L’art. 86 del Trattato CE: origini e scopi perseguiti

20.07.2001

Introduzione
Il processo di liberalizzazione che, a partire dalla metà degli anni 80, ha guidato, per mano della Commissione, verso il libero mercato concorrenziale i settori pubblici più importanti dei Paesi membri trova la sua origine giuridica in una specifica norma del Trattato, l’art.86 (ex art.90).
L’art. 86 (ex art.90) , inserito nel Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea nel 1957 tra le regole di concorrenza per le imprese, ha rappresentato per anni, e per moltissimi giuristi, una norma di difficile interpretazione e di ancor più complessa applicazione. La sua struttura, la terminologia adoperata, i diversi destinatari dei suoi tre paragrafi così come gli scopi e le finalità perseguite ne hanno praticamente reso impossibile una definizione univoca a livello comunitario. Esso è così rimasto lettera morta nel Trattato per quasi trent’anni, come in stato di ibernazione e in attesa di essere “scoperto” e applicato.
Oggi, a distanza di più di 40 anni, è diventato invece un importantissimo strumento di liberalizzazione e di controllo della trasparenza delle relazioni tra Stato e imprese. Il merito di ciò spetta alla Commissione europea, vero artefice del processo di liberalizzazione dei servizi pubblici in Europa.
Nel corso degli anni 80/90 la Commissione ha fatto largo uso, specialmente nel settore delle telecomunicazioni, dell’art.86, di volta in volta applicato congiuntamente con altre norme del Trattato in grado di ampliarne la portata. In particolare l’applicazione congiunta dell’art.86 (ex art. 90) con l’art.82 (ex art. 86) ha avuto come effetto di creare una sorta di norma “nuova” capace di sanzionare e disciplinare i comportamenti anticoncorrenziali tenuti non dalle imprese, cui l’art. 82 è rivolto, ma bensì dagli Stati. È infatti noto che le norme riguardanti il comportamento degli Stati trovano collocazione negli artt. 28 e seguenti.
Poter colpire comportamenti anticoncorrenziali tenuti da imprese ma direttamente o indirettamente riconducibili ad uno Stato ha permesso alla Commissione di poter vigilare ed intervenire con decisione per porre fine a violazioni di norme del Trattato e per spezzare le “forti catene” che legavano importanti settori economici europei ad apparati pubblici poco efficienti e per nulla competitivi.
L’analisi dei tre paragrafi dell’art. 86 (ex art. 90) richiede innanzitutto una breve elencazione sia delle ragioni che hanno indotto gli autori del Trattato a prevedere siffatta norma sia di quelle che ne hanno causato un così lungo abbandono.

Le origini storiche dell’art. 86
Dopo la Seconda guerra mondiale la ricostruzione economica in Europa ha proceduto a ritmi molto elevati, soprattutto nel decennio 50/60, grazie anche agli ingenti capitali provenienti dall’ERP (European Recovery Program). La CEE, nata sia come strumento economico in grado di incanalare nel miglior modo possibile le risorse disponibili sia come elemento aggregante per le economie europee, ha inevitabilmente risentito nella sua struttura codificata di questo particolare momento storico.
I 6 governi nazionali (Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo), fondatori della CEE, si impegnarono direttamente in campo economico per orientare e dirigere la ricostruzione e lo sviluppo industriale. Lo strumento principe di questo processo fu la creazione di grandi monopoli pubblici e privati in tutti i settori di rilevante interesse nazionale (ad esempio la Sip in Italia). In questo contesto di rapida trasformazione e crescita socio-economico va collocato il lavoro di stesura dell’art. 86 (ex art. 90).
Uno dei problemi più importanti da risolvere riguardava la disciplina della concorrenza tra le imprese, sia pubbliche che private. Appariva infatti prioritaria la necessità di garantire una piena e completa concorrenza tra imprese appartenenti a Stati diversi, non falsata da trucchi o scappatoie di alcun genere e soprattutto al riparo dagli innumerevoli strumenti protezionistici a disposizione di ogni Stato. La risoluzione di questo problema rappresenta il cuore dell’art.86 e ne spiega la ragion d’essere.
