Sulla definizione normativa di rifiutoTribunale di Udine, 16 ottobre 2002, ordinanza del GIP

16.10.2002

Tribunale di Udine, 16 ottobre 2002, ordinanza del GIP

Contestualmente alla instaurazione della procedura di infrazione a livello comunitario, il giudice interno trovatosi a dover valutare la legittimità o meno di determinati comportamenti, alla luce della nuova legislazione sui rifiuti, ha optato per un giudizio di “disapplicazione della disciplina nazionale in favore di quella europea”.
Interessante, non solo per i principi enunciati ma anche per l’articolata motivazione posta a fondamento degli stessi, e’ sicuramente, sotto questo punto di vista, l’ordinanza emessa dal GIP del Tribunale di Udine, il 16 ottobre u.s.
Nel caso di specie il PM aveva con decreto stabilito il sequestro di alcuni materiali ferrosi di diversa provenienza importati in motonave e poi a mezzo di trasporto ferroviario. Il trasporto in questione, infatti non risultava essere effettuato sulla base delle autorizzazioni e secondo le modalità, anche formali (quali presenza di idonei documenti di trasporto), richiesti dalla normativa sui rifiuti.
Il nodo della questione, dunque, si incentra sulla verifica dell’effettiva qualificazione di detti materiali come rifiuti o, come viceversa ritenuto dalle aziende interessate, come merce.
Le argomentazioni del Tribunale (e prima del PM) si sono articolate sui due ambiti interpretativi contenuti rispettivamente nel comma 2, lettera a) e comma 2, lettera b) del Dl. n.138/2002.
Prima di entrare nei dettagli della nuova disciplina, il Giudice ha sottolineato come, per giurisprudenza comunitaria consolidata, non sia corretto escludere dalla nozione di rifiuto sostanze e materiali esclusivamente in quanto suscettibili di riutilizzazione economica. Di fatto, secondo la Corte di Giustizia Europea, il rifiuto si definisce in primo luogo in quanto vi sia un detentore che di esso si disfi o abbia intenzione/obbligo di disfarsi. Inoltre, la volontà (o l’obbligo) di “disfarsi” di un determinato bene, al fine della riconduzione dello stesso nella qualifica di rifiuto, devono essere valutati con riferimento all’originario detentore e non gia’ all’utilizzatore finale e, quindi, a prescindere da qualsivoglia considerazione relativa alla volontà (o obbligo) che coinvolga la società destinataria di tali beni. L’interpretazione fornita dal legislatore italiano, pertanto, qualora ponesse maggiore accento sull’attività’ di riutilizzo economico effettuata da un terzo possessore di un bene che non sulla volontà/obbligo di disfarsi dello stesso posti in essere dal suo originario detentore, sarebbe contraria alla normativa comunitaria.
Alla luce di queste considerazioni, nel caso di specie ben si può parlare, almeno in via preliminare, di “rifiuto” ai sensi dell’ art. 6, lettera a) del D.lgs.n.22/1997, dal momento che la società detentrice di questi materiali ferrosi ha deciso di disfarsene consegnandoli ad altra società per il loro trattamento. Poco rileva, quindi, che tali rottami ferrosi siano stati successivamente acquistati da terzi e potenzialmente destinati ad altra utilizzazione economica. Una eccezione di questo genere potrebbe essere sollevata solo dal produttore del materiale in questione che effettuasse direttamente l’attività’ di reimpiego dello stesso non, viceversa, da un terzo che venga in possesso e decida di riutilizzare il materiale di cui il detentore si sia precedentemente disfatto.
Passando all’esame dell’art.14, il legislatore italiano ha stabilito (comma 2, lettera a.) che l’esclusione dalla nozione di rifiuto (e conseguentemente, nel caso di specie, la qualifica del materiale come merce,) si fonda sulla possibilità, concreta o oggettiva, che le sostanze e i materiali residuali di produzione o consumo abbiano di essere riutilizzati “senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente”. Sotto questo profilo, alla luce del principio “estensivo” che ispira la disciplina comunitaria, secondo il GIP l’esimente trova applicazione solo qualora sia possibile trovare riscontri concreti in ordine alla destinazione dei residui al riutilizzo, nonché fondati elementi dai quali dedurre che gli stessi possano essere riutilizzati senza pregiudizio per l’ambiente. Elementi, questi che nel caso di specie non sono riscontrabili. In carenza, non può ritenersi operante l’esimente e deve darsi applicazione al regime ordinario.
In secondo luogo, il Giudice ritiene che la seconda eccezione proposta dal legislatore italiano alla lettera b) del l’art. 14 comma 2, non possa, di fatto, mai, (o molto difficilmente), trovare applicazione.
Secondo tale disposto, infatti, sono esclusi dalla nozione di rifiuto tutti i beni o le sostanze residuali di produzione o di consumo che “possono essere o sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell’allegato C del decreto n.22/1997”. Ora, l’elenco di cui all’Allegato C non ha il carattere della tassativita’ ma offre solo uno spunto esemplificativo delle operazioni che possono essere intraprese, essendo di fatto la tipologia di attività di recupero molto ampia. Di conseguenza, porre l’effettuazione di una operazione di recupero (di per sé non esattamente identificabile) quale fondamento e conditio sine qua non, di una eccezione alla applicazione della disciplina generale sui rifiuti produce l’effetto di svuotare di significato e di operatività la clausola medesima.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, il Tribunale di Udine si e’, quindi, risolto per la “disapplicazione” dei criteri interpretativi della nozione di rifiuto contenuti nell’art. 14 del Dl. n.138/2002 sotto il duplice profilo della contrarietà della nuova disciplina alla normativa comunitaria in materia e della non reale operatività delle condizioni poste a fondamento del regime derogatorio.

a cura di Emanuela Gallo