a cura di Flaminia D’Angelo.
La sentenza in commento si sofferma sulla questione dei possibili rimedi processuali esperibili avverso una sentenza emessa da sezioni semplici cha abbiano deciso difformemente rispetto alla giurisprudenza dell’Adunanza Plenaria senza rimettere nuovamente la questione a quest’ultima. In particolare, il Collegio è chiamato a prendere posizione sulla possibilità di chiedere la revocazione ex art. 395, n. 4 c.p.c. deducendo la violazione dell’art. 99, co. 3, c.p.a..
Sul punto il Collegio ha affermato come non sia possibile “forzare” il disposto dell’art. 395 c.p.c., «che è nel segno della tassatività delle ipotesi previste e dell’eccezionalità del rimedio stesso, per dare una sanzione processuale ad un precetto per il quale tale sanzione non è stata prevista dal legislatore».
Secondo il Consiglio di Stato «il discorso non può essere limitato o circoscritto al solo giudizio amministrativo, tenuto conto che la previsione di cui all’art. 99, co. 3, c.p.a., è stata mutuata fedelmente dal codice di procedura civile, il cui art. 374, co. 3, per come sostituito nel 2006, contiene una disposizione identica per il giudizio di cassazione, dettata anche (e soprattutto) in tale contesto dal disegno strategico di restaurare la funzione nomofilattica dei giudici di ultima istanza, a garanzia della effettiva ed uniforma applicazione del diritto (v. art. 65 r.d. 12/1941, Ord. giud.)». Anche nel processo civile, peraltro, «non è stata prevista alcuna conseguenza di ordine processuale, in caso di violazione di tale disposizione, qualora quindi la sezione semplice disattenda il principio di diritto affermato dalle sezioni unite senza rimettere loro nuovamente la questione, né consta che sia stata mai utilmente invocato il rimedio per revocazione o l’intervento additivo del Giudice delle leggi».
Nello specifico, parte della dottrina si è chiesta se – contrariamente al principio di cui all’art. 101 Cost., co. 2, per cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” – la previsione del legislatore che impone al giudice delle Sezioni Semplici di essere soggetto al precedente delle Sezioni Unite non finisca per innalzare la giurisprudenza delle Sezioni Unite al rango di una vera e propria fonte del diritto (è il tema della giurisprudenza cd. normativa su cui cfr. Cass. n. 10741/2011).
Nella sentenza si evidenzia poi, come strettamente legato a tale quesito, sia il denunciato pericolo di “ricadute” sull’attività della giurisprudenza di merito che, nella consapevolezza del vincolo delle Sezioni Semplici alle Sezioni Unite, potrebbe – a sua volta – subire una sorta di “soggezione” indiretta, tale per cui difficilmente si discosterà dal precedente, per evitare, a monte, che un’eventuale diversa decisione possa essere cassata in sede di legittimità. Il risultato potrebbe essere quello di «ingessare il corso naturale della giurisprudenza, rendendone più difficile l’evoluzione (che è più di frequente il frutto di una spinta “dal basso”)», ricordando invece come intere partizioni del diritto civile abbiano conosciuto negli ultimi cinquanta anni radicali cambiamenti (ed adattamenti) pur restando formalmente sempre immutato il quadro normativo di immediato riferimento (gli artt. 2043-2059 c.c.).
Il Collegio conclude quindi affermando che «la previsione di un vincolo, peraltro solamente di segno negativo, cui non si accompagna un rimedio (si intende sempre sul piano processuale; altro discorso, che qui non rileva, potrebbe svolgersi sul piano disciplinare, nei casi in cui la “ribellione” fosse evidente e del tutto ingiustificata) in caso di violazione, più che un vuoto di tutela da censurare, rappresenti probabilmente un ragionevole punto di equilibrio tra la ricerca di una maggiore uniformità interpretativa in funzione della certezza del diritto e la libertà e l’indipendenza, anche interna, del giudice» e che pertanto «non vi è spazio né per un’applicazione analogica dell’art. 395, né per sollevare una questione di costituzionalità di cui appare evidente la manifesta infondatezza»