L’INTERCOMUNALITÀ IN ITALIA E IN EUROPA. LUISS – Guido Carli. Roma, 30 maggio 2011

24.05.2011

Il 30 maggio 2011, su iniziativa del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet” e della Scuola superiore di pubblica amministrazione locale, si è svolto presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma il Convegno internazionale dal titolo “L’intercomunalità in Italia e in Europa” quale momento di confronto tra esperti in vista della conclusione della ricerca svolta dal Centro Bachelet che ha inteso indagare i fenomeni e le forme dell’associazionismo intercomunale in Italia, Francia, Germania, Spagna e Polonia.

 In apertura, il Prof. Gian Candido De Martin, in qualità di responsabile del progetto, ha introdotto i lavori sottolinenando come, allo stato attuale, gli enti locali del nostro paese si trovino in una situazione di estrema incertezza a causa delle notevoli titubanze che riguardano l’iter l’approvazione della Carta delle autonomie locali e, in particolare, la mancata individuazione in via definitiva e puntuale delle funzioni fondamentali dei livelli di governo locali. Tali considerazioni fanno emergere un quadro che aggrava ulteriormente la condizione attuale dei Comuni italiani, caratterizzati, com’è noto, da un alto grado di frammentarietà e, per il 75 per cento, aventi una popolazione inferiore ai 5 mila abitanti. Lo strumento associativo si pone, dunque, come l’unica via percorribile al fine di mettere tali realtà nelle condizioni di riuscire a gestire efficacemente le funzioni loro affidate e svolgere il ruolo di perno dell’amministrazione generale, così come previsto dal novellato art. 118 della Costituzione.

Un’ipotesi di riordino generalizzato delle circoscrizioni comunali volte all’istituzione di un fantomatico comune ottimale secondo un’impostazione (di stampo illuministico) che ciclicamente viene da taluni proposta, non sarebbe infatti coerente con il principio autonomistico sancito all’art. 5 Cost., che riconosce i Comuni per quelli che sono, con il loro portato storico, culturale e identitario, e non per quello che si vorrebbe che essi fossero. Parallelamente, non risulta avere particolare seguito l’ipotesi di differenziazione delle funzioni amministrative, suddividendole per classi differenti di comuni. Va, invece, sempre più maturando la prospettiva di realizzare su vasta scala forme di associazionismo intercomunale che consentano ai piccoli Comuni di raggiungere adeguati livelli dimensionali sul piano gestionale e, conseguentemente, di svolgere efficacemente le funzioni amministrative ad essi demandate.

Fino ad oggi, le esperienze che si sono registrate in questo senso si sono sviluppate a partire dalle libere iniziative dei singoli Comuni, grazie, in certe occasioni, alle incentivazioni predisposte da parte delle Regioni. La prospettiva futura (nella Carta delle autonomie locali in itinere) dovrebbe invece basarsi sullo sviluppo di soluzioni associative di tipo polifunzionale aventi carattere obbligatorio, quali le Unioni di Comuni, come già previsto peraltro – sia pure in forma più assertiva che operativa – dal decreto legge n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010. Al momento, infatti, solo le Comunità montane possono essere considerate, tra l’altro non del tutto unanimemente, come enti intercomunali a carattere obbligatorio.

 Il primo relatore a intervenire è stato il Prof. Tomàs Font y Llovet, dell’Università della Catalogna, il quale ha relazionato sull’esperienza spagnola, rilevando come, in tale ordinamento, le esperienze associative intercomunali si caratterizzano per essere sostanzialmente differenziate da una Comunità autonoma all’altra comportando non poche difficoltà nel giungere ad un’analisi di sistema. In seguito al processo di riforma degli statuti delle Comunità autonome intrapreso nel 2006, è possibile affermare che vi sia una sorta di potestà legislativa di carattere quasi esclusivo da parte delle Comunità stesse in materia di enti locali e, conseguentemente, di forme associative intercomunali. In alcune Comunità, gli statuti dettano essi stessi disposizioni dettagliate in materia di forme associative: il caso più eclatante è rappresentato dalla Catalogna, il cui statuto riconosce ai singoli Comuni il diritto di associarsi, con il solo limite della tutela dell’autonomia degli altri enti locali, onde evitare uno svuotamento delle funzioni ad essi demandate.

