“L’azione amministrativa ed i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione: passato, presente e futuro”

12.05.2011

Il 6 luglio 2011, presso la Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”, si è svolto il convegno “l’azione amministrativa ed i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione: passato, presente e futuro”.

Dall’insieme degli interventi che si sono succeduti è emerso che le “criticità” del procedimento amministrativo, pur negli indubbi miglioramenti apportati dalla legge n. 241/1990 e dalle successive modificazioni ed integrazioni, appaiono non tanto da carenze sostanziali delle singole disposizioni, bensì dal parziale utilizzo degli strumenti ivi previsti causato, a sua volta, da una minor “sensibilità” amministrativa propria dei soggetti coinvolti ai vari livelli (amministrativo, legislativo, giudiziario, nonché da parte dei privati interessati).

In altri termini, si assiste ad un progressivo indebolimento del procedimento amministrativo -con negative “ricadute” sulla qualità del provvedimento finale- cui contribuiscono fattori sia interni che esterni al procedimento stesso (in primo luogo, il legislatore tende progressivamente ad intervenire in settori specifici della p.a. con norme di rango primario, anziché ricorrere più propriamente alla disciplina del provvedimento).

L’attività del dipendente pubblico -specie quando ricopre il ruolo di “responsabile unico del procedimento”- appare tutt’ora ancorata ad una logica prettamente burocratico-formalista, poco incline al raggiungimento del risultato/obiettivo, da intendere, peraltro, in senso “dinamico”, come frutto dell’interazione con tutti i soggetti interessati e non come mero adempimento di prestabiliti passaggi procedurali.

Gli stessi cittadini non appaiono protagonisti attivi del procedimento, o quantomeno non nella misura consentita dagli strumenti loro assegnati dalla legge n. 241/1990; sostanzialmente, preferiscono ricorrere “ex post” al giudice competente (peraltro ancora di non facile individuazione per talune tipologie di controversie) anziché concorrere “ex ante” alla definizione del provvedimento amministrativo, incentivati in tal senso anche dalla “praxis” giurisprudenziale in materia.

In sintesi, negli interventi dei relatori si è delineata l’esigenza, quanto mai attuale, di tornare allo spirito “autentico” della legge n. 241/1990, nel senso di ridare necessariamente “dignità” al procedimento amministrativo e, quindi, conseguentemente al provvedimento finale.

Nella sua introduzione il Prof. Soricelli ha evidenziato come già nel titolo stesso del convegno si pone un distinguo tra l’azione amministrativa, quale attività che si svolge all’interno della pubblica amministrazione, ed i rapporti esterni di quest’ultima con i cittadini; le problematiche che ne scaturiscono, pertanto, investono sia il profilo prettamente giuridico che quello sostanziale ed organizzativo.

Ormai, il procedimento amministrativo si articola come un processo logico-giuridico, che ha un inizio (attività d’ufficio ovvero iniziativa di parte) ed una fine (il provvedimento amministrativo). Tuttavia, mentre tale processo logico è connaturato alla giurisdizione civile e penale, nel campo amministrativo solo recentemente la fase decisoria è stata configurata come esito finale di un processo logico “a monte”, senza pertanto ridursi alla mera formulazione dell’atto finale.

Il Prof. Soricelli ha, quindi, richiamato la c.d. teoria “funzionale” di Feliciano Benvenuti, in base alla quale l’adozione di un provvedimento amministrativo deve essere preceduta, di regola, da una serie di atti e di operazioni, tra loro coordinati ed integrati all’interno del procedimento, finalizzati all’emanazione del provvedimento.

Secondo questa prospettiva, oggi il cittadino deve poter svolgere un ruolo centrale nel procedimento; per questo, è necessario favorire l’ “apertura” di quest’ultimo, anche mediante la partecipazione in “contraddittorio” con la p.a. per la formazione del provvedimento, in analogia a quanto previsto nel giudizio civile e penale. In tal senso, il Prof. Soricelli ha evidenziato che il procedimento amministrativo, pur non essendo ancora “processo”, tende sempre più a diventarlo, a seguito delle riforme intervenute a partire dal 1990.

