Nel mese di luglio 2011, sono stati pubblicati i risultati raggiunti nel negoziato fra il Comitato direttivo per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa e la Commissione europea, avviato ai fini della stesura dell’Accordo di adesione dell’Unione europea (“UE”) alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo (“CEDU”). Come noto, la nuova formulazione dell’art. 6, par. 2, TUE (secondo cui «[l]’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali») e l’entrata in vigore del Protocollo n. 14 alla CEDU (il cui art. 17 ha introdotto nell’art. 59 CEDU un par. 2, in virtù del quale «[l]’Unione europea può aderire alla presente Convenzione») hanno posto le basi giuridiche per l’adesione dell’UE alla CEDU. Dopo che la Commissione europea, già il 17 marzo 2010, rivolgeva al Consiglio la raccomandazione per l’avvio dei negoziati, richiesta dall’art. 218 TFUE e concessa il successivo 4 giugno, essi venivano avviati il 7 luglio 2010 fra la stessa Commissione e il Comitato direttivo per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, a ciò autorizzato dal Comitato dei Ministri con decisione del 26 maggio 2010 (CM/882/26052010).
I problemi che i negoziati erano chiamati ad affrontare erano, come la dottrina da tempo aveva messo in luce (vd. Villani, I diritti fondamentali tra Carta di Nizza, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e progetto di Costituzione europea, in Il diritto dell’Unione europea, 2004, p. 73 ss.), molteplici e piuttosto complessi: gli inidonei riferimenti ai soli Stati contenuti nella CEDU; la partecipazione dell’UE agli organi della CEDU; la compatibilità delle norme sui ricorsi interstatali (recte, inter partes) con la clausola di garanzia dell’esclusività del sindacato della Corte di giustizia in merito all’interpretazione e all’applicazione dei Trattati, contenuta nell’art. 344 TFUE; soprattutto, la necessità di individuare correttamente il potenziale responsabile della violazione della CEDU, a fronte dei diversi ruoli giocati, a seconda delle competenze, da UE e Stati membri, peraltro evitando che la Corte di Strasburgo si “intrometta” nella delimitazione delle competenze fra l’una e gli altri.
La bozza di accordo (CDDH-UE(2011)16 final) affronta solo in parte questi problemi. In primo luogo, sul piano generale, le parti hanno deciso di adottare una soluzione unitaria, da un lato, per l’adesione dell’UE, e, dall’altro, per le necessarie (e conseguenti) modifiche alla CEDU. Ciò, come si legge nel Rapporto esplicativo (par. 16), risponde alla finalità di evitare che l’UE depositi due strumenti di ratifica: uno per l’accordo di adesione e l’altro per l’accordo di modifica della CEDU (per il quale ultimo, ovviamente, sono necessarie anche le ratifiche di tutti gli Stati membri della CEDU). Peraltro, l’art. 1, par. 2, dell’accordo prevede una modifica all’art. 59, par. 2, CEDU, il quale verrà sostituito da una disposizione che, oltre a fare riferimento alla possibile adesione ai Protocolli aggiuntivi alla CEDU («[t]he European Union may accede to this Convention and the Protocols thereto. Accession of the European Union to the Protocols shall be governed, mutatis mutandis, by Article 6 of the Protocol, Article 7 of Protocol No. 4, Article 7 to 9 of Protocol No. 6, Article 8 to 10 of Protocol No. 7, Articles 4 to 6 of Protocol No. 12 and Article 6 to 8 of Protocol No. 13»), rimanda la disciplina relativa allo status dell’UE nella CEDU allo stesso accordo di adesione («[t]he status of the European Union as a High Contracting Party to the Convention and the Protocols thereto shall be further defined in the Agreement on the Accession of the European Union to the Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms»). Tale scelta si deve (vd. par. 20 del Rapporto) alla necessità di limitare gli emendamenti alla CEDU, alla quale, diversamente, sarebbe stato necessario porre mano in maniera molto più estesa. Si noti, infine, che l’eventualità prefigurata dalla nuova versione dell’art. 59 CEDU viene sfruttata già con l’accordo di adesione, in quanto con esso l’UE aderisce non solo alla CEDU ma (vd. art. 1, par. 1) anche ai Protocolli nn. 1 e 6.