Gli Statuti delle Comunità autonome fanno riferimento ad una pluralità di esperienze quali le Mancomunidades, le Associazioni, i Consorzi e le Intese, ammettendo anche il principio di differenziazione. Attualmente si registra, in particolare, la messa in discussione delle Comarcas, enti di area vasta creati dalla Comunità auotnome spesso in contrapposizione con le Province, nonostante in alcune zone del paese, come ad esempio in Aragona, dove il 70 per cento della popolazione vive nel capoluogo di Saragozza, svolgano un ruolo fondamentale di supporto ai piccoli Comuni.

L’attività di legiferazione delle Comunità autonome ha portato a un successivo sviluppo delle disposizioni degli Statuti, prevedendo la creazione di forme di cooperazione intercomunale molto forti, con precise potestà pubbliche, poteri tributari, sanzionatori ed espropriatori, avvicinandosi in questo modo al profilo del vero e proprio ente locale caratterizzato dalla stabilità.

Parallelamente si sta svolgendo un dibattito particolarmente acceso a livello statale, dove vanno registrati numerosi progetti di legge che faticano, tuttavia, ad andare in porto sia per la difficoltà da parte dello Stato ad avere un quadro chiaro delle proprie competenze in materia, sia per il grande dibattito sviluppatosi attorno al tema delle Province che funge sostanzialmente da tappo allo sviluppo dell’associazionismo. In generale la legislazione statale tende a porre numerosi limiti in questo ambito: si prevede che le forme associative non possano svolgere tutte le funzioni spettanti ai Comuni; che non si possano esercitare in forma associata le funzioni di polizia; e che, anche sulla base della normativa europea in materia di concorrenza e mercato, un Comune di grandi dimensioni non possa offrire i propri servizi a quello confinante di piccole dimensioni. In questo quadro, la crisi economica rischia altresì di creare ulteriore accentramento.

 Il Prof. Gerard Marcou, dell’Università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne, è intervenuto quindi in merito all’esperienza francese, rilevando, in apertura, come tra gli interventi normativi di trasferimento di competenze agli enti locali degli anni ’80 e la riforma costituzionale del 2003 e gli anni successivi, non sia passato anno senza un intervento più o meno marginale in materia di enti locali: in particolare nel 1999 il legislatore francese è intervenuto prevedendo che gli enti pubblici territoriali di cooperazione intercomunale dispongano di tributi propri; mentre, nel 2004, si è proceduto ad un ulteriore trasferimento di funzioni a livello locale.

Il rapporto predisposto nel 2008 dalla Commissione Attali, che prevedeva la soppressione dei Dipartimenti fu respinto dal Presdiente Sarkozy. La successiva Commissione Balladour ha individuato un percorso di riforme istituzionali dei livelli di governo locale che prevede una sostanziale semplificazione introdotta con legge alla fine del 2010: in primo luogo è stata prevista la riconduzione nelle nuove figure dei Consiglieri territoriali del ruolo svolto in questo momento dai Consiglieri regionali e da quelli generali (dei Dipartimenti); l’incentivazione della trasformazione in veri e propri Comuni delle numerosissime forme attualmente esistenti di cooperazione intercomunale; nonché l’istituzione di un nuovo ente locale, la Métropole, preposto a sostituirsi ai Comuni e ai Dipartimenti nelle zone di maggiore densità demografica.

