Ad. Plen. n. 9 del 2011L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 2011 si segnala non solo perché fornisce un contributo chiarificatore in merito alla portata del principio del tempus regit actum nelle procedure concorsuali, ma anche in considerazione delle argomentazioni relative alla retroattività delle norme di interpretazione autentica, quale fattispecie eccezionale rispetto alla regola generale secondo cui la legge può disporre solo pro futuro, nonché di quelle sui limiti di estensione dei principi enunciati dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dal Trattato di Lisbona nell’ambito di un procedimento amministrativo.
La controversia devoluta alla cognizione dell’Adunanza plenaria riguarda una procedura di stabilizzazione riservata a particolari categorie di soggetti che avessero già intrapreso una forma di rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica Amministrazione, nel corso della quale era intervenuta una disposizione ad hoc, ossia una legge provvedimento, di natura interpretativa di uno degli originari requisiti richiesti per accedere alla procedura, il cui effetto ultimo era stato quello di escludere numerosi soggetti che avevano già presentato domanda.
Avverso i provvedimenti di esclusione avevano promosso ricorso numerosi ricorrenti, contestando sia l’inapplicabilità della norma sopravvenuta alla procedura in itinere, sia la questione di legittimità costituzionale della norma sopravvenuta. Il TAR Lazio – Roma, aveva respinto tutti i ricorsi ed in sede di decisione dell’istanza cautelare allegata ai ricorsi in appello proposti per la riforma delle sentenze di primo grado, si era registrata una difformità di vedute nei diversi Collegi del Consiglio di Stato che erano stati investiti della vicenda. Per inciso, si evidenzia che la Corte Costituzionale, con la sentenza 20 ottobre 2010, n. 303, aveva escluso l’illegittimità costituzionale delle norme contestate.
Vista la delicatezza della vicenda controversa, dovuta al sovrapporsi di distinte questioni di diritto attinenti anche ai rapporti con i Trattati internazionali, la Sesta Sezione decideva di rimettere la decisione all’Adunanza plenaria, ritenendo, in particolare, che ai fini dell’indagine sulla natura interpretativa – e, quindi, retroattiva – della norma sopravvenuta occorresse anche tenere presente i principi affermati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in virtù dei i quali la legge interpretativa generale e astratta (comunque irrilevante a fronte di un giudicato) è conforme all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo solo se supportata da “motivi imperativi di interesse generale”, configurabili quando la norma interpretativa corrisponda all’originario contenuto di quella interpretata risolvendo oscillazioni giurisprudenziali e, comunque, non può mai retroattivamente incidere su un “numero limitato di soggetti” ed estinguere “diritti intangibili”.
In questo senso, la Sezione Sesta solleva il dubbio che la norma sopravvenuta possa considerarsi una legge provvedimento retroattiva vietata dall’art. 6 della CEDU, e non di “norma di interpretazione autentica” generale e astratta.
Secondo l’Adunanza plenaria, la risoluzione della controversia richiede l’esame di tre questioni, rispettivamente attinenti la natura della norma sopravvenuta (ossia se possa o meno considerarsi interpretativa e, quindi, ad efficacia retroattiva), alla legittimità di una norma interpretativa destinata ad incidere sulla disciplina di un procedimento concorsuale in atto e, in caso affermativo, i limiti di tutela del legittimo affidamento in capo ai concorrenti tali da impedire tale effetto retroattivo.
Con riferimento alla prima questione l’Adunanza plenaria riconferma il principio generale invalso nella giurisprudenza costituzionale per cui il Legislatore può adottare norme di interpretazione autentica “con l’effetto proprio della vincolatività retroattiva”, purché “il significato della norma interpretata … rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore”. In altri termini, l’intervento del legislatore può ritenersi conforme a Costituzione nella misura cui esso sia effettivamente volto a superare la preesistente obiettiva incertezza sul significato di una norma. Proprio in applicazione di tali principi, il Consiglio di Stato ha riconosciuto natura interpretativa alla norma contestata, in quanto la nuova disposizione, pur rendendo manifesta un’interpretazione restrittiva, esplicitava una delle possibili opzioni ermeneutiche sin dall’origine desumibili dalla legge.
Con riferimento alla seconda questione, l’Adunanza plenaria ha richiamato, anzitutto, i principi invalsi nella giurisprudenza amministrativa in tema di ius superveniens in materia di pubblici concorsi, in virtù dei quali “le disposizioni normative sopravvenute in materia di ammissione dei candidati, di valutazione dei titoli o di svolgimento di esami di concorso e di votazioni non trovano applicazione per le procedure in itinere alla data della loro entrata in vigore, in quanto il principio tempus regit actum attiene alle sequenze procedimentali composte di atti dotati di propria autonomia funzionale, e non anche ad attività (quale è quella di espletamento di un concorso) interamente disciplinate dalle norme vigenti al momento in cui essa ha inizio”.
Secondo l’Adunanza plenaria, quindi, “mentre le norme legislative o regolamentari vigenti al momento dell’indizione della procedura devono essere applicate anche se non espressamente richiamate nel bando, le norme sopravvenienti per le quali non è configurabile alcun rinvio implicito nella lex specialis, non modificano, di regola, i concorsi già banditi «a meno che diversamente non sia espressamente stabilito dalle norme stesse»”. In definitiva, le norme sopravvenute sono insuscettibili di modificare le procedure concorsuali in svolgimento, salva una diversa espressa previsioni in tal senso disposte con norma eccezionale; nella fattispecie controversa la deroga è stata espressamente posta da legge provvedimento.
L’ultimo profilo riguarda l’analisi della posizione degli appellanti, al fine di verificare se siano titolari o meno di un legittimo affidamento, come tale meritevole di tutela.
A questo proposito, il Consiglio di Stato, nell’escludere la sussistenza di tale posizione, si rifà alla giurisprudenza della Corte Costituzionale relativa alle norme interpretative, secondo cui un legittimo affidamento “non può dirsi formato se il significato normativo della disposizione interpretata non risultava all’origine siffattamente chiaro da ingenerare affidamento nella sua univoca applicazione, ma era invece obbiettivamente caratterizzato da una riconoscibile ambiguità idonea a produrre incertezza sulle modalità applicative, e se tra i suoi possibili significati vi era quello poi scelto dalla norma interpretativa che, in tale caso, non può dirsi veicolo di un regolamento irrazionale della fattispecie”.
Da ultimo, merita di essere segnalato come il Consiglio di Stato, pur consapevole di dover riconoscere “la massima rilevanza di quanto prospettato dalla richiamata giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sui limiti e i possibili vizi delle leggi interpretative”, precisa come “tale giurisprudenza non riguarda le dette leggi in via generale ma la loro compatibilità con quanto prescritto dall’art. 6 della CEDU, e perciò rispetto al «diritto ad un processo equo» ivi disciplinato, essendo riferita a casi di norme retroattive interferenti con giudizi in corso”.
Diversamente, nella fattispecie controversa, “la citata giurisprudenza della Corte di Strasburgo non può essere ritenuta adattabile … per il motivo che, come prospettato in taluni appelli, comunque la disposizione interpretativa di cui qui si discute sarebbe volta ad incidere su giudizi, sia pure con l’obiettivo di prevenirne l’insorgere”.
ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO 24 MAGGIO 2011, N. 9
06.05.2011