Le norme sulla concorrenza che si ritrovano nel Trattato sono rivolte esclusivamente e direttamente alle imprese e non agli Stati membri (articoli da 81 a 89), per questi ultimi è prevista invece una regolamentazione “ad hoc” in un’altra sezione del Trattato (art. 28 e seguenti). Nella preoccupazione di tutelare il più possibile la concorrenza tra imprese comunitarie – sia pubbliche che private – gli estensori del Trattato si resero conto che né la regolamentazione rivolta alle imprese né quella rivolta esclusivamente agli Stati sarebbe stata utile per regolamentare la particolare categoria di soggetti economici costituita dalle “imprese pubbliche”.
L’impresa pubblica infatti rappresenta un ibrido tra impresa privata ed ente pubblico, una sorta di “tertium genus”. Dal primo trae l’autonomia gestionale che le è necessaria per raggiungere gli scopi prefissati, dal secondo invece trae le caratteristiche proprie dell’apparato statale quali la struttura gerarchica interna, le linee guida fissate da organi pubblici, la nomina dei vertici ecc…
Proprio per evitare che le imprese pubbliche, per la loro dicotomica natura, potessero sfuggire sia alle regole rivolte agli Stati, attraverso la presunta autonomia gestionale di cui godono, sia alle regole direttamente indirizzate alle imprese “tout court”, attraverso l’indiretta imputabilità agli Stati delle loro azioni, si decise di “costruire”, una norma in grado di disciplinare l’enorme area grigia costituita dagli innumerevoli interessi statali in campo economico.
L’art.86 è stato dotato di una struttura molto articolata proprio per non lasciare spazi di incertezza o scappatoie giuridiche sia agli Stati che alle imprese. Si vedrà tuttavia che alle intenzioni degli estensori del Trattato non sono però seguiti, almeno fino agli anni 80, i risultati che ci si era prefissati nel 1957, cioè evitare una crescita abnorme dei monopoli nazionali con conseguenti distorsioni per la concorrenza comunitaria.
Le ragioni di ciò, a causa della loro complessità, non saranno oggetto di questo articolo, è tuttavia sufficiente ricordare che soltanto con le prime liberalizzazioni degli anni 80, opera della Commissione europea e dell’art. 86, si è assistito a un progressivo abbattimento dei principali monopoli nazionali, soprattutto nel settore dei grandi servizi pubblici (telecomunicazioni in primis, servizi postali, trasporti, gas, energia elettrica) e ad una conseguente riduzione di costi e tariffe a carico degli utenti oltre che di un generale miglioramento del servizio offerto.

Struttura dell’art. 86 (ex art. 90)
L’art. 86 (ex art. 90) è formato da tre paragrafi, ognuno rivolto ad un soggetto differente. Ne verrà data qui una breve presentazione.

Art.86.1
Il primo paragrafo dell’art. 86 è così formulato:
“Gli Stati membri non emanano ne mantengono, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme del presente trattato, specialmente a quelle contemplate dagli articoli 12 e da 81 a 89 inclusi”.
La sua formulazione appare subito complessa. La dottrina più autorevole, al riguardo, non ha mancato di sottolinearne la “claire obscurité” o “the serious interpretative difficulties” che essa ha sollevato nel corso degli anni.
L’art. 86.1 (ex art. 90.1), e più in generale tutto l’art. 86 (ex art. 90), è rimasto infatti sostanzialmente inapplicato per un lunghissimo periodo di tempo . Una delle ragioni di ciò è dovuta probabilmente anche al fatto che la Commissione ha inizialmente concentrato il proprio impegno di interpretazione e controllo sulle regole basilari relative al mercato interno – le quattro libertà fondamentali e le regole di concorrenza -, che peraltro, proprio in virtù del rinvio contenuto nell’art. 86, concretizzavano i contenuti precettivi anche di quest’ultimo. Un’attenzione particolare è stata, di necessità, dedicata a chiarire e rafforzare gli articoli 85 e 86 (ora articoli 81 e 82), riguardanti le regole di concorrenza applicabili alle imprese, attraverso l’adozione di numerosi regolamenti e lo sviluppo di una significativa prassi amministrativa. Nelle poche iniziali occasioni in cui l’art. 90 è venuto all’attenzione infatti la Commissione o ne ha escluso l’applicabilità al caso di specie o ha fornito solo generiche indicazioni su come esso dovesse essere interpretato . Ma l’altro ostacolo alla sua applicazione, riguarda la terminologia utilizzata e il significato complessivo della norma nei confronti dello Stato e delle imprese, sia pubbliche che private che godono di diritti speciali o esclusivi, nel contesto dell’ordinamento comunitario. Per questa ragione una breve analisi letterale appare imprescindibile ai fini della comprensione del significato complessivo della norma.
