A cura di Valeria Villella
Il Tribunale di Livorno ha condannato l’imputata per il reato di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p., per aver pubblicato sulla bacheca del proprio profilo Facebook una serie di messaggi offensivi nei confronti del centro estetico presso il quale lavorava, con contenuti particolarmente denigratori nei confronti della professionalità del centro in questione e del suo gestore.
Il Collegio, respingendo la tesi difensiva – secondo la quale, non sarebbe stato possibile attribuire con certezza la paternità di un messaggio al titolare “apparente” del “profilo” dal quale proviene lo scritto potendo sotto quella apparente identità celarsi un soggetto autore diverso dal titolare del profilo che avrebbe operato sostanzialmente un “furto d’identità” – ha affermato che non vi sono dubbi sulla riferibilità soggettiva degli scritti incriminati all’imputata, essendo pacifico e non contestato da alcuno il dato di fatto rappresentato dai pregressi rapporti lavorativi tra loro intercorsi.
Inoltre, il Tribunale ha ravvisato tutti gli estremi della diffamazione e, nello specifico, “la precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose (…), la comunicazione con più persone (…), la coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo”.
Sulla scorta di tali considerazioni, il Collegio ha affermato che l’utilizzo di Internet nel caso di specie va ad integrare l’ipotesi aggravata di cui all’art. 595, comma 3, c.p. “poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale”, condanna l’imputata al pagamento di una multa pari a € 1.000,00 ed al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile.