L’incontro tra operatori privati e servizio pubblico

25.06.2002

Intervista sulla privatizzazione della Rai di ‘Il diritto di tutti’ a Giuseppe Di Gaspare, professore ordinario di Diritto pubblico dell’economia presso la facoltà di scienze politiche della Luiss – Guido Carli di Roma.

D: Quali sono le ragioni a favore della privatizzazione della Rai?

Il dibattito fra favorevoli e contrari alla privatizzazione della Rai deve essere, a mio avviso, osservato da un ottica diversa. Domandandoci, piuttosto, se ancora oggi sussiste una ragione d’essere del servizio pubblico radiotelevisivo e se il servizio pubblico non possa essere esplicato in modo diverso. Nella risposta a queste domande risiede l’indicazione dell’opportunità della privatizzazione della Rai.

D: Cosa é il servizio pubblico radiotelevisivo?

L’Italia è stata caratterizzata da un servizio pubblico radiotelevisivo, basato sul concetto di monopolio naturale. Partendo dal presupposto che le frequenze radiotelevisive sono limitate, il servizio pubblico si é fatto garante della neutralità del servizio e tutore del pluralismo informativo, rispetto al rischio di una sudditanza ad interessi particolari, legati ad un monopolio privato.

Il pluralismo informativo consisteva nel dare accesso al servizio pubblico di comunicazione radiotelevisiva a tutte le componenti sociali, culturali e politiche del paese. Tale funzione esclusiva di garanzia del pluralismo in realtà é oggi contraddetta dalla presenza di una pluralità di operatori del mercato radiotelevisivo, i quali possono anch’essi farsi veicolo di pluralismo.

Inoltre é noto il rischio che il sistema di tutela del pluralismo garantito da un servizio pubblico diventi vittima di valutazioni discrezionali di carattere politico e possa portare a spartizioni e lottizzazioni .

D: E’ finita quindi l’era del servizio pubblico garantito dallo Stato?

Le ragioni tradizionali del servizio pubblico, come ho già avuto modi di affermare, sono venute meno. Se consideriamo l’attuale assetto del sistema radiotelevisivo italiano, si possono trarre due conclusioni principali.

Da un lato c’é un esigenza unanimemente condivisa di un miglioramento del livello qualitativo della programmazione offerta dalle nostre televisioni, pubbliche e private. Dall’altro lato sussiste un sistema di mercato oligopolistico che é condizionato nell’accesso da riconoscimento di diritti speciali e di esclusiva le concessioni rappresentano in questo senso delle barriere amministrative peraltro necessarie.

La constatazione che ci troviamo di fronte ad un livello qualitativo basso e ad un mercato controllato conduce, a mio avviso, alla conclusione che il servizio pubblico non debba essere esclusivo appannaggio di un soggetto dedicato come la Rai. Alcuni elementi del servizio pubblico universale possano essere richiesti a tutti i concessionari, per il fatto stesso che questi soggetti operano utilizzando dei diritti di esclusiva concessi da parte dello Stato. Lo Stato quindi potrebbe richiedere agli operatori, attraverso un contratto di servizio i carattere generale (ndr, il contratto di servizio, istituito per la Rai dalla legge n. 206 del 1993 e modificato dalla legge n.650 del 1996, riguarda obblighi particolari a carico della concessionaria pubblica), che inseriscano nel loro palinsesto televisivo determinati spazi dedicati alla cultura, all’informazione, alla formazione, alla scienza e all’accesso. Questi sono i cinque grandi capitoli che potrebbero essere introdotti, attraverso il contratto di servizio, vincolando i concessionari privati a dedicare alcune ore della programmazione a questa tipologia di programmi.

D: Entro quali limiti e condizioni gli operatori privati dovrebbero esplicare il servizio pubblico?

Le ore dedicate a tale programmazione definita come servizio pubblico, dovrebbero ovviamente essere inserite in fasce orarie con audience rilevanti e non relegati alle ore notturne, adempiendo in maniera solo formale al contratto di servizio.

Questo meccanismo induce una competizione tra operatori su programmi ad elevato livello culturale.

Non si dovrà definire, con valutazioni di carattere pubblicistico invasivi e limitanti la libertà d’espressione, cosa é culturale e cosa non lo é; cosa possiede qualità e cosa no; o cosa é informativo e cosa non lo é. Piuttosto si dovrà definire ciò che non é culturale. Ad esempio si potrà determinare che un talk-show non é un programma culturale, come non lo sono un gioco a quiz o l’intrattenimento musicale del cabaret serale.

Una volta posti questi paletti si induce tutto il settore della radiotelevisione a mettersi in concorrenza su dei mercati nuovi, quelli della televisione di servizio e di qualità. Questo tipo di programmazione culturale o scientifica potrebbe allo stesso modo richiamare e trainare un tipo di pubblicità legata alla cultura, all’editoria o al turismo culturale alla salute, al benessere fisico e psicologico creando un indotto pubblicitario anch’esso di maggiore qualità non collegato solo alla promozione del consumo di prodotti di largo consumo.

Solo in un contesto di questo tipo si potrebbe parlare di privatizzazione della Rai in cui il servizio pubblico radio-televisivo diviene un servizio universale e può anzi deve essere assicurato da tutti gli operatori del settore che agiscono come concessionari.

Naturalmente tale modalità di fornitura del servizio pubblico radio-televisivo, dovrà essere sottoposta regole di carattere generale che prevedano necessariamente l’ inserimento di determinati programmi, aventi contenuti culturali, scientifici, formativi o informativi. Allo stesso tempo i concessionari privati, chiamati a fornire il servizio pubblico radio-televisivo, dovranno garantire il diritto all’accesso, inteso in termini di un contraddittorio e non solo di rettifica sui contenuti dei programmi. Ad esempio se in un programma viene contenuta una affermazione ritenuta non veritiera o parziale e forviante il soggetto che la confuta deve avere il diritto di segnalare il documento ( giornale, sito internet, altra tele,) ove le sue argomentazioni possono essere reperite. Un diritto di replica più efficace dovrà essere garantito per il pluralismo informativo politico .

