Cons. Giust. Amm. Sic. – Sez. giurisdizionale, sentenza 4 settembre 2007, n. 719. Sui presupposti necessari per l’affidamento diretto: possesso integralmente pubblico del pacchetto azionario, nozione di «controllo analogo», e «prevalenza dell’attività».

04.09.2007

Il principio della concorrenza è uno dei fondamenti della costituzione economica europea, soprattutto in relazione al mondo delle commesse pubbliche.  Il rispetto delle eccezioni all’obbligo della gara, non è però sufficiente per ricondurre l’affidamento diretto all’interno dell’alveo della concorrenza e della par condicio tra le imprese.
Deve evitarsi, infatti, che si creino particolari situazioni di privilegio per alcune imprese. Una situazione di tal fatta si verifica quando un’impresa usufruisca, sostanzialmente, di un aiuto di Stato, vale a dire di una provvidenza economica pubblica atta a diminuirne o coprirne i costi.
Il privilegio economico non necessariamente si concretizza nel contributo o sussidio diretto o nell’agevolazione fiscale o contributiva, ma anche garantendo una posizione di mercato avvantaggiata rispetto alle altre imprese.
Tale posizione di privilegio non si realizza solo attraverso l’introduzione di limiti e condizioni alla partecipazione delle imprese concorrenti, ma anche, ed in maniera più sofisticata, garantendo all’impresa una partecipazione sicura al mercato cui appartiene, garantendole, nella sostanza, l’acquisizione sicura di contratti (“minimo garantito”) il cui provento sia in grado di coprire, se non tutte, la maggior parte delle spese generali.
Il meccanismo del “minimo garantito” altera la par condicio delle imprese in maniera ancora più grave perché ha delle conseguenze anche sul mercato dei contratti privati. L’impresa che ne è beneficiaria, infatti, è competitiva non solo nelle gare pubbliche, ma anche rispetto ai committenti privati, sicché, in definitiva, un tale sistema diviene in sé assai più pericoloso e distorcente di una semplice elusione del sistema delle gare. In una tale situazione, ogni ulteriore acquisizione contrattuale potrà avvenire offrendo sul mercato condizioni concorrenziali, poiché l’impresa non deve imputare al nuovo contratto anche la parte di costi generali già coperta, ma solo il costo diretto di produzione.
Ed è proprio per evitare tali rischi che l’Unione Europea ha adottato misure atte a «contenere il fenomeno dell’affidamento diretto».
Tali misure, infatti, si fondano, sostanzialmente, su due cardini: da un lato, assimilare quanto più possibile l’impresa assegnataria alla medesima amministrazione appaltatrice, dall’altro, non introdurre nell’ambito del mercato privato l’elemento di disturbo, costituito da tale tipo di impresa.
Al primo obiettivo risultano funzionali gli elementi che consentono di integrare la nozione di «controllo analogo»; al secondo, il requisito della «attività prevalente», vale a dire quello della tendenziale esclusività dell’attività economica a favore dell’azionista, di modo che l’impresa pubblica non possa in nessun modo inserirsi nel mercato privato.
Tali principi affermati dalla Corte di Giustizia nella sentenza Teckal (C-107/98 sentenza del 18 novembre 1999), sono stati progressivamente sviluppati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale.
La ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenza effettuata nella pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana consente di fare il punto sui presupposti necessari per l’affidamento diretto: possesso integralmente pubblico del pacchetto azionario, nozione di «controllo analogo», e «prevalenza dell’attività».
In riferimento al requisito dell’integrale possesso pubblico del capitale (requisito che non era stato  esplicitamente affermato nella sentenza Teckal), si ricorda che «condicio sine qua non perché si verifichi un legittimo affidamento diretto è che il capitale sociale appartenga interamente al soggetto pubblico, dato che «la partecipazione anche minoritaria di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’Amministrazione aggiudicatrice esclude, in ogni caso, che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi» (Stadt Halle, C-26/03, punto 49, 52; Comm/Austria, C-29/04, punto 46; ANAV, C-410/04, punto 32).
Sul punto, la giurisprudenza ha però precisato, da un lato, che lo statuto dell’affidatario diretto non deve prevedere la cessione, anche se solo parziale, del capitale azionario a futuri soci privati, dall’altro, che il requisito del possesso totale da parte pubblica (anche se frazionato tra più soggetti pubblici) costituisce condizione necessaria, ma non sufficiente per l’affidamento diretto.
Non si può, infatti, ipotizzare un controllo completo delle strategie aziendali quando l’ente aggiudicante deve mediare il controllo proprietario con altro soggetto, sia pure pubblico, che persegue «diversi interessi pubblici».
La stessa Corte di Giustizia Europea quando ha ammesso la possibilità di una pluralità di soggetti pubblici proprietari di un soggetto diretto affidatario, ha richiesto che tali soggetti si trovino «in condizione di omogeneità di interessi e di bisogni». Vale a dire che la società in questione deve essere di proprietà di enti pubblici i quali, attraverso di essa, soddisfino i medesimi bisogni (ad. es.: più comuni per la gestione dei rifiuti o dei servizi di illuminazione, un comune ed un provincia per la gestione di un servizio di trasporto e così via). Solo in tal caso, infatti, si può ammettere che lo stesso bisogno sia soddisfatto da soggetti giuridicamente diversi, che si affidano in maniera diretta alla medesima impresa controllata.
Nella medesima linea di ragionamento, affinché sussista il «controllo analogo» non è sufficiente la possibilità di nominare il presidente del consiglio di amministrazione, i membri dell’intero consiglio e collegio sindacale.