La prima questione da affrontare riguarda il significato del termine “Stati membri” dato che a questa categoria possono associarsi una pluralità di soggetti, anche molto diversi tra loro.
Il soggetto pubblico “Stato” cui fa riferimento l’art. 86.1 è da intendersi nel senso che ad esso è di norma attribuito dal Trattato: esso è composto non solo dall’apparato centrale e da tutte le autorità e poteri pubblici a livello nazionale ma anche dalle sue articolazioni territoriali e operative, da tutti gli organismi, gli enti, le associazioni, gli uffici o le persone che in qualche modo possono essere collegate, direttamente o indirettamente, ad una funzione pubblica.
L’art. 86.1 contiene poi un obbligo per gli Stati e cioè il divieto di “emanare o mantenere in vigore” misure contrarie alle norme del Trattato nei confronti delle imprese pubbliche o alle quali essi riconoscono diritti speciali o esclusivi. I doveri per gli Stati membri sembrano dunque essere due: il primo, “non emanare nuove misure contrarie al Trattato” è un dovere di non fare e cioè di non adottare nuove misure, mentre il secondo, “non mantenere in vigore tali misure”, è un obbligo di fare, per cui lo Stato deve vigilare affinché all’interno del proprio ordinamento giuridico non rimangano in vigore le misure esistenti in contrasto con le norme del Trattato.
Il primo di questi due doveri è una sorta di clausola di “stand still” con cui il legislatore comunitario ha cercato di porre dei paletti alla crescita dell’intervento pubblico in campo economico. Il principio per cui non si possono emanare nuove misure nei confronti delle imprese citate tuttavia non pregiudica affatto la possibilità per gli Stati di creare nuovi monopoli. L’art. 31 (ex art. 37) del Trattato infatti non vieta tale possibilità.
Più complessa la situazione invece per quanto riguarda il secondo obbligo, cioè quello di non mantenere in vigore misure contrarie al Trattato nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese private titolari di diritti speciali o esclusivi. Questo obbligo di fare, contrariamente al primo, comporterebbe cioè l’illegittimità di ogni situazione già esistente in contrasto con le disposizioni del Trattato.
Oltre agli Stati membri, il testo dell’art. 86.1 fa anche riferimento alle imprese pubbliche, di cui è già stato accennato precedentemente, e alle imprese titolari di diritti speciali o esclusivi. Di quest’ultima categoria di imprese non si trova nessuna definizione all’interno del Trattato. Ciò ha portato nel corso degli anni a problemi di interpretazione rilevanti, soprattutto riguardo la differenza tra diritto esclusivo e diritto speciale.
Una prima definizione è stata data dalla Corte nel caso British Telecom C-302/94 del 12/12/96 in cui si afferma che:
“Sono diritti esclusivi o speciali, i diritti conferiti da una autorità di uno Stato membro ad una impresa, o ad un numero limitato di imprese, e che incidono in modo sostanziale sulla capacità di altre imprese di stabilire o di sfruttare reti di telecomunicazione o di fornire servizi sullo stesso territorio in condizioni sostanzialmente equivalenti”
Essa non è però sufficiente ad distinguere l’ulteriore categoria dei diritti speciali. Questa differenza è stata individuata e definita, per la prima volta, in una Direttiva della Commissione riguardante il mercato degli apparecchi di telecomunicazione. La Direttiva definisce il diritto esclusivo:
“…il diritto che è concesso da uno Stato ad una impresa attraverso ogni misura legislativa, amministrativa o regolamentare, che riservi ad essa il diritto di esercitare un servizio di telecomunicazioni o di intraprendere una attività all’interno di una determinata aera geografica”
e il diritto speciale:
“…un diritto concesso da uno Stato membro ad un numero limitato di imprese mediante ogni strumento legislativo, regolamentare o amministrativo che, all’interno di una determinata area geografica, limita a due o più il numero di dette imprese, sulla base di criteri non aventi caratteristiche di obiettività, proporzionalità e non discriminazione, o designa, non conformandosi a tali criteri, numerose imprese in concorrenza, o conferisce a ciascuna impresa, non conformandosi a detti criteri, vantaggi legali o regolamentari che influiscono sostanzialmente sulla capacità di qualsiasi altra impresa di impegnarsi in una delle attività (rilevanti) nella stessa area geografica in condizioni sostanzialmente equivalenti” .
