Deve ritenersi illegittimo l’affidamento diretto di un servizio pubblico locale effettuato in favore di una società il cui capitale sociale è interamente posseduto dallo stesso Comune, nell’ipotesi in cui «lo statuto della società non garantisce in via certa e permanente l’incedibilità a privati delle azioni».
Sul punto, i Giudici rilevano come anche nel diritto comunitario si sia affermato l’orientamento in base al quale se, nel corso della durata di un rapporto di concessione sorto per affidamento diretto muta la compagine sociale dell’affidatario (con l’ingresso anche minoritario di privati) ciò comporta vulnerazione dei principi sanciti dal Trattato in materia di concorrenza (Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 6 aprile 2006 Causa C-410/04).
Ne consegue, quindi, che, ai fini del legittimo ricorso all’affidamento in house, la proprietà pubblica della totalità del capitale sociale, oltre a dover ovviamente sussistere nel momento genetico del rapporto, non solo «deve permanere per tutta la durata del rapporto» ma deve, altresì, «essere garantita da appositi e stabili strumenti giuridici, quali il divieto di cedibilità delle azioni posto ad opera dello statuto».
Tale soluzione deve ritenersi in linea con i principi desumibili dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che nelle pronunce Parking Brixen (13 ottobre 2005, nella causa C-458/03 (Parking Brixen GmbH) e Commissione/Austria (Mödling, sentenza del 10 novembre 2005 C-29/04/CE), ha affermato, da un lato, che il controllo analogo esercitato dall’autorità aggiudicatrice non deve essere diluito per effetto della partecipazione, anche di minoranza, di un’impresa privata nel capitale della società cui sia stata affidata la gestione del servizio di cui trattasi e, dall’altro, che i due criteri del legittimo affidamento in house – «controllo analogo» e «prevalenza dell’attività svolta in favore dell’ente affidante» – debbano essere «integrati con “un terzo criterio” – individuato dal caso Mödling – vale a dire l’esigenza che gli stessi devono risultare soddisfatti “permanentemente”».
Diversamente opinando, infatti, dovrebbe ammettersi che, nell’ipotesi in cui i due criteri siano stati soddisfatti all’atto dell’attribuzione della gestione del servizio di cui trattasi, l’amministrazione competente potrebbe procedere alla cessione di una parte, anche di minoranza, delle quote della società interessata ad un’impresa privata, con la conseguenza che – mediante una costruzione artificiale comprendente varie fasi distinte, vale a dire la creazione della società, l’attribuzione della gestione del servizio pubblico alla medesima e la cessione di parte delle sue quote ad un’impresa privata – la concessione di un servizio pubblico potrebbe venire attribuita ad un’impresa ad economia mista senza previa aggiudicazione in regime di concorrenza, con evidente compromissione dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza.
Nel versante nazionale, tale ricostruzione risulta condivisa dalla decisione n. 1/2008 dell’Adunanza plenaria che, per la negare la possibilità di far ricorso all’in house providing, dà appunto rilievo alla «cedibilità delle azioni prevista» dallo statuto del soggetto destinatario dell’affidamento diretto.
In tale evenienza, infatti, è sufficiente osservare come «in mancanza di una stabile e certa incedibilità delle azioni, il rispetto delle regole della concorrenza sarebbe rimesso (come non è ragionevolmente consentito) alla costante vigilanza degli altri operatori del settore, i quali dovrebbero verificare, per tutta la durata del rapporto sorto per affidamento diretto, la permanenza in mano pubblica del capitale».
Sulla base di tali considerazioni, deve quindi ritenersi che «il possesso dell’intero capitale sociale da parte dell’ente pubblico, pur astrattamente idoneo a garantire il controllo analogo a quello esercitato sui servizi interni, perde tale qualità se lo statuto della società consente che una quota di esso, anche minoritaria, possa essere alienata a terzi».