Nella struttura del nostro diritto societario, ciò non implica necessariamente il completo controllo ed indirizzo delle politiche aziendali. A tal proposito, si richiede la sussistenza di una struttura interna all’ente, ad hoc, che costituisca l’interfaccia con l’impresa partecipata e che eserciti i poteri «di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo» (Cons. di Stato, V, 22 aprile 2004, n. 2316).
Il «controllo analogo», dunque: presuppone un’influenza determinante da parte del soggetto affidante sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni importanti sia sulle attività gestionali direttamente connesse al raggiungimento degli scopi sociali(sentenze Stadt Halle, C-26/03, Parking Brixen C-458/03sentenza Parking Brixen, punto 65); non è assimilabile agli usuali poteri di vigilanza e controllo previsti dal diritto societario per i soci unici o di maggioranza (art. 2497 bis del c.c.) essendo necessario predisporre procedure e strumenti di più incisivo intervento, quali un ufficio di interfaccia ad hoc. (sentenza Parking Brixen, punto 69); è costituito da una serie di poteri pregnanti: a) determinazione dell’odg del Consiglio di amministrazione – il che garantisce esattamente il controllo dell’indirizzo strategico ed operativo della società –; b) indicazione dei dirigenti; c) elaborazione delle direttive sulla politica aziendale.
In relazione al requisito della «prevalenza dell’attività» ai fini dell’affidamento diretto di un pubblico servizio, nella pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa si osserva che «la ratio economica sottostante alla previsione della situazione di «dipendenza sostanziale» che deve intercorrere tra il soggetto affidante e affidatario sotto lo specifico profilo della «prevalenza della attività» svolta dall’impresa affidataria…rileva essenzialmente nei confronti del mercato privato».
Se, infatti, i requisiti funzionali soddisfatti dal «controllo analogo» sono sufficienti per qualificare l’impresa come un braccio operativo dell’amministrazione, sotto i due profili sostanziali della supremazia e della proprietà, essi, tuttavia, non sono, di per sé, sufficienti ad impedire la potenziale distorsione delle dinamiche competitive nel mercato privato. Anzi, paradossalmente, possono potenzialmente aggravarla nella misura in cui consentono, almeno in astratto, che «solide imprese pubbliche, ben governate dagli organi pubblici, acquisite remunerative commesse pubbliche, si presentino sul mercato privato in condizioni di forte concorrenza».
Pertanto, unitamente agli altri elementi qualificanti (sentenze Stadt Halle, C-26/03, punti 49 e 52; Comm/Austria, C-29/04, punto 46; ANAV, C-410/04, punto 32), l’esercizio diretto deve essere caratterizzato dalla «quasi esclusività, quantitativa e qualitativa, delle attività svolte dall’impresa nei confronti dell’Ente controllante» (sentenza Carbotermo spa C-340/04, punti 62, 63, 64).
Ad avviso del Consiglio di Giustizia Amministrativa, infatti, «ripercorrendo l’iter logico ed evolutivo della giurisprudenza europea e del Consiglio di Stato, [sembrano ormai chiari] i motivi e gli scopi ultimi delle norme, anche pretorie, consolidatesi nella materia. La giurisprudenza traccia dell’affidatario diretto un ritratto stringente, che, in parole povere e sincreticamente, potremmo definire come una mera articolazione interna della pubblica amministrazione sia pure sotto una forma giuridica che ne separa la personalità».
In tale linea di ragionamento, dunque – osservano ancora i giudici – «che questa articolazione svolga i suoi compiti contrattuali esclusivamente nei confronti dell’Ente è, quindi, conseguenza logica ed ineludibile….In altri termini, la natura dei servizi, opere o beni resi al mercato privato, oltre alla sua esiguità, deve anche dimostrare la quasi inesistente valenza nella strategia aziendale e nella collocazione dell’affidatario diretto nel mercato pubblico e privato».
Ed è proprio in considerazione di tale ricostruzione che «la giurisprudenza della Corte e del Consiglio di Stato mostrano di ritenere a priori che l’espansione territoriale, anche a vantaggio di altri enti pubblici analoghi, violi la prevalenza… [Infatti] l’impresa controllata da un ente locale, nel momento in cui partecipa ad una gara fuori territorio, sia pure bandita da un ente locale analogo a quello che la controlla (in ipotesi comune e comune) si pone nei confronti del mercato imprenditoriale locale come concorrente sleale…e quindi non solo questa sua espansione può condurre alla inammissibilità della sua partecipazione alla gara, fino a che dura il regime di affidamento diretto nei confronti del suo ente controllante, ma anche al venire meno della sua qualifica di soggetto “affidatario diretto”…sì che delle due l’una: o l’impresa non partecipa a gare fuori territorio, e mantiene così il suo status, o vi partecipa, e perde il suo status, con le ovvie conseguenze nei confronti della legittimità dell’affidamento diretto già realizzato o da realizzare».
La circostanza che l’affidatario diretto impieghi risorse consistenti fuori del territorio di competenza del suo ente promotore, è non solo indice di una possibile cura affievolita dell’interesse pubblico di questi, ma anche, e soprattutto, della rilevanza dell’attività a favore di soggetto diverso dal suo ente proprietario. A fortiori, quindi, è del tutto da escludere un affidamento diretto da parte di un secondo soggetto pubblico, atteso che esso, pur rivestendo una qualificazione pubblica, non è proprietario del pacchetto azionario e dunque non esercita alcun controllo, né analogo né difforme, sull’impresa affidataria.
Ad avviso del Consiglio di Giustizia Amministrativa dunque, «si deve ritenere che il criterio della prevalenza (“la parte più importante…”) sia soddisfatto quando l’affidatario diretto non fornisca i suoi servigi a soggetti diversi dall’ente controllante, anche se pubblici, ovvero li fornisca in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali, ed in ogni caso non fuori della competenza territoriale dell’ente controllante».
a cura di Luigi Alla


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