Per il resto, tralasciando le questioni di natura formale — per le quali comunque gli artt. 1 e 4 dell’accordo introducono alcune modifiche, rispettivamente, all’art. 59 e agli artt. 29 e 33 CEDU —, in primo luogo l’art. 6 dell’accordo prevede le modifiche necessarie in relazione alla elezione dei giudici della Corte di Strasburgo: una delegazione del Parlamento europeo (pari a «the highest number of representatives to which any State is entitled under Article 26 of the Statute of the Council of Europe», e cioè 18) parteciperà alle sessioni dell’Assemblea parlamentare, allorquando quest’ultima eserciterà le funzioni relative all’elezione dei giudici della Corte. Come si legge nel Rapporto (par. 69), non è invece necessario un emendamento alla CEDU per consentire l’elezione del giudice “proposto” dall’UE, in quanto, secondo l’art. 22 CEDU, «[i] giudici sono eletti dall’Assemblea parlamentare in relazione a ciascuna Alta Parte contraente».
Modifiche sono anche previste in relazione alla partecipazione dell’UE al Comitato dei Ministri. L’art. 7 prevede che l’UE partecipi alle decisioni che la CEDU direttamente assegna al Comitato dei Ministri: si tratta soprattutto delle funzioni di controllo sull’esecuzione, da parte degli Stati membri, delle sentenze della Corte di Strasburgo (art. 46) e dell’accordo sulla composizione amichevole (art. 39), cui si aggiungono quelle relative all’attivazione della competenza consultiva della Corte CEDU (art. 47) e alla riduzione del numero dei giudici delle Camere (art. 26, par. 2). Peraltro, detto art. 7 ammette la partecipazione dell’UE anche a decisioni su cui la CEDU tace: si tratta, ad esempio, dell’approvazione di protocolli modificativi o aggiuntivi, ma anche delle norme di dettaglio sull’esercizio delle funzioni di controllo del Comitato dei Ministri, cui pure allude l’art. 46 CEDU.
Con riferimento proprio a queste ultime, l’accordo ha dovuto fronteggiare un problema piuttosto singolare: infatti, alla luce delle norme dei Trattati UE (soprattutto quelle contenute nell’art. 34 TUE), gli Stati membri dell’UE sono tenuti ad allinearsi, nelle organizzazioni internazionali, alle posizioni dell’UE, così prefigurando la possibile formazione di un blocco all’interno del Comitato dei Ministri in grado di mettere in minoranza gli Stati membri della CEDU che non siano parte dell’UE (27 Stati membri dell’UE, più l’UE stessa, a fronte di una minoranza di 20 Stati non-UE). Per ovviare a questo rischio, presente, secondo il Rapporto (par. 73), unicamente per le decisioni che il Comitato dei Ministri assume ai sensi degli artt. 39 e 46 CEDU (quelli, appunto, concernenti l’esercizio del controllo sul rispetto dei termini della composizione amichevole e sull’esecuzione delle sentenze), l’art. 7 prefigura tre ipotesi: quella in cui il controllo venga esercitato (a) sull’UE (anche “in solido” con i suoi Stati membri), (b) su uno Stato membro dell’UE o (c) su uno Stato non membro dell’UE. Mentre negli ultimi due casi la possibilità della formazione di un “blocco UE” sarebbe preclusa, secondo il Rapporto (vd. par. 80 s., nei quali è spiegato che nei casi sub (b) e (c) non vi è obbligo per gli Stati UE di allinearsi alla posizione dell’UE), nell’ipotesi sub (a) tale possibilità è invece certa, la qual cosa impone che «[t]he Rules of the Committee of Ministers for the supervision of the execution of judgments and of the terms of friendly settlements shall be adapted to ensure that the Committee of Ministers effectively exercises its functions in those circumstances». Di conseguenza, l’accordo contiene anche una bozza di modifica del Regolamento di procedura del Comitato dei Ministri, e in particolare del suo art. 18: in primo luogo, nelle decisioni riguardanti l’UE, anche “in solido” con i suoi Stati membri, è sufficiente la maggioranza degli Stati membri del Comitato che non sono parte dell’UE; tale maggioranza diventa dei due terzi (sempre degli Stati non-UE membri del Comitato dei Ministri) per le decisioni di cui all’art. 46, paragrafi 3 e 4 (si tratta delle nuove competenze introdotte dal Protocollo n. 14 che consentono al Comitato dei Ministri di adire la Corte di Strasburgo in merito all’interpretazione delle sue sentenze e all’accertamento della mancata esecuzione di esse da parte di uno Stato membro); infine, per le decisioni che chiudono la procedura di controllo (sempre con riguardo a casi riguardanti l’UE, anche “in solido” con i suoi Stati membri), stante la necessità di un largo appoggio anche degli Stati non-UE (vd. par. 78 del Rapporto), è richiesta una maggioranza dei due terzi di tutti i membri del Comitato, nella quale però figurino almeno la metà più uno degli Stati non-UE.
Come detto, un problema molto rilevante al quale i negoziati erano chiamati a trovare una soluzione era quello del rapporto fra le giurisdizioni delle due Corti (CEDU ed UE). L’accordo dedica ad esso l’art. 5, secondo cui le procedure di fronte alla Corte dell’UE non saranno considerate, ai fini degli artt. 35, par. 2, e 55 CEDU, quali istanze internazionali di inchiesta o di risoluzione: ciò preclude, da un lato, che ricorsi vertenti su questioni già decise dalla Corte dell’UE (tramite, per esempio, un ricorso per annullamento) siano dichiarati inammissibili, e che, dall’altro, l’avvio presso la Corte dell’UE di procedure che coinvolgono UE e/o Stati membri (si pensi alla procedura di infrazione prevista dall’art. 258 ss. TFUE o a quella deferita in base ad un compromesso, in virtù dell’art. 273 TFUE) possa implicare una violazione dell’art. 55 CEDU (secondo cui «[l]e Alte Parti contraenti rinunciano reciprocamente, salvo compromesso speciale, ad avvalersi dei trattati, delle convenzioni o delle dichiarazioni tra di esse in vigore allo scopo di sottoporre, mediante ricorso, una controversia nata dall’interpretazione o dall’applicazione della presente Convenzione a una procedura di risoluzione diversa da quelle previste da detta Convenzione»). L’accordo tace, invece, sulla questione forse più spinosa, vale a dire la compatibilità dei ricorsi inter partes, previsti dall’art. 33 CEDU, con l’art. 344 TFUE, giusta il quale «[g]li Stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti dai trattati stessi». Molto chiaramente il Rapporto esplicativo afferma che «[a]n issue not governed by the Accession Agreement is whether EU law permits inter-Party applications to the Court involving issues of EU law between EU member States, or between the EU and one of its member States», senza peraltro aggiungere alcunché in merito alla possibile soluzione del problema. In vero, una vecchia versione del Rapporto — CDDH-UE(2011)05, par. 71 — rimandava tale soluzione alle norme interne dell’UE, che dovrebbero risolvere «the question whether inter-party applications between EU member States, or between the EU and one of its member States, at least regarding acts adopted in accordance with EU law, should be allowed or not». Lo stesso Rapporto (par. 71) aggiungeva che «the Convention does not oblige Parties to bring a case against another Party, but merely entitles them to do so», aprendo così implicitamente alla soluzione forse più drastica, e cioè il divieto di proposizione dei ricorsi fra le Parti della CEDU nelle materie relative ai Trattati. In vero, un’altra soluzione ipotizzata in dottrina (vd. di nuovo Villani, loc. cit.) sembra meglio corrispondere allo spirito dell’adesione, in quanto impone di considerare irricevibili siffatti ricorsi quando non sia stata previamente attivata la competenza della Corte dell’UE; si tratta, in altre parole, di utilizzare il filtro del previo esaurimento dei ricorsi interni per consentire che la Corte di Lussemburgo si pronunci non in via esclusiva, ma almeno prima della Corte di Strasburgo.
Molto più delicata e complessa era la questione della possibile intromissione della Corte CEDU nella delimitazione delle competenze fra UE e Stati membri. Qui, la soluzione, da un lato, ha ricalcato esattamente le indicazioni emerse nella dottrina (Villani, loc. cit.), dall’altro, ha percorso una variante relativamente nuova. La soluzione prospettata è quella del c.d. secondo convenuto: per evitare che la Corte entri nel merito della divisione delle competenze, essa emetterà una sentenza “in solido” fra UE e Stato/i membro/i, i quali saranno parimenti responsabili della sua esecuzione, così venendo rimessa al negoziato la concreta individuazione del responsabile, in base alle rispettive competenze (sulle quali dunque la Corte CEDU non dovrà pronunciarsi). L’art. 3 dell’accordo prospetta due soluzioni speculari: nell’ipotesi in cui il ricorso sia proposto contro l’UE oppure contro uno o più Stati membri, la Corte può decidere di chiamare in causa come “co-respondent”, a seconda dei casi, uno o più Stati membri o l’UE. Il meccanismo, che — si badi bene — può essere messo in moto unicamente su richiesta di una delle parti contraenti (quindi l’UE o uno o più Stati membri), benché sia prevista una possibile “sollecitazione” della Corte (vd. par. 47 del Rapporto), è destinato a disciplinare due situazioni: quella in cui la violazione da parte dell’UE derivi dalla necessità di adempiere obblighi derivanti dai Trattati o da fonti di pari rango (secondo l’art. 3, par. 3, «if it appears that such allegation calls into question the compatibility with the Convention rights at issue of a provision of the Treaty on European Union, the Treaty on the Functioning of the European Union or any other provision having the same legal value pursuant to those instruments, notably where that violation could have been avoided only by disregarding an obligation under those instruments») e quella in cui la violazione statale derivi dalla necessità di adempiere un obbligo discendente dal diritto dell’UE (secondo l’art. 3, par. 2, «if it appears that such allegation calls into question the compatibility with the Convention rights at issue of a provision of European Union law, notably where that violation could have been avoided only by disregarding an obligation under European Union law»). L’art. 3, peraltro, prevede anche un meccanismo inverso: infatti, quando il ricorso è diretto sia contro l’UE che contro uno o più Stati membri, ciascuno dei convenuti può chiedere alla Corte di cambiare il proprio status in quello di co-respondent.
Il par. 54 del Rapporto svela la preoccupazione che ha indotto alla creazione del meccanismo del secondo convenuto: se la Corte accerta una violazione, «it is expected that it would ordinarily do so jointly against the respondent and the co-respondent(s); there would otherwise be a risk that the Court would assess the distribution of competences between the EU and its member States». Peraltro, il Rapporto sottolinea che «[t]he respondent and the co-respondent(s) may, however, in any given case make joint submissions to the Court that responsibility for any given alleged violation should be attributed only to one of them». Gli effetti della chiamata del secondo convenuto sono molteplici: da alcuni di carattere “secondario” — ma nemmeno troppo: ad esempio, la composizione amichevole deve avvenire con il consenso di tutte le parti, compreso il secondo convenuto; al contrario, il riesame alla Grande Camera può essere chiesto da una della parti, senza il consenso dell’altra — a quello, principale, per cui la sentenza di accertamento della violazione vincolerà, in solido, tutte la parti coinvolte. L’art. 3 dell’accordo, infatti, introduce una modifica all’art. 34 CEDU che, eguagliando il secondo convenuto a parte della causa, determinerà un’estensione ad esso dell’obbligo, previsto dall’art. 46 CEDU, di conformarsi alla sentenza della Corte.
