Il Tribunale di Roma promuove giudizio di legittimità costituzionale avverso l’articolo 3, commi 1, lettera b), e 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), con ordinanze del 14 dicembre 2005, del 1° febbraio, del 18 gennaio, del 1° febbraio, dell’11 e del 3 marzo 2006 e del 4 novembre 2005, rispettivamente iscritte ai nn. 38, 97, 107, 157, 158, 159 e 547 del registro ordinanze 2006.
Tali disposizioni normative prevedono rispettivamente:
– l’art. 3, comma 7, l. n. 145/02, la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali di livello generale al sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della legge stessa;
– l’art. 3, comma 1, lettera b), – modificando l’art. 19, comma 2, d.lgs. n. 165/01 – la riduzione della durata massima degli incarichi dirigenziali in esame da sette a tre anni.
Il giudice a quo ha sostenuto che l’art. 3, comma 7, l. n. 145/02 viola:
– gli artt. 97 e 98 Cost., che delineano “un complessivo statuto del dipendente pubblico sottratto ai condizionamenti politici”. L’art. 3, comma 7, l. 145/02, contempla una forma di risoluzione del rapporto non assistita da alcuna garanzia, si porrebbe dunque in contrasto con quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, che avrebbe “da tempo chiarito che l’applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile, comporta, non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso, ma semplicemente che la valutazione dell’idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo – assistite da un’ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio – a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso” (sentenza n. 313 del 1996);
– gli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., in quanto la norma impugnata, “prevedendo una deroga ingiustificata al principio di stabilità dei contratti di lavoro, sia pubblici sia privati”, contravviene ai “principi della libera esplicazione della personalità professionale sul luogo del lavoro, della libertà negoziale, i quali possono essere sacrificati solo in presenza di doverose e ragionevoli motivazioni”;
– l’art. 3 Cost., laddove la norma prevede “la cessazione dell’incarico ex lege per tutti i dirigenti generali, mentre prevede la conferma automatica per i dirigenti, in caso di mancata tempestiva rotazione degli incarichi, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge n. 145 del 2002”.
Con riferimento all’art. 3, comma 1, lett. b), l.n. 145/02, il giudice a quo ha sostenuto che assumerebbe rilevanza la questione relativa alla legittimità costituzionale della norma in questione nella parte in cui stabilisce il limite massimo triennale di durata degli incarichi in esame, in quanto “tale disposizione, anche se fosse dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 7, della legge citata, comunque impedirebbe il ripristino dei rapporti cessati, proprio a causa della maggiore durata degli incarichi stabilita convenzionalmente”. Il rimettente sottolinea, inoltre, come il quadro normativo abbia subito una ulteriore modifica a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 14-sexies del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, convertito dalla legge 17 agosto 2005, n. 168, il quale ha reintrodotto per gli incarichi in esame una durata minima, fissata in tre anni, e ha aumentato la durata massima a cinque anni. “Tale disposizione non potrebbe trovare applicazione nel caso di specie, né appaiono prospettabili interpretazioni diverse della norma che consentano il riconoscimento al ricorrente della ricostituzione del rapporto in sede di riassegnazione dell’incarico. La norma, infatti, prevede univocamente l’avvicendamento negli incarichi di dirigente generale”.
La Corte Costituzionale:
– dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), nella parte in cui dispone che «i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione»;
– dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, lettera b), e 7 della predetta legge n. 145 del 2002, sollevate dal Tribunale di Roma con le ordinanze numeri 97, 107 e 159 del 2006, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 33, 35, 36, 41, 70, 97, 98 e 113 della Costituzione;
– dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), della predetta legge n. 145 del 2002, sollevate dal Tribunale di Roma con le ordinanze numeri 38, 157, 158 e 547 del 2006, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 70, 97, 98 della Costituzione.
Con riferimento alla dichiarata incostituzionalità dell’art. 3, comma 7, n. 145/02, la Corte Costituzionale ricorda preliminarmente che l’articolo in questione “prevede due diversi meccanismi transitori di incidenza sul rapporto di ufficio, in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa, a seconda che vengano in rilievo incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale o non generale”.
Le censure dei giudici rimettenti si incentrano esclusivamente sulla parte dell’art. 3, comma 7, l. n. 145/02 relativo agli «incarichi di funzione dirigenziale di livello generale», laddove stabilisce che gli stessi cessano automaticamente il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge.