Il Prof. Soricelli ha poi ricordato che, con la legge n. 241/1990, sono stati specificati sul piano della legislazione ordinaria i principi base del procedimento amministrativo desunti dalla Carta Costituzionale. Ulteriori principi, norme ed istituti, sono stati definiti anche con la legge n. 15/2005, che ha compiutamente fissato una disciplina organica sull’attività amministrativa, ricomprendendovi (ai sensi dell’art. 1 della legge n. 241/1990) sia l’attività di diritto pubblico che quella posta in essere dalla p.a. mediante strumenti negoziali.

Mentre l’impianto originario della legge n. 241/1990 trattava “sic et simpliciter” il procedimento amministrativo, le modifiche apportate con la legge n. 15/2005 hanno delineato una sorta di “codice dell’azione amministrativa”.

In conclusione, il Prof. Soricelli ha sottolineato che la legge n. 241/1990 -pur migliorabile in vari aspetti- ormai regola in maniera pressoché esaustiva l’azione amministrativa.

Il Prof. D’Alberti ha rappresentato, in via preliminare, di aver interpretato il tema dell’incontro nel suo significato più “esteso”, allargando i “confini” della legge n. 241/1990 per soffermarsi, nello specifico, sulle disfunzioni derivanti dai condizionamenti politici sull’attività amministrativa (la c.d. “turbativa politica”, come è stata definita da M. S. Giannini) ancor oggi presenti nonostante i miglioramenti intervenuti negli ultimi anni a seguito di pronunce giurisprudenziali e modifiche normative.

Gli aspetti di “criticità” esposti dal Prof. D’Alberti non riguardano tanto la legge n. 241/1990 in quanto tale, bensì la prassi tenuta dalle autorità politiche e dai cittadini, che si pone in contrasto con le previsioni della norma in esame, non riuscendo quantomeno a cogliere la rilevanza degli strumenti ivi previsti per migliorare l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa.

La prima disfunzione viene identificata nella pratica dello “spoil system”, introdotta dalle c.d. “leggi Bassanini” del 1997 e poi ulteriormente ampliata in successivi provvedimenti di legge. Una netta inversione di tendenza si è avuta a seguito di importanti pronunciamenti della Corte Costituzionale, a partire dalla sentenza n. 103 del 23 marzo 2007, che hanno rafforzato l’autonomia del dirigente pubblico rispetto all’autorità governativa, o almeno frenato la tendenza al suo progressivo indebolimento.

Tale evoluzione non ha comunque sradicato del tutto l’influenza di questa “turbativa politica”, presente tutt’oggi anche in ambiti dai quali dovrebbe rimanere esclusa per definizione, come nel caso delle Autorità amministrative di controllo.

In sintesi, il problema, secondo il Prof. D’Alberti, non si affronta “sic et simpliciter” con l’emanazione di ulteriori, specifiche norme in aggiunta a quelle già esistenti che prevedano -in linea formale- garanzie per l’attività amministrativa, bensì promuovendo, per quanto possibile, l’affermazione di una sorta di “cultura dell’indipendenza”, ispirandosi a modelli stranieri (ad esempio, nei Paesi anglosassoni) dove tale sentire è più radicato.

Il Prof. D’Alberti ha quindi analizzato alcuni aspetti inerenti al funzionamento degli istituti previsti dalla legge n. 241/1990, volti a favorire la “partecipazione” dei soggetti interessati al procedimento amministrativo, nonché la “semplificazione” del procedimento stesso.

Con riferimento alla “partecipazione”, una delle maggiori lacune della legge n. 241/1990 è rappresentata dall’art. 13 -mai modificato rispetto alla sua versione originaria- che esclude dalle garanzie partecipative talune tipologie di atti di carattere generale (cioè quelli sfocianti in atti normativi, atti amministrativi generali, atti di pianificazione e di programmazione, che si caratterizzano per loro natura da un forte tasso di generalità). Tali atti rimangono soggetti esclusivamente alle norme che ne disciplinano la formazione, con la conseguenza paradossale che, ad esempio, nei procedimenti in materia urbanistica sussistono garanzie diverse in ragione della regione interessata.