I diritti esclusivi o speciali , concessi alle imprese, cui fa riferimento il primo paragrafo dell’art. 86 (ex art. 90) sono frutto di una concessione fatta dallo Stato con un atto formale preciso e specificamente riferito ad uno o più soggetti determinati .
Tuttavia nel panorama comunitario esistono alcuni diritti esclusivi la cui origine non è sempre evidentemente riconducibile a precise e dirette misure statali poiché, a volte, o sono il risultato indiretto di altre misure o sono creati attraverso misure statali che si presentano come “concessione”, “autorizzazione” o “licenza”, senza riferimenti espressi a regimi di “monopolio” o a “diritti esclusivi”. Ad esempio uno Stato può imporre alle imprese di un determinato settore di rifornirsi esclusivamente da una singola impresa specifica. In questo caso tale impresa fornitrice non è formalmente titolare di un diritto esclusivo ma l’effetto sul mercato è comparabile a quello che avrebbe un monopolio.
Questo esercizio di definizione, centrato sull’origine statuale della misura e sul suo effetto giuridico e sostanziale, senza ricorso a locuzioni tipiche (es. “concessioni”), è necessario per evitare equivoci che potrebbero derivare dall’assunzione di termini che hanno negli ordinamenti nazionali significati non univoci.
L’art. 86.1 parla, in tal senso, di “misure”, intendendo ogni atto, decisione, regolamento o comportamento, sia diretto che indiretto, senza requisiti necessari di carattere formale.
Anche in questo caso, il ricorso al termine “misura”, tanto indeterminato quanto ampio, ha lo scopo, voluto dagli autori del Trattato, di impedire agli Stati membri di utilizzare variazioni terminologiche per eludere le norme ad essi rivolte.

Art. 86.2 (ex art. 90.2)
L’art. 86.2 stabilisce che:
“Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del presente trattato, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità”.
A differenza del primo, il secondo paragrafo dell’art. 86.2 è rivolto ad una particolare categoria di imprese e cioè a quelle incaricate della gestione di un servizio di interesse economico generale.
La struttura di questo secondo paragrafo è complessa. Per identificarne alcuni punti cardine, utili ad introdurre l’analisi svolta nel Capitolo Terzo, si richiama una interpretazione di Mattera del 1970:
“Les dispositions de ce paragraphe :
réaffirment un principe général : les entreprises (publiques) chargées de services d’intérêt économique général ou présentant le caractére d’un monopole fiscal doivent respecter les règles du Traité… ;
établissent une exception : le respect de ces régles ne fait pas obstacle aux mesures nécessaires pour l’accomplissement des tâches propres aux entreprises en question ;
limitent la portée de cette exception : les mesures prises ne doivent pas affecter le développement des échanges dans une mesure contraire à l’intérêt de la Communauté “.
Alla luce di quanto sopra, non sarebbe dunque esatto affermare che le regole di questo secondo paragrafo costituiscono una eccezione al principio generale prescritto nel primo paragrafo. Sempre secondo Mattera infatti:
“Affirmer que les règles du par.2 de l’art. 90 n’ont comme destinataires que les Etats, reviendrait à vider ces régles de tout contenu, puisque les obligations de respecter les dispositions des art.7, 85 et suivants, ou celles des art. 30 et suivants, découlent de ces même dispositions dont la force juridique contraignante ne nécessite aucun soutien”.
Al contrario, l’interpretazione secondo cui i destinatari degli obblighi dell’art. 86.2 (ex art. 90.2) sono le imprese trova la sua giustificazione nel dettato letterale, e la sua ragion d’essere nel fatto che gli autori del Trattato hanno voluto, con questo articolo, evitare la creazione vuoti normativi nella realizzazione degli obiettivi fondamentali del Trattato.