Il processo di riorganizzazione del servizio pubblico radio-televisivo dovrebbe pertanto essere basato su di un sistema di obblighi di servizio universale imposti ai concessionari. La Rai dovrebbe in prospettiva trasformarsi in un concessionario o una pluralità di concessionari, se si intendesse ridurre la concentrazione proprietaria nel settore. Bisognerebbe pertanto ipotizzare un processo di transizione che consenta una riconversione ed una ristrutturazione industriale. Si tratta di un normale processo di ristrutturazione che normalmente è riconosciuto alle imprese in posizione di monopolio e in mano pubblica per consentirne un efficiente ma non traumatico ingresso nel mercato.

D: In tale processo di privatizzazione della Rai che fine farebbe il canone?

Uno strumento di particolare importanza per operare tale trasformazione è, a mio avviso, proprio il canone, che dovrebbe essere mantenuto non solo a carico degli abbonati Rai, ma su tutti gli utenti dei servizi radio-televisivi. Gli introiti provenienti dal canone dovrebbero essere utilizzati, oltre che in via transitoria per la riconversione delle Rai, per sostenere nel lungo periodo la programmazione di servizio pubblico fornita da tutti gli operatori privati concessionari attraverso il finanziamento ex post di prodotti di qualità,nel rispetto ovviamente delle regole d concorrenza comunitarie . Questi tipo di premio alla produzione non dovrebbe essere aggiudicato però come un concorso con giudizi comunque opinabili ma attraverso il riconoscimento di performances di mercato ( audience, share)

Altrimenti detto ,per aggiudicarsi questo questa forma di finanziamento n dovrà operare nessuna commissione per definire il livello di qualità – come un concorso letterario – ma riconosciuto il carattere culturale, scientifico, informativo, formativo del programma la produzione qualitativa dovrà essere finanziata attraverso meccanismi automatici di merito, come ad esempio l’incremento dell’audience proprio durante la programmazione di tipo culturale, rispetto a quella media della stessa televisione nella stessa ora. La regolamentazione dovrebbe poi sempre in termini generali favorire le reti televisive meno invitanti per l’offerta pubblicitaria – a rischio cioè di emarginazione –

Bisogna comunque evitare, una volta esclusi i quiz, le televendite, i serial, talk show e simili, che si possa sindacare su cosa sia culturale e cosa sia semplice intrattenimento, in quanto si corre il rischio di imporre, in maniera impropria, la cultura per decreto.

D: Chi dovrebbe vigilare sull’adempimento del contratto di servizio?

Un ruolo può essere sicuramente attribuito all’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni, ma tale potere dovrà essere sicuramente poco discrezionale, poiché il contratto di servizio dovrà imporre solo che ci siano dei programmi che non abbiano un certi contenuti in certe fasce orarie lasciando spazio alla programmazione culturale. Stabilendo un criterio negativo, che non lasci un’eccessiva e pericolosa discrezionalità sulla scelta dei contenuti e sulla decisione di cosa sia culturale. Il livello qualitativo della programmazione dovrebbe poi essere positivamente influenzato dalla competizione tra i vari operatori, nel nuovo mercato televisivo dell’informazione culturale e scientifica.

Anche l’Autorità per la Concorrenza potrebbe avere delle competenze nel vigilare che non ci siano delle pratiche concordate per emarginare la concorrenza nei nuovi mercati informativi e culturali televisivi.

D: La Rai oggi raggiunge con il suo segnale zone poco redditizie perché scarsamente popolate. Cosa dovrebbe spingere gli operatori privati garantire anche questi bacini d’utenza poco redditizi dal punto di vista dell’audience?

Un’ipotesi potrebbe essere la creazione di un soggetto unico e neutro che cura la gestione delle infrastrutture. Quando dico neutro penso ovviamente ad una società per azioni ad azionariato diffuso controllabile solo da investitori istituzionali . Tale operatore della rete di trasmissione dovrebbe necessariamente derivare dalla Rai che già detiene gran parte delle infrastrutture e la sua costituzione rientrerebbe in quel processo di transizione per la riconversione e la ristrutturazione del gruppo . Questo sistema avrebbe diversi aspetti positivi: la razionalizzazione della rete e la minimizzazione dell’impatto ambientale, sia dal punto di vista dell’inquinamento elettromagnetico, che dal punto di vista paesaggistico. Questo sistema unificato potrebbe essere utilizzato in parità di condizioni da tutti gli operatori concessionari del settore radio-televisivo.

All’obbligo di copertura del territorio imposto al gestore derivante dalla Rai delle infrastrutture si potrebbe aggiungere l’obbligo, che ricalca la modalità dell’ adempimento degli obblighi di servizio universale, di informazione e di accesso a carico dei singoli concessionari privati, i quali in ipotesi potrebbero essere anche avere programmi differenziati a diffusione regionale tenendo conto anche in questo modo della copertura di zone geografiche a bassa densità di popolazione.

Stiamo ovviamente parlando di uno schema teorico, astrattamente possibile che potrebbe essere meglio dettagliato se si volesse tradurlo in chiavi operativi, ma ho l’impressione che l’attuale dibattito incentrato essenzialmente sul dualismo pubblico/privato lasci fuori quadro per il momento il problema del servizio universale radiotelevisivo

di Giuseppe Di Gaspare intervistato da Il diritto di tutti