Per quanto riguarda la “semplificazione”, molteplici sono stati gli istituti introdotti nel tempo per alleggerire gli oneri burocratici a carico di imprese e cittadini e per snellire l’attività della p.a.; ma, nonostante gli “affinamenti” operati dal legislatore anche nel recente passato, essi rimangono comunque poco utilizzati, come la conferenza dei servizi e la SCIA.

La conferenza dei servizi (sviluppata agli artt. 14 e seguenti della legge n. 241/1990) ha consentito di concentrare in un unico momento le posizioni delle singole amministrazioni portatrici degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, al fine di favorire la definizione di accordi tra loro. Tuttavia, il ricorso a tale istituito ad oggi risulta poco diffuso, tenuto anche conto che eventuali dissensi motivati da una singola p.a. partecipante determinano uno spostamento della decisione al livello politico superiore, cioè al Consiglio dei Ministri, nel caso in cui siano coinvolte amministrazioni centrali dello Stato.

Invece la SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) ed il silenzio-assenso (disciplinati agli artt. 19 e 20 della legge n. 241/1990) hanno apportato indubbi miglioramenti alla celerità ed al rendimento della procedura amministrativa, pur se rimane la difficoltà di individuare gli ambiti di applicazione del “silenzio assenso generalizzato”, cioè i singoli procedimenti esclusi, essendo indicati solo sommariamente all’art. 20 co. 4 della legge n. 241/1990.

Nel suo intervento, il Prof. D’Alberti ha inoltre precisato come la semplificazione normativa abbia trovato crescente attuazione nei ricorrenti tentativi di codificazione (“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”, “Codice dell’ordinamento militare”, ecc.), anche se paradossalmente ciò è avvenuto a fronte di una continua emanazione di “legislazione alluvionale”, nonché nella liberalizzazione dei servizi pubblici locali, che ha apportato indubbi vantaggi in termini di qualità e prezzi dei servizi offerti, specie nel campo delle telecomunicazioni.

Tuttavia, con riferimento a quest’ultimo aspetto, l’esito del recente referendum elettorale in materia, che ha abrogato l’art. 23 bis del TUEL, ha aperto una stagione di incertezza. Mentre la disposizione originaria apriva molto i settori economici interessati alla privatizzazione ed alla concorrenza -restringendo notevolmente le possibilità di affidamento “in house”- ora il rischio reale è quello di un “ritorno al passato”, con negative ricadute sul benessere dei consumatori finali.

Ulteriore punto esaminato è stato quello attinente alla giurisdizione, con particolare riferimento all’art. 7 del d.lgs. n. 104/2010 “Codice del processo amministrativo”.

Tale disposizione risulta di difficile applicazione (specie con riferimento al riparto di giurisdizione tra il giudice amministrativo e quello ordinario). Secondo il Prof. D’Alberti, probabilmente il criterio “rationae materiae”, seguito in precedenza, definiva con maggiore chiarezza quali controversie dovevano essere attribuite all’uno o all’altro giudice.

In conclusione, nonostante i progressi intervenuti nel rapporto tra cittadini e p.a., il Prof. D’Alberti ritiene che permangono situazioni di criticità ancora da sanare: l’amministrazione rimane troppo influenzata dalla politica, la partecipazione al procedimento amministrativo risulta sostanzialmente ridotta e la stessa p.a. appare riluttante verso la concorrenza, nel mentre rimangono evidenti le difficoltà per i cittadini ad individuare correttamente il giudice competente cui ricorrere per la difesa dei propri diritti.

Nel suo intervento, il Prof. Police ha approfondito i rapporti tra il procedimento ed il processo amministrativo. Partendo dall’analisi compiuta dal Prof. D’Alberti, secondo cui la legge n. 241/1990 ha prodotto pochi effetti sulla tutela del cittadino, egli si propone di individuare gli elementi che possono invece “indurre ottimismo”.

Il Prof. Police condivide con il Prof. D’Alberti la scarsa attitudine all’assunzione della responsabilità dei soggetti che intervengono nel procedimento amministrativo, come si evidenzia dall’esaltazione dei meccanismi procedurali previsti dalla legge in esame, a detrimento della qualità delle scelte della p.a. e del grado di partecipazione dei cittadini interessati, e dalla crescente attività di “normazione” a contenuto prettamente amministrativo.

Al riguardo, secondo il Prof. Police uno dei maggiori limiti della situazione attuale è legato all’incapacità -o l’indisponibilità- dei cittadini ad esercitare in modo “militante” una “libertà attiva”, cioè a svolgere nel concreto le funzioni che gli sono attribuite dall’ordinamento.

Pertanto, le principali criticità della legge n. 241/1990 non risiederebbero “sic et simpliciter” in presunte carenze del dettato normativo, bensì nella mancata assunzione di responsabilità da parte di cittadini ed amministratori, specie all’indomani degli interventi legislativi e giurisprudenziali che hanno riconosciuto il diritto al risarcimento del danno a seguito di un provvedimento amministrativo illegittimo.

Nella diffusa attitudine ad “eludere” la responsabilità, il procedimento sarebbe così diventato una sorta di “via di fuga”, rendendo così le garanzie procedimentali uno strumento di tutela dal “peso della responsabilità”. In sostanza, secondo il Prof. Police l’enfatizzazione delle regole procedurali appare come il contraltare all’atavica abitudine a non seguire una logica di risultato.

Anzi, proprio gli strumenti introdotti dalla legge n. 241/1990 e dalle successive modificazioni, come la SCIA e la conferenza dei servizi, dimostrerebbero l’inutilità delle norme procedurali rispetto all’effettivo conseguimento del risultato: le forme procedurali costituiscono indubbi strumenti di garanzia a tutela del cittadino, ma non assicurano automaticamente il raggiungimento di specifici risultati e di decisioni efficaci.

Ricordando gli atti parlamentari del 6 luglio 1971, in occasione del dibattito in Senato sul finanziamento di opere infrastrutturali per il Sud, il Prof. Police ha evidenziato come già all’epoca esisteva il grosso problema degli interventi pubblici incompleti, nodo centrale della perdurante “questione meridionale”. Tale criticità è presente tutt’oggi, a testimonianza di come l’insufficiente raggiungimento di risultati da parte dell’amministrazione -pur nel quadro delle innovazioni succedutesi dal 1990 in poi- non è imputabile alla legge n. 241/1990, bensì al mancato contributo da parte dei cittadini di operare in tal senso, anche nella fase procedimentale dove il ruolo dei soggetti privati è stato potenziato nelle forme sopra descritte.

Indubbiamente, quest’innata “ritrosia” sembrerebbe derivare anche dalla “cultura del timore” innescata dai giudici amministrativi (specie quelli contabili) con la convinzione che perseguire il risultato è rischioso e foriero di responsabilità per il singolo. Questo processo ha inevitabilmente determinato una sorta di “fuga dall’amministrazione”, anche e soprattutto al livello di vertice, spingendo a “normare” per legge: il Governo viene così ad assumere sempre più decisioni di livello amministrativo sotto la forma di leggi ordinarie, proprio perché i singoli ministri non hanno il “coraggio” di prendere decisioni amministrative.

Questa “fuga” dal provvedimento amministrativo a favore della legge ha portato alla conseguente “dequotazione” del procedimento amministrativo. Peraltro, nel caso specifico della legge n. 241/1990, gli strumenti ivi contenuti non sono stati impiegati appieno perché le scelte amministrative, essendo state compiute mediante legge -spesso anche mediante decreto legge, come avvenuto in molteplici disposizioni contenute nel provvedimento finanziario d’urgenza emanato dal Governo (d.l. n. 98/2011)- non hanno comportato il ricorso al procedimento amministrativo “tout court” e, pertanto, senza le garanzie previste per quest’ultimo.

In conclusione del suo intervento, il Prof. Police ha ritenuto prioritario, prima che modificare la legge n. 241/1990, “ritornare al provvedimento amministrativo”, al fine di dare concreta attuazione ai principi ed agli strumenti ivi contenuti.

Il Prof. Soricelli, nel sottolineare gli spunti di riflessione introdotti nel dibattito dal Prof. Police, ha evidenziato l’errore di chi, nel rapporto tra legge e provvedimento amministrativo, parla di “riserva di amministrazione”. Il problema è che sempre più spesso vengono emanati provvedimenti normativi (come appunto il d.l. n. 98/2011) che contengono norme che vanno troppo “nel concreto”, rifuggendo da quella generalità ed astrattezza che dovrebbe connotare, in linea di principio, la legge.