Infatti, se non ci si fosse preoccupati di inquadrare, all’interno del sistema normativo, anche la categoria di imprese incaricate di gestire servizi di interesse economico generale (come il servizio postale, i trasporti, le telecomunicazioni o la fornitura del gas e dell’energia elettrica) sarebbe stato compromesso il perseguimento degli obiettivi fondamentali del Trattato e si sarebbe sicuramente favorita la corsa alla chiusura dei mercati nazionali in nome della necessità di fornire un servizio pubblico essenziale alla collettività.
L’art. 86.2, quindi, riconosce la potestà degli Stati di disciplinare e organizzare in autonomia i servizi pubblici di carattere commerciale, ma stabilisce una ulteriore regola di raccordo con gli obblighi comunitari secondo cui le imprese a ciò consacrate sono tenute al rispetto di tutti gli obblighi che discendono dal Trattato, salvo che la missione di servizio pubblico ad esse affidata esiga particolari deroghe. Va detto che l’aspetto dell’applicazione a tali imprese delle norme del Trattato sulla libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali è stato in realtà poco approfondito e raramente oggetto di esame della Corte. Più frequentemente l’art. 86.2 è stato applicato “in congiunzione con il paragrafo 1”, per verificare se la missione specifica di servizio pubblico potesse giustificare il mantenimento, nei confronti delle imprese incaricate di tali servizi (che sono normalmente imprese pubbliche o titolari di esclusive o riserve), di “misure” statali altrimenti incompatibili ai sensi dell’art. 86.1.
Si è obiettato che sarebbe assurdo sottomettere le imprese che gestiscono un servizio di interesse economico generale a regole ancora più restrittive di quelle imposte alle imprese private o agli Stati. A questo riguardo va detto però che se, da un lato, queste imprese sono obbligate a rispettare tutte le norme del Trattato, ed in particolare quelle sulla concorrenza, dall’altro lato questi stessi obblighi sono suscettibili di larghe possibilità di eccezioni che ne limitano considerevolmente la portata e l’estensione. La nozione di “servizio di interesse economico generale”, come si vedrà successivamente, è di accezione necessariamente ampia.
A porre un limite o una sfera massima di estensione al regime speciale di cui potrebbero godere tali imprese interviene il disposto dell’ultima frase dell’art. 86.2:
“lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità”.
Questa “precisazione”, che il legislatore comunitario ha voluto inserire alla fine del secondo paragrafo, contiene un “une double limite”, infatti da una parte è soltanto uno degli interessi della Comunità ad essere tutelato (lo sviluppo degli scambi) dall’altro, lo stesso sviluppo degli scambi è protetto nella misura in cui l’applicazione di tali eccezioni non provochi un pregiudizio agli “interessi della Comunità”. Tuttavia ciò implica, come conseguenza, la possibilità di compromettere lo sviluppo degli scambi in una misura non contraria agli interessi della Comunità.
Mattera conclude il suo assunto affermando che:
“l’obligation imposée par l’art. 90.2 (ora art. 86.2), aussi générale qu’elle puisse apparaître, est cependant assortie de trés larges possibilités d’exceptions bien qu’un des objectifs fondamentaux de la Communauté, la liberté des échanges, soit affectée”.
E questo non è il caso, né delle regole sulla concorrenza né di quelle sulla libera circolazione delle merci le quali, come è noto, sono sottoposte ad un regime derogatorio rigido ed espressamente previsto da precise norme del Trattato (l’art. 30, ex art. 36).
Come mai allora gli autori del Trattato hanno scelto di sottomettere le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale a obblighi di carattere così ampio, le cui eccezioni sono però di più difficile identificazione rispetto al resto del Trattato?
La risposta a questa domanda si trova nella particolare missione che le suddette imprese devono assolvere.
I servizi di interesse economico generale rappresentano, infatti, una area di rilevante peso economico, stimato attualmente pari, a livello comunitario, al 9% dell’impiego totale, l’11% delle attività economiche non agricole e destinataria del 16% degli investimenti comunitari totali . D’altra parte essi perseguono finalità sociali di primaria importanza, che sono nella responsabilità degli Stati e rispondono ai diversi bisogni, sensibilità, livelli di sviluppo delle collettività nazionali o regionali.
Proprio per questa loro duplice natura, il legislatore comunitario ha deciso di lasciare spazio ad un regime “ad hoc” che, se da un lato, come si è visto, permette una maggiore flessibilità e un più ampio spazio interpretativo, dall’altro, può essere applicato soltanto attraverso l’adozione di direttive o decisioni, secondo quanto previsto dal terzo paragrafo dello stesso art. 86.
