella sentenza di cui sopra, testualmente si legge ” l’equiparazione del bene della vita, cui era preordinato il rimedio giurisdizionale, con la refusione del danno patito è nozione in linea astratta corretta, ma non predicabile in assoluto e soprattutto in concreto; se è pur vero, infatti, che il risarcimento del danno adempie l’ufficio di ripristinare la sfera giuridica lesa, è altresì incontrovertibile che tale ripristino è frutto di una valutazione, nella quale non sempre convergono tutti gli elementi utili per considerare indifferente, per i soggetti interessati, il ristoro per equivalente.

E’ noto, infatti, che la misura della refusione in subiecta materia viene limitata, a tutto concedere, al mancato utile di impresa, nell’ambito di una valutazione sicuramente equitativa del giudice”.

Ebbene, discende da quanto sopra riportato che, ormai, anche i giudici di Palazzo Spada sono ben coscienti che nel settore degli appalti pubblici esistono, oltre all’utile di impresa, altre utilità che restano escluse dalla valutazione equitativa che compie il giudice allorché è chiamato a risarcire monetariamente il danno subito dall’impresa.

Utilità come, ad esempio, la remunerazione dei fattori di produzione (se non utilizzati per l’espletamento dell’oggetto dell’appalto), l’acquisizione del titolo per l’appalto eseguito, spendibile in altre procedure o utilizzabile, in caso di lavori pubblici, al fine del raggiungimento di classifica di qualificazione superiore rispetto a quella già posseduta dall’impresa: utilità sulle quali, tra l’altro, non potrebbe in ogni caso procedersi con sicurezza alla riparazione per equivalente, in quanto in tal caso si tratterebbe chiaramente di effettuare delle vere e proprie proiezioni sulle eventuali future perdite di occasioni di impiego dei fattori di produzione dell’impresa in conseguenza della mancata realizzazione dell’appalto, nonché sulle eventuali ricadute che ciò potrebbe avere sull’attività di quel soggetto economico.

E’ convinzione del Consiglio di Stato, pertanto, che la conversione del bene della vita in equivalente monetario, pur costituendo una fase necessaria di tutela apprestata dall’ordinamento, trattasi pur sempre di una fase che deve seguire – e non dunque precedere – la verifica preventiva del giudice circa la possibilità di procedere innanzitutto ad una condanna della Stazione Appaltante alla reintegrazione in forma specifica, anche attraverso la condanna ad un adempimento parziale del bene della vita richiesto con l’azione – che, nel caso esaminato dal Supremo Consesso, consisteva nella possibilità per l’impresa di eseguire l’appalto che si era legittimamente aggiudicato.

a cura di Fulvia Giacco