Successivamente, il Prof. Lazzara ha introdotto il tema del rapporto tra procedimento amministrativo ed attività economiche. Il Prof. Lazzara ritiene che, nel campo specifico del diritto amministrativo, l’ordinamento comunitario abbia esercitato forti pressioni sugli Stati membri per semplificare quanto possibile l’azione amministrativa, privilegiando l’esigenza di snellire il procedimento rispetto alle garanzie ed auspicando, con sempre maggiore insistenza, l’adozione di procedure volte al raggiungimento del risultato.

Al riguardo, il legislatore del 1990 ha sentito l’esigenza di “smantellare il procedimento”, cercando di avvicinare i tempi della p.a. alle esigenze reali della collettività, secondo i principi di efficienza, efficacia e non aggravamento dell’azione amministrativa, che ormai costituiscono gli elementi fondanti del funzionamento e dell’esistenza stessa dell’apparato amministrativo.

Il raggiungimento del risultato e le garanzie di legalità attengono a valori giuridici differenti ma non per questo necessariamente inconciliabili o divergenti. Il Prof. Lazzara è convito che la legittimità dell’azione amministrativa possa integrarsi con una logica di risultato, in modo da contemperare l’inevitabile valenza attribuite alle “forme” con un approccio più prettamente “funzionale”.

Esemplificativo, al riguardo, è l’art. 2 della legge n. 241/1990, che ha previsto un termine di durata massima del procedimento amministrativo, nonché il successivo art. 21 octies, in base al quale in presenza di vizi di forma e di procedimento il provvedimento non possa essere annullato qualora risulti che il relativo contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso.

Premesso quanto sopra, nel quadro del progressivo ammodernamento del procedimento amministrativo, il rapporto tra procedimento amministrativo ed attività economica ha assunto sempre maggiore importanza negli ultimi anni, in base all’assunto che l’inefficienza amministrativa inevitabilmente determini ricadute negative sulla crescita economica, specie con riferimento all’attività “transfrontaliera” delle piccole e medie imprese.

L’attenzione della Parlamento Europeo e del Consiglio sul procedimento amministrativo si è manifestata con la direttiva n. 123/2006 relativi ai servizi, ispirata ai principi di “non aggravamento” e di accelerazione dei tempi del procedimento stesso.

Anche sulla scorta della citata normativa comunitaria, negli ultimi anni il legislatore ha così previsto una serie di strumenti volti a rendere il procedimento amministrativo più flessibile ed efficiente.

In primis”, con la legge n. 69/2009 è stato modificato l’art. 2 bis della legge n. 241/1990 introducendo il “danno da ritardo”.

Un altro aspetto importante di questa evoluzione è rappresentato dal crescente ricorso alle procedure telematiche, al fine di consentire ai cittadini interessati di poter interagire a distanza con la p.a. (ad es. per partecipare ad una gara, presentare una istanza). Importanti, al riguardo, sono state le innovazioni recentemente introdotte dal d.lgs. 235/2010, che ha modificato 53 articoli su 92 del d.lgs. n. 82/2005 “Codice dell’Amministrazione Digitale” , introducendone ulteriori 9.

La semplificazione amministrativa è stata propugnata, altresì, ampliando le prospettive di chi intende avviare una attività economica. Il modello di semplificazione per eccellenza è dato dal principio della “auto-responsabilità”, che trova oggi applicazione nella SCIA (“segnalazione certificata di inizio attività”), introdotta dall’art. 49 del d.l. n. 78/2010 (convertito nella legge n. 122/2010). A tal riguardo, secondo il Prof. Lazzara il procedimento amministrativo “non c’è più” in quanto viene “anticipato” dal privato (fermo restando il controllo “ex post” da parte della p.a. circa la sussistenza dei requisiti giuridici per l’avvio dell’attività e l’eventuale intervento inibitorio-sanzionatorio).