Con queste misure si intendeva porre fine all’intercomunalità come esperienza generalizzata che, in seguito alle misure di incentivazione fiscale introdotte nel 1999, è riuscita a riunire ben 34 mila Comuni, pari al 95,5 per cento del totale, e 58 milioni di abitanti, pari al 90 per cento dell’intera popolazione francese. Al gennaio 2011 risultano essere presenti 106 Comunità urbane (che devono ricomprendere almeno 500 mila abitanti), 180 Comunità di agglomerazione (che devono riusnire almeno 50 mila abitanti e almeno un Comune con più di 15 mila abitanti) e circa 2.600 Comunità di Comuni (non soggetti a limiti demografici). Tra queste vi sono differenze sostanziali per quanto concerne le competenze e le regole organizzative, ma sono tutte dotate di organi di tipo derivato e l’iniziativa relativa all’istituzione è rimessa alla volontà dei singoli Comuni, seppur prevedendo un ruolo di guida da parte del Prefetto che, in caso di parere favorevole da arte della Commissione dipartimentale per la cooperazione intercomunale composta da delegati dei Sindaci, può arrivare ad obbligare ad associarsi i Comuni che fossero contrari.

Con le nuove disposizioni del 2010 si prevede dunque di generalizzare l’intercomunalità e incentivarne la fusione. In particolare, è stato previsto: il rafforzamento del parere da parte della Commissione dipartimentale per la cooperazione intercomunale sullo schema di istituzione della forma associativa proposta da parte dei singoli Comuni; l’istituzione di forme di raccordo con i Comuni isolati che non potranno più esistere; l’elezione diretta dei componenti degli organi delle forme di cooperazione intercomunale; la possibilità di trasferire alle forme associative l’esercizio delle funzioni di polizia locale; le modalità (referendum popolare e approvazione a maggioranza assoluta da parte di tutti i Consigli comunali) attraverso le quali è possibile trasformare le forme di cooperazione intercomunale in Comuni unitari l’istituzione della Métropole come nuovo livello di governo locale delle aree metropolitane. Nel corso dei due anni previsti per l’attuazione di tale riforma, l’obiettivo principale che si intende perseguire è rappresentato della massima riduzione possibile del doppio livello di governo comunale mediante il più ampio ricorso alle fusioni tra Comuni.

 Il Prof. Joerg Luther, dell’Università del Piemonte orientale, è invece intervenuto in relazione all’esperienza tedesca, rilevando, in apertura, come vi sia una sostanziale impossibilità di tracciare un quadro generale delle forme associative in tale ordinamento, stante la competenza in materia di ordinamento locale riservata ai singoli Lander. Le esperienze di maggiore rilievo sono state riscontrate in quelli orientali in seguito alle riforme predisposte in seguito al 1989.

È inoltre interessante notare che l’ambito della cooperazione intercomunale è ricompreso nel novero dei diritti fondamentali degli enti territoriali, così come sono stati configurati da parte della giurisprudenza costituzionale regionale e federale.

Tra le differenti forme di cooperazione intercomunale istituite nei vari Lander, è possibile riassumerli in quattro differenti categorie definibili come: Conferenze intercomunali dei servizi; Consorzi; Comuni compositi/Unioni di Comuni; Città metropolitane. Qualora a tali livelli di governo fosse affidato l’esercizio di numerose funzioni, vi è il rischio di un’effettiva erosione della democrazia locale. La prospettiva della fusione di piccoli Comuni può derivare da un taglio di risorse in favore degli enti locali, mentre, le forme di incentivazione potrebbero sortire un effetto contrario.

 Ha preso quindi la parola la Dott.ssa Kasia Jakimowicz che da presentato la relazione elaborata da parte del Prof. Zbigniew Witkowski, dell’Università di Torun, nella quale si sottolinea, anzitutto, che la stessa Costituzione polacca, all’art. 172, riconosce agli enti territoriali il diritto di associazione e di unirsi ad enti territoriali di altri paesi in associazioni internazionali. In Polonia, ogni cooperazione tra enti territoriali si basa sul principio di volontarietà e di pari dignità istituzionale tra gli enti cooperanti. In particolare, la legge 8 marzo 1990 prevede che le forme di cooperazione intercomunale possono essere utilizzate per lo svolgimento associato di funzioni e servizi e che i Comuni, le Unioni di Comuni e le altre forme associative possono prestarsi aiuto reciproco e fornire eventualmente supporto ad altri enti locali, incluso quello finanziario.

