Il secondo “no” della Corte ai Parlamenti regionali

20.06.2002

Corte Costituzionale, 20 giugno – 3 luglio 2002, n. 306

E’ illegittima la deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale delle Marche che dispone di affiancare alla dizione “Consiglio regionale” quella di “Parlamento delle Marche” e alla dizione “Consigliere regionale” quella di “Deputato delle Marche”

Giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale della Regione marche del 25 settembre 2001 recante “Consiglio regionale – Parlamento delle marche”, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri

Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha proposto ricorso avverso la deliberazione legislativa statutaria del Consiglio regionale delle Marche che cambia la denominazione dell’organo rappresentativo regionale in “Parlamento delle Marche” e quella dei suoi componenti in “Deputati delle marche”, per presunto contrasto con gli artt. 1, 5, 55, 114, 115 (articolo abrogato dall’art.9, comma 2 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3),121 e 123 della Costituzione.
Due sono i principali rilievi sollevati dall’Avvocatura dello Stato, uno di ordine procedimentale ed uno di merito. In relazione al primo rilievo, il ricorrente contesta la possibilità di ricorrere al procedimento previsto dall’art.123 della Costituzione (come introdotto dalla legge cost. n. 1 del 1999) per modifiche parziali degli statuti vigenti (adottati con legge statale in virtù del testo dell’art.123 previgente alla riforma del 1999), che verrebbero a costituire un testo statutario “misto”. In riferimento al secondo rilievo, l’Avvocatura dello Stato osserva invece come, attraverso il cambiamento di denominazione approvato, la Regione finirebbe con l’arrogarsi la titolarità di un potere sovrano che spetta soltanto alla Repubblica, unica ed indivisibile, e che si realizza nella posizione preminente del Parlamento nazionale quale organo rappresentativo della sovranità popolare. I Consigli regionali, viceversa, sono titolari esclusivamente di poteri di autonomia che, per quanto passibili di estensione, non possono mai assurgere alle dimensioni della sovranità.
Il Presidente della Giunta regionale delle Marche, costituitosi in difesa, chiede il rigetto del ricorso statale, adducendo una serie di argomentazioni di varia natura. In primo luogo, la Regione sostiene che l’art.123 possa essere utilizzato anche solo per modifiche parziali dello Statuto vigente, pena la svalutazione dell’autonomia statutaria regionale. In secondo luogo, il nomen di “Parlamento” servirebbe ad esprimere con immediatezza in rapporto intercorrente tra le assemblee elettive regionali ed il corpo elettorale, in armonia sia con il processo di valorizzazione dei Consigli regionali prodotto dalle leggi costituzionali n.1 del 1999 e n.3 del 2001, sia con il pluralismo istituzionale e con le istanze di autonomia che sono alla base della nostra Repubblica, una ed indivisibile. In terzo luogo, la Regione Marche sostiene che il cambiamento lessicale approvato troverebbe il suo fondamento nella previsione dell’art.123 Cost. per cui gli statuti regionali devono essere “in armonia con la Costituzione”, espressione questa da intendersi come rispetto dei principi costituzionali, che consenta uno spazio di autonomia interpretativa a favore delle Regioni. In questa direzione, all’interno di una concezione dell’unità intesa non in senso statalistico ma come realizzazione del pluralismo delle articolazioni democratiche dell’ordinamento, il Consiglio regionale rappresenterebbe “il momento di autodeterminazione della collettività nell’esercizio dei poteri pubblici”, funzione questa che merita il nomen di Parlamento.
In prossimità dell’udienza, la Regione Marche ha depositato una memoria illustrativa che, sulla base della sentenza n.106 del 2002 in cui la Corte vietava alle Regione Liguria l’uso della dizione “Parlamento” per denominare il Consiglio regionale, espone alcuni rilievi di inammissibilità in relazione al ricorso statale. Innanzitutto, la Regione Marche contesta il promovimento da parte del governo di conflitto di attribuzioni, quando, in base all’art.123 Cost., si sarebbe dovuto procedere a sollevare questione di legittimità costituzionale; la procedura prevista all’art.123, inoltre, potrebbe essere attivata solo per controlli successivi alla promulgazione della legge statutaria, che, nel caso in questione, non risulta ancora avvenuta. In riferimento a questo rilievo procedurale, la Regione contesta le possibili obiezioni per cui non sarebbe possibile un controllo costituzionale successivo al referendum previsto all’art.123: non solo, infatti, tale referendum è meramente eventuale, ma, in ogni caso, il controllo infraprocedimentale della Corte