Al riguardo, il d.l. n. 112/2008 (convertito nella legge n. 133/2008), più volte modificato, ha dato piena garanzia del diritto di iniziativa economica privata, già a partire dalla SCIA. Nel solco di tale orientamento, il governo ha proposto recentemente un ddl costituzionale di riforma dell’art. 41 Cost. nel quale si specifica che chi intende iniziare una attività economica ha diritto a farlo e la p.a. non può condizionarlo.

In conclusione, il Prof. Lazzara ritiene che “semplificare” significa spostare l’equilibrio dall’interesse pubblico agli interessi privati economici, dando maggior peso alle situazioni giuridiche soggettive di chi esercita libertà di iniziativa economica. L’ampliamento della sfera di autonomia privata iniziata con la DIA e proseguita nel tempo ha come punto di arrivo la liberalizzazione dell’attività.

Al riguardo, gli studiosi ancora dibattono se la SCIA/DIA è da intendersi come liberalizzazione oppure no, in quanto, se si tratta di una vera e propria libertà, le eventuali controversie in materia dovrebbero essere attribuite al giudice ordinario. Il Prof. Lazzara ritiene che ad oggi le liberalizzazioni sono ancora confinate sul piano della “semplificazione”, trattandosi di un ambito “amministrativizzato” e non “libero”. Pertanto, tale materia è riconducibile alla competenza del giudice amministrativo.

Successivamente, il Prof. Tarullo ha considerato, in via preliminare, che gli istituti precedentemente analizzati dagli altri relatori sono stati interessati da ripetuti interventi riformatori da parte del legislatore “alla luce del sole”, mentre l’evoluzione della figura del “responsabile del procedimento”, oggetto del suo intervento, è stata meno evidente, in quanto rivisitata con “ritocchi” normativi che, pur tenendo conto delle novità introdotte dalla legge n. 15/2005, non ne hanno intaccato la fisionomia originaria delineata dalla legge n. 241/1990.

In particolare, tale norma ha configurato il “responsabile del procedimento” come una sorta di “omologo” del giudice istruttore del giudizio civile, in quanto deputato a raccogliere tutti gli elementi propedeutici all’emanazione del provvedimento finale.

Un “sensibile” mutamento è avvenuto con la legge n. 15/2005, che nell’introdurre il nuovo art. 6 lett. e) della legge n. 241/1990 ha precisato come il “responsabile del procedimento”, pur privo di competenza propria ad adottare un provvedimento amministrativo, abbia comunque il compito di ordinare gli interessi concreti in gioco, procedendo altresì a stilare una “bozza” di provvedimento amministrativo. Di fatto, il “responsabile del procedimento” dovrebbe assumere il ruolo di “pre-decisore”, deputato a valutare -e, se del caso, “moderare”- le posizioni dei soggetti interessati, in vista dell’adozione dell’atto finale da parte del reale decisore. Pertanto, l’istruttoria diventa vincolante per quest’ultimo, che vi si può discostare solo mediante motivazione.

Secondo il Prof. Tarullo, ora il “responsabile del procedimento”, proprio perché “pre-decisore” e non più mero istruttore dei fatti, deve relazionarsi al cittadino in una dimensione collaborativa, per evitare la smentita -pur motivata- dell’organo a competenza esterna, o l’annullamento a seguito di controllo “ex post” ovvero di ricorso amministrativo, gli eventuali richiami o sanzioni disciplinari per negligente conduzione dell’istruttoria. In sintesi, dal 2005 il “responsabile del procedimento” non è più mero collettore di fatti ma anche -e soprattutto- soggetto deputato a valutare gli interessi dei cittadini coinvolti, con il conseguente obbligo di cooperare con questi ultimi.

Nel quadro del rafforzamento del ruolo del “responsabile del procedimento” nello scegliere e ponderare gli interessi in gioco, l’art. 7 della legge n. 15/2005 ha introdotto l’art. 11 co. 4 bis nella legge n. 241/1990.

A tal riguardo, il Prof. Lazzara individua un netto parallelismo tra il potenziamento della funzione del “responsabile del procedimento” e l’evoluzione dell’organizzazione amministrativa avvenuta negli ultimi 20 anni, nel quadro della valorizzazione delle disposizioni costituzionali riferiti alla p.a. (artt. 2,3, 97, 98), cardini imprescindibili dell’ordinamento in materia.