Infatti, per quanto riguarda l’applicazione delle eccezioni, un regime derogatorio rigido e preciso avrebbe precluso la possibilità alla Comunità di adeguarsi all’evoluzione che il concetto di servizio di interesse economico generale ha subito nel corso degli ultimi 40 anni. Basti pensare ad esempio alle telecomunicazioni, considerate per lungo tempo un servizio di interesse economico generale e pertanto giustamente sottratto alla concorrenza, e che, con lo sviluppo di nuove tecnologie, alla fine è stato quasi interamente liberalizzato e aperto alle regole del mercato.
L’art. 86.2 però non è direttamente applicabile, anche se in determinati casi sembra possa essere impiegato direttamente dalle Corti nazionali (la Corte di Giustizia ha dato parere favorevole al riguardo ma rimangono ancora molte incertezze). Per la sua applicazione è infatti necessario ricorrere a quanto stabilito nel terzo paragrafo dello stesso articolo e cioè al potere della Commissione di rivolgere, ove necessario opportune direttive o decisioni agli Stati membri.
La ragione della subordinazione a strumenti giuridici formali per l’applicazione dell’art. 86.2 è una ragione di opportunità.
Se si fosse lasciata agli Stati membri la libertà diretta di decidere in quali casi applicare le eccezioni contenute nell’art. 86.2 per salvaguardare le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale, si sarebbe in pratica lasciata aperta nel Trattato una falla di tali proporzioni da compromettere seriamente il raggiungimento degli scopi perseguiti in ambito concorrenziale.
Con il potere di decidere in quali circostanze applicare le eccezioni contenute nell’art. 86.2, la Commissione ha invece, poco a poco, “eroso” il potere degli Stati membri di creare o riconoscere servizi di interesse economico generale e, in tal modo, ha “traghettato”, in modo progressivo e non traumatico, la maggior parte di tali servizi verso l’apertura all’economia di mercato concorrenziale e con risultati complessivamente positivi, tali da superare le obiezioni e i timori di quanti invece, fin dall’inizio, si erano opposti a tale progetto.

Art. 86.3 (ex art. 90.3)
Il terzo paragrafo chiude l’art. 86 nel seguente modo:
“La Commissione vigila sull’applicazione delle disposizioni del presente articolo rivolgendo, ove occorra, agli Stati membri, opportune direttive o decisioni”.
Il terzo paragrafo è esclusivamente rivolto alla Commissione ed offre ad essa gli strumenti per l’applicazione delle regole prescritte dai primi due paragrafi.
La Commissione ha quindi due compiti precisi:
1) vigilare sull’applicazione delle norme dell’art. 86
2) rivolgere agli Stati, ove necessario, opportune direttive e decisioni
La funzione di vigilanza permette, innanzitutto, alla Commissione di “prevenire” la violazione delle disposizioni dell’art. 86 (ex art. 90), le conferisce quindi il potere, sia di raccogliere tutte le informazioni che le sono necessarie a tale scopo, sia di formulare “raccomandazioni” e “avvisi” agli Stati membri per metterli in guardia circa i comportamenti da loro tenuti nei confronti delle loro imprese, e ciò in base ad una applicazione congiunta degli articoli 86.2 e 211 (ex articoli 90.2 e 155 del Trattato).
Tuttavia, la rilevanza economica dei settori interessati dall’art. 86 e la necessità di procedere alla liberalizzazione degli scambi in un contesto ancora sottratto, in molti casi, al libero gioco della concorrenza comunitaria, ha suggerito agli estensori la previsione di strumenti giuridici più incisivi. Le direttive e le decisioni sono gli strumenti che gli autori del Trattato hanno messo a disposizione della Commissione.
Queste direttive o decisioni possono avere come scopo di:
1) prescrivere la soppressione di una o più infrazioni effettivamente commesse o di
2) prescrivere il divieto di una o più infrazioni-tipo dell’art. 86.
La possibilità per la Commissione di adottare direttive e decisioni in modo autonomo garantisce, da un lato, una azione penetrante nei confronti degli Stati membri e, dall’altro, tempi di attuazione decisamene più veloci rispetto alla procedura ordinaria che fa capo all’adozione da parte del Consiglio.
