A cura di Filippo Lacava
Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato fornisce importanti precisazioni sui presupposti necessari per l’adozione di informative interdittive antimafia, da un lato, confermando principi già espressi dalla giurisprudenza, dall’altro, chiarendo entro quali limiti il condizionamento mafioso dell’impresa subappaltante si riverbera sulla società appaltatrice.
In primo luogo, la pronuncia ribadisce il principio affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza del 23 gennaio 2015, n. 305, secondo cui l’interdittiva può fondarsi, oltre che su fatti recenti, anche su fatti più risalenti nel tempo, quando tuttavia dal complesso delle vicende esaminate, e sulla base degli indizi (anche più risalenti) raccolti, possa ritenersi sussistente un condizionamento attuale dell’attività dell’impresa.
Tale condizionamento attuale non è stato ritenuto sussistente nella fattispecie, in quanto l’interdittiva impugnata forniva un quadro indiziario basato su fatti risalenti nel tempo e altri più recenti nei quali, però, non si riuscivano a cogliere elementi indiziari tali da giustificare, anche nel collegamento con le vicende più risalenti, un provvedimento interdittivo che produce effetti gravi per ogni azienda. In particolare, i fatti oggettivamente più rilevanti erano accaduti negli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90 e non avevano dato luogo, in precedenza, a provvedimenti interdittivi, mentre quelli più recenti non assumevano oggettivamente la stessa rilevanza indiziaria del necessario condizionamento dell’impresa. Erano stati, peraltro, ricompresi nell’interdittiva anche fatti che dimostravano il mancato rispetto di disposizioni di legge (di natura tributaria) da parte dell’impresa che potevano al più determinare l’irrogazione di sanzioni da parte dell’ordinamento, ma non costituire l’indice del condizionamento dell’impresa da parte della criminalità organizzata.
Inoltre, la pronuncia in esame rivela particolare interesse laddove chiarisce che il mero contatto accertato con un’impresa ritenuta vicina alla criminalità organizzata, che si è realizzato mediante il subappalto di una quota dei lavori aggiudicati, non può ritenersi sufficiente a fare sussistere il rischio di condizionamento mafioso della società appaltatrice. Tuttavia, in accoglimento ad un rilievo mosso dall’Amministrazione appellante, il Collegio precisa che la circostanza che l’impresa appaltatrice sia di rilevanti dimensioni ed abbia affidato solo una parte dei lavori in subappalto a società contigue ad ambienti criminali, non può comunque essere intesa come una sostanziale esimente in materia di informativa antimafia. Infatti “anche da (apparentemente) piccole vicende e dai collegamenti che si possono determinare (anche) nei casi di subappalto possono trarsi ragionevolmente elementi di prova, o anche solo indiziari, di un collegamento (anche) di una grande impresa con la malavita organizzata. Soprattutto se tali elementi sono collegati ad altri elementi di maggiore rilevanza che fanno ritenere probabile o possibile tale collegamento”.
Se invece (come è accaduto nella specie) mancano ulteriori elementi rilevanti, “non si può ritenere che la grande impresa sia condizionata dalla malavita organizzata solo per aver affidato in subappalto una porzione non consistente di lavori e per importi non particolarmente rilevanti ad un’impresa risultata collegata alla malavita organizzata. Soprattutto se la grande impresa ha dimostrato di aver posto in essere procedure di controllo (anche antimafia) nella gestione dei subappalti e quando le imprese alle quali è stato affidato il subappalto non sono state a loro volta destinatarie di provvedimenti interdittivi”.