L’idea di fondo è quella che ci deve essere una reale interazione tra p.a. e cittadino, configurando la prima come una sorta di “mediatore sociale” in grado di ergersi da arbitro tra istanze ed interessi diversi, proprio grazie ad una nuova capacità di dialogo, ascolto, ausilio nei confronti degli amministrati. Il procedimento amministrativo si deve intendere caratterizzato non da una mera sequenza di adempimenti bensì da un insieme di condotte “informali e colloquiali”, secondo il modello negoziale privatistico. Allo stesso modo, il “responsabile del procedimento”, lungi dall’adempiere alle sue funzioni assicurando il rispetto formale delle disposizioni in materia, deve saper sviluppare l’iter procedimentale in modo efficiente ed efficace, aperto al dialogo con eventuali soggetti terzi interessati.

E’ perciò positivo, secondo il Prof. Lazzara, che l’art. 10 della legge n. 69/2009 -introducendo il comma 2 bis all’art. 29 della legge n. 241/1990- inserisca tra i “livelli essenziali delle prestazioni” l’obbligo per le p.a. di individuare il “responsabile del procedimento”, affidandone così la disciplina alla competenza statale esclusiva.

Il Prof. Di Pace, partendo dalla disamina del Prof. Police, cioè la c.d. “fuga dall’amministrazione” e la “dequotazione” del procedimento amministrativo, ha evidenziato successivamente come, alla luce delle recenti modifiche alla legge n. 241/1990, le garanzie vengano applicate a soggetti che hanno rapporti con i cittadini ma che non sono p.a.

Al riguardo, il crescente utilizzo di forme organizzative di tipo privatistico per l’adempimento di funzioni pubbliche ha determinato, da parte del legislatore, l’adozione di norme volte a pubblicizzare tali soggetti, cioè a ricondurre la loro azione all’interno della disciplina amministrativa.

Per individuare quali sono i soggetti privati preposti ad attività amministrative, il Prof. Di Pace ritiene necessario verificare innanzitutto se le funzioni attribuite a questi soggetti sono amministrative in senso stretto o possono essere allargate anche alla gestione dei servizi pubblici, per poi esaminare, nel concreto, l’attività da loro svolta.

Il citato art. 1 comma 1 ter non prevede limitazioni, mentre l’art. 29 si applica alle società a capitale pubblico (totale o prevalente). Nello specifico, l’art. 1 co. 1 ter definisce l’attività amministrativa come quella volta a realizzare un fine pubblico anche nella prestazione di servizi pubblici alla collettività, facendo così venir meno la coincidenza con l’esercizio di poteri autoritativi che in passato caratterizzava la p.a. nella sua attività ordinaria, a prescindere dalla forma pubblicistica o privatistica del soggetto.

Tenuto conto che l’azione amministrativa si deve svolgere per sua natura in forma “procedimentalizzata”, è necessario che anche l’attività svolta da soggetti privati a fini pubblici risponda a questo requisito, talchè l’adempimento di funzioni pubbliche e la fornitura di servizi pubblici devono avvenire nel quadro di leggi, provvedimenti e convenzioni.

Per questo, l’art. 2 bis della legge n. 241/1990, concernente le sanzioni avverso l’inerzia della p.a., si applica anche ai soggetti di cui all’art. 1 ter, a conferma che anche per le attività espletate da soggetti privati che esercitano funzioni amministrative -intese in senso ampio- vale il principio della conclusione del procedimento entro un certo termine. Tali soggetti privati devono pertanto dotarsi di un regolamento ove indicare i limiti temporali entro i quali il procedimento deve essere ultimato.

E’ ovvio, comunque, che l’applicazione a tali soggetti dei principi dell’attività amministrativa riguarda solo le attività svolte da questi per interesse pubblico, cosa che pone un limite intrinseco alla pubblicizzazione degli stessi in quanto non può essere estesa fino a ricomprendervi ambiti di interesse meramente privatistico.

Successivamente, il Prof. Di Pace ha esaminato quali sono i soggetti privati preposti ad attività amministrative.

