Con due ricorsi promossi dal Presidente del Consiglio, la Corte costituzionale è stata investita della legittimità costituzionale degli articoli 2, 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 e dell’art. 5 della legge della Regione Sardegna 29 maggio 2007, n. 2. In un primo tempo, la Corte ha ritenuto di riunire i due procedimenti per trattarli e deciderli congiuntamente. Uno dei due ricorsi, tuttavia (precisamente il ricorso n. 36 del 2007), indicava, fra i diversi parametri di legittimità costituzionale di una delle disposizioni indicate (in particolare, l’art. 4 della legge regionale 4/2006, con cui è stata istituita l’imposta regionale sullo scalo turistico), le norme del Trattato CE relative alla tutela della libera prestazione dei servizi, alla tutela della concorrenza e al divieto di aiuti di Stato, cui l’art. 117, primo comma, Cost., com’è noto, rinvia. A fronte dell’esigenza di conoscere la portata delle norme comunitarie – esigenza sollevata peraltro dallo stesso ricorrente, il quale chiedeva che venisse effettuato il rinvio pregiudiziale di cui all’art. 234 TCE – la Corte, con sentenza n. 102 del 2008 (la quale, peraltro, decideva nel merito tutte le altre questioni sollevate dai due ricorsi), disponeva la separazione del solo giudizio riguardante la presunta non conformità dell’art. 4 citato all’art. 117, primo comma, Cost.
La Corte, in prima battuta, si pronuncia sull’ammissibilità «dell’evocazione, nei giudizi promossi in via principale […] sulla legittimità di leggi regionali, di norme comunitarie quali elementi integrativi del parametro di costituzionalità di cui all’art. 117, primo comma, Cost.». La Corte afferma che l’ammissibilità di siffatta evocazione «consegue alla particolare natura di tali giudizi». Infatti, essa rileva che, a fronte della ratifica dei Trattati comunitari e per il tramite dell’art. 11 Cost., l’Italia ha trasferito l’esercizio di poteri anche normativi (compresi quelli regionali) nei settori definiti dai Trattati stessi. Da ciò discende che «le norme dell’ordinamento comunitario vincolano in vario modo il legislatore interno», fatti salvi – come ricorda la Corte – i cd. controlimiti, consistenti nei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e nei diritti inviolabili dell’uomo garantiti dalla Costituzione. Tale vincolo opera diversamente, stando alla Corte, a seconda che la norma comunitaria in contrasto con quella interna venga in rilievo di fronte a un giudice comune ovvero di fronte alla Corte stessa. Nel primo caso, com’è noto, il giudice disapplicherà la norma interna in contrasto con quella comunitaria dotata di effetto diretto, eventualmente valendosi, per ogni dubbio riguardante l’interpretazione o la legittimità della norma comunitaria, dell’art. 234 TCE. Nel secondo, la Corte costituzionale, ove riscontri il contrasto tra le due norme, non procederà alla disapplicazione di quella interna, ma ne dichiarerà l’illegittimità costituzionale «con efficacia erga omnes». In definitiva, secondo la Corte, essendo «l’assunzione della normativa comunitaria quale elemento integrante il parametro di costituzionalità […] una precondizione necessaria per instaurare, in via di azione, il giudizio di legittimità della legge regionale, […] la censura in esame è ammissibile, perché le norme comunitarie sono state evocate […] quale elemento integrante il parametro di costituzionalità costituito dall’art. 117, primo comma, Cost.».
Quanto al merito, la Corte rammenta che la norma sospettata, in quanto assoggetta a tassazione le imprese che non hanno domicilio fiscale nella Regione Sardegna, «sembra creare una discriminazione rispetto alle imprese che, pur svolgendo la stessa attività, non sono tenute al pagamento del tributo per il solo fatto di avere domicilio fiscale nella Regione». Con ciò, evidentemente, l’applicazione della norma darebbe luogo «a un aggravio selettivo dei costi resi, che assume rilevanza per l’ordinamento comunitario sia come restrizione alla libera prestazione dei servizi […], sia come aiuto di Stato alle imprese con domicilio fiscale in Sardegna». La Regione, per contro, sostiene che l’indubbio effetto discriminatorio potrebbe giustificarsi alla luce della «necessità di compensare, attraverso la tassazione delle imprese non domiciliate in Sardegna, i maggiori costi sostenuti dalle imprese ivi domiciliate, in ragione delle peculiarità geografiche ed economiche legate al carattere insulare della Regione stessa». A fronte di siffatta obiezione, la Corte manifesta dei dubbi relativi proprio alla possibilità che dette esigenze possano rendere inoperante il principio di non discriminazione, così come previsto dal diritto comunitario. Ebbene, dal momento che, come la Corte ricorda, da una parte, la delimitazione di tale principio «è rimessa non a regole di diritto interno, ma al diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE», mentre, dall’altra, la giurisprudenza della stessa Corte di giustizia in materia, riguardando casi che «non sono esattamente corrispondenti» a quello del giudizio relativo all’art. 4 della menzionata legge regionale, non è virtualmente “applicabile” a esso, si rende necessario un rinvio ex art. 234 TCE. Un medesimo rinvio, aggiunge la Corte, si rende pure necessario per la presunta violazione delle norme comunitarie sugli aiuti di Stato, in quanto occorre, affinché il giudizio di costituzionalità possa essere deciso nel merito, che la Corte di giustizia si pronunci sulla nozione di “aiuto di Stato”, e in particolare sulla circostanza che essa includa (o meno) un vantaggio, come quello concesso alle imprese aventi domicilio fiscale in Sardegna ed esenti dal tributo, che non deriva «dalla concessione di una agevolazione fiscale, ma indirettamente dal minor costo da esse sopportato rispetto alle imprese “non residenti”». La Corte, invece, si riserva di decidere nel prosieguo del giudizio (cioè, dopo la pronuncia della Corte comunitaria) la questione relativa all’asserita violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza.
Infine – ed è questo l’aspetto sul quale la Corte non si era, finora, mai pronunciata, benché in dottrina fosse già stata ampiamente prospettata l’ipotesi che essa dovesse valersi dell’art. 234 TCE nei (soli) giudizi in cui fosse stata anche giudice del merito – la Corte costituzionale riconosce la sussistenza delle condizioni perché sollevi davanti alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale del diritto comunitario. Secondo la Corte costituzionale, infatti, essa costituisce una «giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza […]: essa, pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia CE». Non solo: la Corte costituzionale aggiunge che, essa costituendo in tali giudizi «l’unico giudice chiamato a pronunciarsi sulla controversia», ove in essi «non fosse possibile effettuare il rinvio pregiudiziale […], risulterebbe leso il generale interesse alla uniforme applicazione del diritto comunitario, quale interpretato dalla Corte di giustizia CE». Pertanto, essa – per la prima volta – dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dette questioni pregiudiziali e alla soluzione proposta dal giudice comunitario dovrà attenersi quando il giudizio costituzionale verrà ripreso.
La Corte costituzionale per la prima volta investe la Corte di giustizia di un rinvio pregiudiziale: l’ordinanza n. 103/2008
11.08.2008