Particolarmente interessante è invece l’emersione del problema del rispetto della natura sussidiaria del meccanismo della CEDU in vista dell’adesione dell’UE. Secondo il Rapporto (par. 57 ss.), è possibile che, di fronte ai giudici nazionali, ai quali l’individuo deve previamente fare ricorso per poter accedere al meccanismo della CEDU, non venga necessariamente attivato il meccanismo del rinvio pregiudiziale di legittimità, realizzandosi così la situazione in cui di fronte alla Corte CEDU vengano in rilievo atti dell’UE sui quali la Corte dell’UE non si sia mai potuta pronunciare. In altre parole, affinché la natura sussidiaria della giurisdizione della Corte CEDU venga rispettata, è necessario che, previamente, si siano pronunciati i giudici interni; qui, il giudice “interno” è la Corte di giustizia dell’UE, la cui competenza, però, non sempre viene innescata in via diretta ma, di frequente, anche in via indiretta, grazie al rinvio pregiudiziale dei giudici nazionali. Tale rinvio, tuttavia, non è obbligatorio per i giudici di grado inferiore e, in vero, in alcuni casi non lo è neppure per i giudici di ultimo grado, senza contare che, anche laddove lo sia, il giudice può ritenere la questione non rilevante e, quindi, non operare il rinvio. Per questa ragione, la Corte dell’UE deve poter essere rimessa in gioco, anche (e soprattutto) laddove il meccanismo della CEDU sia stato già messo in moto. A questo scopo, l’art. 3, par. 6, dell’accordo afferma che, prima della decisione della Corte CEDU, nei casi naturalmente in cui l’UE figuri come secondo convenuto (in quelli in cui sia il convenuto principale non si porrebbe il problema di una mancata attivazione del rinvio pregiudiziale, ma semmai di un non previo esaurimento dei rimedi interni), «if the Court of Justice of the European Union has not yet assessed the compatibility with the Convention rights at issue of the provision of European Union law […], then sufficient time shall be afforded for the Court of Justice of the European Union to make such an assessment and thereafter for the parties to make observations to the Court». La vecchia versione del Rapporto (CDDH-UE(2011)05, par. 62) precisava che il meccanismo non è automatico, ma condizionato ad una richiesta proveniente da chi verrà individuato dal diritto dell’UE — verosimilmente, stando a quel Rapporto, la Commissione europea e/o lo Stato originariamente convenuto. L’attuale Rapporto si limita a rimandare la soluzione al diritto dell’UE (vd. par. 58) e, del resto, poco aggiunge sugli effetti della pronuncia della Corte dell’UE: il suo par. 60 sottolinea seccamente che la Corte CEDU non sarà vincolata alla decisione della Corte dell’UE, che peraltro deve pronunciarsi in tempi brevi (par. 61). Sempre stando al vecchio Rapporto, invece, gli effetti della sentenza della Corte dell’UE sarebbero diversi, a seconda dei casi: se l’atto dell’UE passa l’esame della sentenza dei giudici di Lussemburgo, praticamente non cambia nulla, la Corte CEDU rimanendo libera di accertare la violazione, anche da parte dell’UE, la quale soltanto può, per difendersi, fare riferimento agli argomenti utilizzati dalla “propria” Corte. Nel caso in cui, invece, quest’ultima accerti la contrarietà dell’atto dell’UE ai diritti fondamentali, sono possibili più varianti: escluse conseguenze di natura diretta sul procedimento di fronte alla CEDU, esso può chiudersi nel caso in cui le norme nazionali prevedano una riapertura del caso presso i giudici nazionali, sempre che la violazione sia colà «fully remedied». Al contrario, ove tale riapertura non sia prevista, l’UE può rilasciare una dichiarazione unilaterale con la quale riconosca sia la violazione della CEDU sia il legame sostanziale fra questa e il proprio atto: in tal caso, la Corte CEDU può procedere alla cancellazione dal registro, sempre che «such unilateral declaration offers a sufficient basis for finding that respect for human rights does not require the continued examination of the case».
L’accordo entrerà in vigore, secondo l’art. 10, il primo giorno del mese successivo a quello in cui spirerà un termine di tre mesi dall’ultima ratifica, sia essa proveniente da uno Stato membro o dall’UE.