In primo luogo, si tratta degli “organismi di diritto pubblico”, rilevanti nell’ambito dell’attività negoziale della p.a.. Secondo il Codice dei contratti pubblici, sono tali quei soggetti privati che soddisfano bisogni non di carattere industriale o commerciale, erogando prestazioni alla collettività secondo i criteri ed i principi della legge n. 241/1990.

In secondo luogo, devono essere ricompresi quei soggetti che esercitano funzioni sia di amministrazione attiva che di certificazione (es. SOA, federazioni sportive quando agiscono come organi del CONI, concessionarie che si occupano della riscossione dei tributi). Nel caso dei concessionari di opere pubbliche, funzionali all’espletamento di un servizio pubblico, vengono applicate le disposizioni di cui alla legge n. 241/1990, mentre ciò non avviene in caso di affidamento di servizi collaterali ad una struttura pubblica.

Dopo aver così delineato, pur sommariamente, i soggetti sottoposti alla legge n. 241/1990, il Prof. Di Pace ha analizzato il problema delle società pubbliche, oggetto di una crescente forma di “pubblicizzazione” da parte del legislatore nel corso degli ultimi anni (ad es., nelle procedure concorsuali) che, di solito, gestiscono servizi pubblici e raramente esercitano funzioni amministrative in senso stretto.

Rimangono escluse dall’applicazione della legge n. 241/1990 le società pubbliche o a capitale prevalentemente pubblico che svolgono attività di mero supporto alla p.a. (es. Difesa Servizi S.P.A.), mentre le società “in house”, per essere sottoposte alla legge n. 241/1990, devono svolgere attività di interesse pubblicistico.

In conclusione, secondo il Prof. Di Pace occorre un ripensamento profondo di tutta la strategia che ha caratterizzato lo sviluppo della p.a. in forma societaria. Il modello privatistico è utile se segue il diritto civile, se invece deve conformarsi alle norme di diritto pubblico allora è preferibile tornare ai vecchi modelli dell’amministrazione. In sintesi, al fine di una maggiore chiarezza di sistema, è auspicabile perseguire fino in fondo il modello privatistico, ovvero tornare al vecchio sistema delle “Direzioni Generali”.

Il Prof. Acocella, riprendendo il concetto espresso dal Prof. Di pace circa l’azione amministrativa consistente in prestazioni a favore della collettività, rileva come si stia assistendo ad una progressiva affermazione dell’analisi economica del diritto, propria degli studi anglosassoni, a detrimento della logica giuridica.

Tale evoluzione si può rilevare anche nel recente dibattito sulla riforma dell’art. 41 Costituzione. Secondo il Prof. Acocella, questa disposizione deve essere esaminata tenendo conto del contesto culturale, all’epoca della Costituente, dominato dall’idea che l’iniziativa economica privata dovesse svolgersi sulla base di un “senso della collettività”, che trovava a sua volta espressione nella legge mediante “i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Il problema posto dall’art. 41, pertanto, non sarebbe questione di “lacci e lacciuoli” bensì di perseguimento dell’interesse pubblico. In questo contesto, la “sparizione del procedimento amministrativo”, inevitabile conseguenza di un approccio basato sull’analisi economica del diritto, pone rischi principalmente per i più deboli perché vengono meno le garanzie a loro tutela. Richiamando la teoria del Leviatano di Hobbes, Acocella considera come lo Stato, grazie al diritto, ha imparato a stabilire delle regole e, quindi, ad essere “simpatico”. Tuttavia, oggi questo “mostro simpatico” sta progressivamente sparendo e con questo una struttura collettiva che si esprime mediante diritto ed in grado di “tutelare i deboli nei confronti dei forti”.

Al termine del convegno, il Prof. Soricelli, nel ringraziare i relatori, conviene sul rischio che il procedimento amministrativo perda sempre più importanza.

La legge n. 241/1990 è nata per soddisfare i bisogni della collettività, tuttavia non è stata istruita adeguatamente la struttura amministrativa per le esigenze della collettività stessa. Il dipendente pubblico dovrebbe essere un interprete adeguato dei bisogni del cittadino, e la carenza di tale spirito di collaborazione rappresenta il problema principale del sistema amministrativo nazionale.

 

 

* Dottorando di Diritto Pubblico del XXVI Ciclo presso l’Università LUISS “Guido Carli”.

a cura di Massimo Nardini*