Le forme di cooperazione intercomunale più diffuse sono le Unioni di Comuni, le Intese e le Associazioni. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad una soluzione istituzionale molto simile a quella presente in Italia sia per struttura che per ordinamento, con la sola eccezione data dal fatto che esse possono essere istituite anche in modo obbligatorio dalla legge, imponendo ai Comuni di associarsi, e che esse possono essere istituite anche tra Distretti, che corrispondono ai livelli di governo di area vasta. Le Unioni di Comuni e di Distretti sono soggetti di diritto pubblico autonomi, con personalità giuridica in grado di agire giuridicamente in modo del tutto autonomo dai soggetti che esse riuniscono. Le intese rappresentano invece delle strutture di supporto dei Comuni che continuano a gestire direttamente le funzioni e i servizi ad essi demandati. Le associazioni non sono invece forme di cooperazione per l’esercizio di funzioni amministrative, bensì strutture per la rappresentanza comune esecutiva tanto dei Comuni, quanto dei Distretti che dei Voivodati (Regioni), la cui organizzazione, i compiti e le modalità di funzionamento sono definite dai rispettivi statuti.

 Il Dott. Vincenzo Antonelli, ricercatore di Diritto amministrativo presso la LUISS Guido Carli, è intervenuto analizzando il fenomeno dell’associazionismo comunale nel quadro dei principi europei sulle autonomie locali, tanto nel quadro normativo del Consiglio d’Europa, quanto in quello definito dall’Unione europea. Sul primo fronte troviamo un quadro decisamente più avanzato, nel quale la Carta delle autonomie locali riconosce il fondamento costituzionale al principio autonomistico, il diritto all’autonomia e il diritto di associazione, con l’annoso limite, tuttavia, che tali disposizioni si rivolgono semplicemente ai singoli Stati membri e non aprono un nuovo livello istituzionale per le autonomie locali. Interventi successivi risalgono al 2007, quando, nella Dichiarazione di Valencia, si è posto il buon governo come un obiettivo da realizzare anche a livello locale, senza riferirsi tuttavia alle forme associative e quando il Congresso dei poteri locali ha approvato la raccomandazione n. 221.

Sul fronte dell’Unione europea, invece, va registrato come storicamente il profilo dell’autonomia locale avesse una rilevanza esclusivamente statale, anche per il riconoscimento a livello internazionale della sola la responsabilità statale e non anche delle autonomie territoriali. Solamente nel corso degli anni ’90, con alcune sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità europee, gli enti locali iniziano ad assumere un rilievo a livello comunitario. Forme di cooperazione territoriale tra Comuni assumono rilievo mediante l’istituzione di reti tematiche; di un gruppo europeo di cooperazione territoriale, che non può comunque riguardare l’esercizio di poteri conferiti dal diritto pubblico e non comunque le funzioni; l’esperienza dei gemellaggi, quali forme di cooperazione per lo scambio di informazioni e le best practices.

In seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, gli Stati membri assumono rilievo nelle loro articolazioni territoriali interne, con il riconoscimento della rilevanza dei sistemi locali e regionali (art. 4) e l’introduzione del principio di prossimità delle decisioni pubbliche che identifica le autonomie locali come democrazie di vicinanza (art. 10). Un limite consistente al nuovo sistema istituzionale è rappresentato dal fatto che il riconoscimento e la garanzia del principio di sussidiarietà non va oltre ai livelli di governo regionali, ignorando totalmente quelli locali.

Affinché l’Unione europea si possa davvero qualificare come una struttura di tipo multilevel sarebbe necessario che le prospettive future conducessero al passaggio da un principio funzionale a un principio di tipo istituzionale e strutturale, mediante la previsione di forme di garanzia anche a livello sovrastatale, attraverso meccanismi che necessariamente produrrebbero ricadute di ordine costituzionale. Si pongono, in particolare, tre differenti prospettive: in primo luogo, secondo un approccio che potrebbe essere definito come il più debole, l’Unione europea potrebbe assumere e fare propria la Carta delle autonomie locali; d’altra parte il principio autonomistico, richiamato sotto diverse forme nelle carte costituzionali di tutti gli Stati membri e qualificabile come un vero e proprio minimo comun denominatore dell’architettura costituzionale di tutti gli Stati, potrebbe essere sviluppato a partire dalla disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che richiama le tradizioni costituzionali comuni; in terzo e ultimo luogo, sarebbe possibile prendere le mosse dalla direttiva n. 94 del 1980, che contiene una definizione di ente locale di base, e dalle tre dimensioni sulle quali rileva il principio autonomistico in Europa: il Comitato delle Regioni; il piano operativo in cui si sviluppa il principio di sussidiarietà; il piano rappresentativo e della cittadinanza europea.