Il potere di emanare atti che obbligano immediatamente gli Stati membri a conformarsi alle disposizioni dell’autorità di controllo, cioè la Commissione, costituisce un formidabile strumento giuridico che gli autori del Trattato hanno deciso di introdurre nell’art. 86 al fine di garantirne l’integrale applicazione. In tal senso, il potere della Commissione ai sensi dell’art. 86.3 è più incisivo di quello generale di cui essa dispone in virtù dell’art.226 (ex art169) in materia di inadempimento. L’aspetto rilevante, tuttavia, non è rappresentato dall’intensità di questo potere di controllo nell’espletamento della funzione di organo di vigilanza in materia di concorrenza ; ciò che rileva è che, in forza dell’art. 86.3, la Commissione beneficia di un potere più esteso per porre termine a infrazioni che, se commesse dagli Stati al di fuori delle loro relazioni con le imprese pubbliche, subirebbero la più lenta e meno efficace procedura stabilita dall’art.226 (ex art. 169).

Conclusioni
I meriti dell’art. 86 (ex art. 90), e della Commissione che ne è stata attenta esecutrice, sono molti. Innanzitutto quello di avere dato una prima energica spallata ad uno dei monopoli nazionali che più degli altri necessitava di essere aperto alla concorrenza, le telecomunicazioni.
Il settore delle telecomunicazioni in Europa, all’inizio degli anni 80 attraversava una fase di rapido sviluppo tecnologico e commerciale. I monopoli nazionali, in questo contesto di cambiamento non erano più in grado di garantire il necessario adeguamento tecnologico e tariffario che il mercato era maturo per affrontare. La Commissione europea, dopo una fase di studio iniziata già alla fine degli anni 70, intervenne con la, ormai storica, Direttiva 88/301 del 16 maggio 1988 sulla competizione nel mercato delle apparecchiature terminali di telecomunicazioni, seguita l’anno successivo dalla Direttiva 90/388 CEE del 28 giugno 1990 relativa alla concorrenza nel mercato dei servizi di telecomunicazioni, entrambe basate sui poteri conferiti alla Commissione dall’art. 86.3 (ex art. 90.3). Gli Stati membri, Francia in testa, si opposero fermamente all’iniziativa della Commissione certi che se fosse passato il principio sancito da tali direttive si sarebbe aperta la strada per la liberalizzazione di tutti gli altri settori sottratti alla concorrenza comunitaria. La Corte di Giustizia diede loro torto nella sentenza “Terminali di telecomunicazioni” (C-202/88 Apparecchiature Terminali di telecomunicazione, 1991). Da quel momento, pur tra alterni momenti, il processo di liberalizzazione ha proceduto a ritmo costante, almeno fino alla seconda metà degli anni 90, consegnando al mercato importanti fette di settori prima sottoposti a regime di monopolio pubblico.
Tuttavia, l’importanza che ha avuto l’art. 86 all’inizio del processo di liberalizzazione è oggi mitigata da una nuova tendenza in atto presso la Commissione europea, quella di procedere attraverso strumenti legislativi che rendano la partecipazione degli Stati molto più attiva. L’art. 86 da infatti alla Commissione il potere di emanare direttive e decisioni per la realizzazione degli scopi in esso previsti senza bisogno di attivare la normale, e più lenta, procedura che coinvolge anche il Consiglio e il Parlamento europeo.
È evidente che il compito di modificare così in profondità la struttura dei mercati nazionali non può essere realizzato mediante atti di forza della Commissione ma deve necessariamente trovare il più ampio consenso possibile tra gli attori che dovranno poi subirne gli effetti. Per questa ragione, una volta iniziato il lungo processo di liberalizzazione, che già tanti risultati sta dando, è importante che pur tra polemiche e ripensamenti parziali (la Francia è un ottimo esempio) si proceda in modo democratico verso l’apertura totale dei mercati nazionali alla concorrenza comunitaria.
In questo contesto ridisegnare un nuovo ruolo per l’art. 86 appare imprescindibile, da strumento di liberalizzazione esso può diventare sia strumento di impulso e indirizzo per gli Stati, il Parlamento e il Consiglio sia strumento di controllo e pressione in caso di inattività da parte del Consiglio stesso.

di Antonio Barreca