Corte Costituzionale, 1 agosto 2008 n. 326
Deve ritenersi infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, (c.d. decreto Bersani) conv., con mod., dalla l. 4 agosto 2006, n. 248, sollevata in riferimento all’art. 117 Costituzione.
Ad avviso della Corte Costituzionale, le disposizioni impugnate sono fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d’impresa di enti pubblici. L’una e l’altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza (§ 8.3).
Le disposizioni impugnate mirano, dunque, a separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d’impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione.
In tale linea di ragionamento, deve ritenersi che non sia negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza.
La valutazione della costituzionalità delle norme impugnata va effettuata sia con riferimento all’oggetto della disciplina che alla sua finalità.
In relazione al primo profilo – oggetto della disciplina – la Corte osserva come le disposizioni in esame riguardano l’attività di società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali.
In tale prospettiva, dunque, la disciplina censurata non rientra nella materia dell’organizzazione amministrativa perché non è rivolta a regolare una forma di svolgimento dell’attività amministrativa. Essa rientra, invece, nella materia – definita prevalentemente in base all’oggetto – «ordinamento civile», perché mira a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato e a tracciare il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private.
In relazione al secondo profilo – finalità della disciplina – le disposizioni impugnate hanno il dichiarato scopo di tutelare la concorrenza.
Sul punto, la Corte ricorda come in base alla delimitazione della «tutela della concorrenza» operata dalla propria giurisprudenza deve ritenersi consentito allo Stato di adottare misure di garanzia del mantenimento di mercati già concorrenziali e misure di liberalizzazione dei mercati stessi. Queste misure possono anche essere volte a evitare che un operatore estenda la propria posizione dominante in altri mercati.
L’intervento statale può anche consistere nell’emanazione di una disciplina analitica, la quale può influire su materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni. Spetta alla Corte effettuare un rigoroso scrutinio delle relative norme statali, volto ad accertare se l’intervento normativo sia coerente con i principi della concorrenza, e se esso sia proporzionato rispetto a questo fine (sentenze nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303 e 38 del 2007).
L’obiettivo delle disposizioni impugnate è quello di evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali. Dunque, la disciplina delle società con partecipazione pubblica dettata dalla norma statale è rivolta ad impedire che dette società costituiscano fattori di distorsione della concorrenza.
Ai fini della riconducibilità della disciplina contestata alla tutela della concorrenza, resta da valutare, indipendentemente da valutazioni di merito sul suo contenuto, la proporzionalità di tale disciplina e, quindi, la sua idoneità a perseguire finalità inerenti alla tutela della concorrenza (sentenze nn. 452 e 401 del 2007).
Questo scrutinio va operato distintamente per le varie previsioni dell’articolo impugnato.
Vengono in considerazione, in primo luogo, quelle che impediscono alle società in questione di operare per soggetti diversi dagli enti territoriali soci o affidanti, imponendo di fatto una separazione societaria, e obbligandole ad avere un oggetto sociale esclusivo. Esse mirano ad assicurare la parità nella competizione, che potrebbe essere alterata dall’accesso di soggetti con posizioni di privilegio in determinati mercati. Da questo punto di vista, esse non appaiono irragionevoli, né sproporzionate rispetto alle esigenze indicate.
Va valutato, in secondo luogo, il divieto di detenere partecipazioni in altre società o enti. Esso è complementare rispetto alle altre disposizioni considerate. É volto, infatti, a evitare che le società in questione svolgano indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, le attività loro precluse. La disposizione impugnata vieta loro non di detenere qualsiasi partecipazione o di aderire a qualsiasi ente, ma solo di detenere partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse. Intesa in questi termini, la norma appare proporzionata rispetto al fine di tutela della concorrenza.
Infine, le ulteriori disposizioni, che dettano una disciplina transitoria e dispongono in ordine ai contratti conclusi successivamente all’entrata in vigore del decreto-legge, costituiscono sanzione e complemento delle disposizioni finora considerate e, a loro volta, regolano non irragionevolmente la fase di adeguamento alla nuova disciplina da parte delle società destinatarie di essa.