La Corte Costituzionale ribadisce dunque che, ai fini della delimitazione dell’ambito applicativo della normativa impugnata, “la questione proposta non riguarda la posizione dei dirigenti ai quali siano stati conferiti incarichi “apicali”, vale a dire quelli di maggiore coesione con gli organi politici (segretario generale, capo dipartimento e altri equivalenti)”. Le modalità di cessazione di quest’ultimi incarichi sono, infatti, contenute nel comma 8 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, (articolo che è stato oggetto di modifiche da parte della predetta legge n. 145 del 2002).
Nel dichiarare fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, l. n. 145/02, la Corte Costituzionale ripercorre l’evoluzione legislativa della c.d. privatizzazione del pubblico impiego, con particolare riferimento al rapporto tra “politica e amministrazione”, esaminando come sia stata “in concreto regolamentata la relazione tra vertice politico e dirigenti sul piano delle rispettive funzioni e come su di essa abbiano eventualmente inciso la contrattualizzazione del rapporto di servizio, l’introduzione del principio di temporaneità degli incarichi, nonché, infine, la previsione, della cessazione automatica ex lege degli incarichi stessi”.
Il quadro normativo delineatosi nel tempo a seguito del susseguirsi della cd prima e seconda privatizzazione del pubblico impiego, rispettivamente con l. delega n. 421/92 e l. n. 59/97 e successivi decreti delegati, trasfusi nel d.lgs. n. 165 del 2001, ha delineato un modello articolato di regolamentazione della dirigenza.
In particolare la riforma del 1997-1998 (legge delega n. 59/97 e successivi decreti delegati), ha comportato:
– sul piano strutturale, “il completamento dell’attuazione del processo di contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti, introducendo definitivamente il principio della temporaneità degli incarichi connessi al rapporto di ufficio. Si è dunque determinato il definitivo passaggio da una concezione della dirigenza intesa come status, quale momento di sviluppo della carriera dei funzionari pubblici, ad una concezione della stessa dirigenza di tipo funzionale”;
– sul piano delle competenze, si è “abbandonato il modello incentrato esclusivamente sul principio della responsabilità ministeriale, facendo perno sulla “distinzione tra il potere di indirizzo politico-amministrativo e l’attività gestionale svolta dai dirigenti”. Tale netta distinzione ha, “da un lato, ampliato le competenze dirigenziali, l’esercizio delle quali deve essere valutato tenendo conto, in particolare, dei risultati «dell’attività amministrativa e della gestione» (art. 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286); dall’altro lato e conseguentemente, ha comportato un maggiore rigore nell’accertamento della responsabilità dei dirigenti stessi, che presuppone un efficace sistema valutativo in relazione agli obiettivi programmati”.
La prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto stesso (sentenza n. 313 del 1996); se così fosse, è evidente, infatti, “si verrebbe ad instaurare uno stretto legame fiduciario tra le parti, che non consentirebbe ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo e imparziale la propria attività gestoria”.
La Corte Costituzionale specifica che “il rapporto di ufficio, sempre sul piano strutturale, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, deve essere connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongano che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione. Ciò al fine di consentire che il dirigente generale possa espletare la propria attività – nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell’incarico – in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.)”.
In tale prospettiva, è indispensabile, che siano previste “adeguate garanzie procedimentali nella valutazione dei risultati e dell’osservanza delle direttive ministeriali finalizzate alla adozione di un eventuale provvedimento di revoca dell’incarico per accertata responsabilità dirigenziale” (garanzie già positivamente affermate dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 193 del 2002 e nell’ordinanza n. 11 del 2002).
L’art. 3, comma 7, l. n. 145/02 prevedendo un meccanismo (cosiddetto spoils system una tantum) di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge in esame – si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione.
Si determina una “interruzione automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine stabilito”, violando, “in carenza di garanzie procedimentali, gli indicati principi costituzionali e, in particolare, il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa”.
Le recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, hanno, infatti, disegnato un nuovo modulo di azione che misura il rispetto del canone dell’efficacia e dell’efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita. È evidente, dunque, che la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità al modello di azione sopra indicato.
La revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti “può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato (sentenza della Corte Costituzionale n. 193 del 2002)”.