 Il Prof. Guido Meloni, dell’università del Molise, ha invece affrontato il tema dell’associazionismo comunale in modo estremamente problematico affermando come non ci si possa soffermare sulle sole questioni organizzative: il tema dell’allocazione e dello svolgimento delle funzioni amministrative, infatti, impone un’analisi che tenga in debita considerazione il tema delle garanzie nei confronti delle autonomie locali rispetto al quadro costituzionale. Le garanzie costituzionali sono infatti previste per i soli enti pubblici territoriali costituzionalmente necessari, individuati all’art. 114 in Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, e non anche per le forme di cooperazione intercomunale che possono eventualmente essere instaurate. Tale situazione potrebbe produrre il pericoloso paradosso in base al quale il Comune associato sarebbe meno garantito rispetto al Comune che resta al di fuori da percorsi di cooperazione intercomunale. Preoccupa inoltre che tale situazione risulta essere anche solo parzialmente avvallata dalla Corte Costituzionale, la quale ammette il fatto che le Comunità montane siano meno garantite degli enti locali costituzionalmente necessari nei confronti dell’eventuale esercizio di poteri sostitutivi da parte della Regione. La previsione dell’esercizio obbligato delle funzioni da parte dei Comuni al di sotto di una data soglia demografica prevista dalla legge n. 122 del 2011, per quanto possa essere apprezzabile, risponde unicamente a esigenze di bilancio ed è stata prevista senza considerare a sufficienza le conseguenze che si sarebbero prodotte nei rapporti con altre realtà. Altro aspetto problematico è rappresentato dalla mancata legittimazione democratica diretta degli organi delle forme associativa che potrebbe essere risolta mediante la previsione dell’elezione diretta, appena introdotta in Francia.

  Le conclusioni finali sono state svolte dal Prof. Francecso Merloni, dell’Università di Perugia, il quale ha rilevato che la questione dell’intercomunalità rigurda essenzialmente due tematiche differenti: il riordino delle circoscrizioni comunali, attribuendo l’esercizio delle funzioni a livelli di governo adeguati; e le forme di cooperazione tra Comuni. Italia, Francia e Spagna sono paesi tradizionalmente a governo locale debole, nei quali lo Stato era solito spostare le funzioni progressivamente verso livelli di governo superiori; nell’ottica di una drastico ribaltamento di tale tendenza, le forme associative si pongono come uno strumento adeguato per procedere all’esercizio congiunto di servizi e di talune funzioni, ma non per lo svolgimento di attività di governo del territorio. Rispetto ai piccoli Comuni, infatti, l’ipotesi di un’elencazione differenziata delle funzioni, distinte per categorie demografiche differenti di Comuni rappresenta una pessima attuazione della sussidiarietà verticale: le funzioni locali devono infatti essere svolte in ogni caso dall’ente comunale, quale che sia la condizione dimensionale e demografica. A tal proposito, le soluzioni migliori sono quelle attuate dalla Francia, in cui i Comuni si trovavano nella situazione di associarsi o morire, nelle quali le forme associative dispongono di tributi propri.

Tutto ciò andrà dunque attuato anche in Italia tenendo sempre ben presente che l’introduzione su vasta scala di forme di associazionismo intercomunale rischia di complicare e non di semplificare il quadro istituzionale italiano; che le forme associative devono permettere sempre e comunque di governare secondo il principio di adeguatezza e che, il più delle volte, non è possibile distinguerne il ruolo politico da quello meramente amministrativo; e che un’eventuale differenziazione regionale non potrà prescindere dalla sempre necessaria quota di uniformità a livello statale.

A cura di Alessandro Maria Baroni