dovrebbe essere espressamente previsto e non semplicemente desunto dalla collocazione topografica delle disposizioni costituzionali. Sotto il profilo del merito, si argomenta invece che il potere di attribuire diverse denominazioni agli organi regionali sarebbe implicito nella competenza statutaria a disciplinare la forma di Governo sancita dall’art.123 Cost. Si ribadisce pertanto che “l’armonia con la Costituzione” andrebbe commisurata sulle scelte di fondo che ispirano la Carta, senza essere estesa all’osservanza puntuale delle singole disposizioni costituzionali. In questo senso, non sarebbe neanche possibile obiettare che il nomen di “Parlamento” sarebbe lesivo del principio di rappresentanza politica posto dall’art.67 Cost, perché proprio i Consigli regionali sono espressione della funzione di rappresentanza intesa a livello territoriale. A sostegno di questa specifica argomentazione, la Regione richiama l’art.11 della legge costituzionale n.3 del 2001, che ha inteso riassumere nella nozione “vivente” di Parlamento sia l’istanza di rappresentanza nazionale che quella della rappresentanza territoriale.
Sulla base delle argomentazioni delle parti, la Corte Costituzionale dichiara non accoglibile l’eccezione regionale per cui l’impugnazione statale dovrebbe essere formulata non in termini di “ricorso per conflitto di attribuzione”, bensì in termini di questione di legittimità costituzionale. Ricordando la consolidata giurisprudenza che all’analisi puramente esteriore fondata sull’autoqualificazione dell’atto preferisce l’adozione di criteri sostanziali, la Corte osserva infatti che l’intitolazione dell’atto introduttivo come ricorso per conflitto di attribuzione non osta ad uno scrutinio di merito sulla legittimità costituzionale della deliberazione statutaria della Regione Marche, di cui peraltro l’atto introduttivo medesimo possiede tutte le indicazioni ed i requisiti necessari, come previsti dall’art.33-34 della legge 11 marzo 1953, n.87 e dall’art.123 Cost. (anche in relazione ai termini previsti per il deposito del ricorso). Sempre sotto il profilo procedurale, la Corte respinge anche la seconda eccezione di inammissibilità sollevata dalla Regione, per cui l’impugnazione governativa dovrebbe essere proposta solo successivamente alla promulgazione e pubblicazione della legge statutaria: già nella sentenza n.304 del 2002, la Corte aveva infatti osservato come i termini per promuovere il controllo di legittimità decorrano dalla pubblicazione notiziale della delibera statutaria e non da quella successiva alla promulgazione.
Sotto il profilo del merito, la Corte conferma il divieto per i Consigli regionali di fregiarsi del nomen di Parlamento, già manifestato nella precedente sentenza n. 106 del 2002. Il fatto che la delibera della Regione Marche, a differenza di quella precedentemente esaminata della Regione Liguria, presenti la forma della legge statutaria non vale infatti a modificare i termini della decisione, posto che anche gli statuti regionali sono vincolati al rispetto dell’armonia con la Costituzione, da intendersi come rispetto sia della lettera delle singole prescrizioni costituzionali che dello spirito della Costituzione (sent. n.304 del 2001). Infine, la Corte giudica incostituzionale anche il ricorso alla dizione di “Deputati delle Marche” per denominare i consiglieri regionali: il caso del Consiglio della Regione Sicilia, i cui membri sono identificati con il nome di “deputati”, rappresenta infatti un caso del tutto eccezionale, giustificato per ragioni storiche anche a causa dell’anteriorità dello statuto siciliano alla Costituzione repubblicana. Per tutti questi motivi, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della deliberazione legislativa statutaria della Regione Marche adottata il 25 settembre 2001 e recante “Consiglio regionale – Parlamento delle Marche”.

Giurisprudenza richiamata:

– sull’adozione di criteri sostanziali che prescindano dall’autoqualificazione dell’atto per giudicare la validità di un atto introduttivo: Corte Costituzionale, sentenze n. 15 del 2002; n.363 e n.137 del 2001; n. 420, n.321, n.320, n.82, n.58, n.56, n.11 e n.10 del 2000; ordinanze n.264, n.150 e n.61 del 2000
– sulla decorrenza del termine per la presentazione del giudizio di illegittimità costituzionale dalla pubblicazione notiziale della delibera statutaria, anziché da quella successiva alla promulgazione: Corte Costituzionale, sentenza n.304 del 2002
– sul divieto, imposto dalla Costituzione ai Consigli regionali, di fregiarsi del nome di “Parlamento”: Corte Costituzionale, sentenza n.106 del 2002
– sul significato dell’espressione “armonia con la Costituzione” prevista dall’art.123 Cost.: Corte Costituzionale, sentenza n. 304 del 2002

a cura di Elena Griglio