La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 4873 depositata il 1 febbraio 2017, si è pronunciata nuovamente su un caso di diffamazione operata a mezzo Facebook. La Suprema Corte ha rigettato l’impugnazione proposta dal procuratore della Repubblica di Imperia in riferimento alla “abnormità” dell’ordinanza del Gip locale, con la quale si erano qualificate come diffamazione aggravata dal solo “mezzo di pubblicità” alcune offese pubblicate su Facebook. Secondo il ricorrente, era stata erroneamente esclusa l’ulteriore aggravante prevista dalla legge sulla stampa, che avrebbe determinato un aumento della pena edittale fino a sei anni di reclusione.
La pronuncia non si distanzia dalla posizione ormai accolta dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità, secondo cui la diffusione di messaggi diffamatori tramite social network configurerebbe sempre un’ipotesi di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p, data la potenziale capacità del mezzo di raggiungere un numero indeterminato di persone.
Il rilievo della sentenza in commento si coglie nel punto in cui la Corte esclude espressamente la possibilità di equiparare il mezzo Facebook alla stampa tradizionale. L’interpretazione evolutiva del concetto di “stampa”, accolta dalla stessa Corte (Cass. Penale, SS.UU., 17 luglio 2015, n. 31022), non può riferirsi a qualsiasi mezzo di manifestazione del pensiero online, dovendo sussistere i presupposti strutturali e finalistici per ricondurre il mezzo al concetto di “stampa” pur ampiamente inteso. Proprio tali presupposti mancherebbero a un “servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema”.