La Grande Camera della Corte di Strasburgo ritorna a pronunciarsi sulla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, ribaltando la sentenza pronunciato nel 2009 dalla Seconda Sezione della stessa Corte che affermava la violazione del diritto dei genitori ad educare i figli secondo coscienza e libertà di pensiero.
I fatti principali
In seguito alla decisione di un consiglio d’istituto scolastico di mantenere il crocifisso nelle aule, in data 23 luglio 2002, una madre e i suoi due figli, cittadini italiani, presentavano ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo della regione Veneto, denunciando, in particolare, la violazione del principio di laicità.
In data 3 ottobre 2002, il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca adottava una direttiva che imponeva ai dirigenti scolastici la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche.
In data 30 ottobre 2002, il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca si costituiva nel giudizio instaurato dinanzi al TAR, contestando l’infondatezza del ricorso in quanto, a suo avviso, la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche era espressamente prevista dal regio decreto n. 965 del 1924 (Ordinamento interno delle giunte e dei regi istituti di istruzione media) e del regio decreto n. 1297 del 1928 (Regolamento generale sui servizi dell’istruzione elementare).
A seguito della rimessione degli atti procedimentali alla Corte Costituzionale, in data 14 gennaio 2004, quest’ultima dichiarava l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale in quanto le disposizioni dei regi decreti, richiamati dal Ministro, non potevano essere sottoposte ad una verifica di legittimità costituzionale atteso il loro carattere di fonte regolamentare e non legislativa.
In data 17 marzo 2005, il TAR respingeva il ricorso statuendo che le disposizioni contenute nei regi decreti erano ancora in vigore e che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche non contrastava con il principio di laicità dello Stato, quale carattere del patrimonio delle democrazie occidentali. In particolare, il crocifisso, ad avviso del Tribunale, rappresentava simbolo storico e culturale dell’Italia, nonché di tutta l’Europa.
A seguito dell’impugnazione della sentenza del Tar, da parte della ricorrente, il Consiglio di Stato, con sentenza del 13 aprile 2006, confermava che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche trovava la sua base legale nei regi decreti sopra citati e, dunque, la sua compatibilità con il principio di laicità dello Stato.
Il Collegio muoveva dall’assunto che, in quanto veicolo di valori civili che caratterizzano la civiltà italiana (tra cui, i valori della tolleranza, tutela dei diritti della persona, autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, rigetto di ogni discriminazione), il crocifisso poteva rivestire, in una prospettiva laica, una funzione altamente educativa per gli studenti.
Il ricorso è stato poi introdotto davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo il 27 luglio 2006. Nella sentenza del 3 novembre 2009, la Camera affermava la violazione del combinato disposto di cui agli Articoli 2 del Protocollo n. 1 (diritto all’istruzione) e 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione). La motivazione è fondata sulla considerazione che lo Stato non può imporre un credo religioso, seppur indirettamente, e sulla ragione che tra la pluralità di significati attribuibili al crocifisso, quello religioso è predominante. Pertanto, lo Stato ha il dovere di sostenere una neutralità confessionale nell’istruzione pubblica.
Inoltre, la Corte ha concluso ritenendo che “l’esposizione obbligatoria di un simbolo di una fede particolare nell’esercizio della pubblica autorità in relazione a situazioni specifiche soggette a vigilanza governativa, in particolare, nelle classi, limita il diritto dei genitori di educare i propri figli in conformità alle loro convinzioni e il diritto degli alunni di credere o non credere”.
Il 28 gennaio 2010, il Governo italiano ha chiesto il rinvio del caso davanti alla Grande Camera, secondo l’articolo 43 della Convenzione, e il 1° marzo 2010, il collegio della Grande Camera ha accettato la richiesta.
Motivazione della Grande Camera.
Innanzitutto, la Grande Camera richiama la giurisprudenza della Corte da cui emerge che l’obbligo degli Stati membri del Consiglio d’Europa di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non riguarda solo il contenuto dell’istruzione e delle modalità in cui essa viene dispensata; presisamente, tale obbligo compete loro nell’esercizio dell’insieme delle “funzioni” che gli Stati si assumono in materia di educazione e istruzione. Ciò comprende l’organizzazione dell’ambiente scolastico laddove il diritto interno preveda che questa funzione sia di competenza delle autorità pubbliche (punto 63 della sentenza).
Poiché la decisione riguardante la presenza del crocifisso nella aule scolastiche attiene alle funzioni assunte dallo Stato italiano, essa rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1. Tale disposizione attribuisce allo Stato l’obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e istruzione, il diritto dei genitori di garantire ai propri figli un’educazione e un’istruzione conformi alle loro convinzioni religiose e filosofiche (punto 65).
La Corte ricorda l’obbligo e la responsabilità degli Stati di assicurare, in condizioni di neutralità e di imparzialità, l’esercizio delle varie religioni e fedi. Precisamente, il ruolo degli Stati consiste nel garantire l’ordine pubblico, l’armonia religiosa e la tolleranza in una società democratica, in particolare, tra gruppi opposti.
Compito degli Stati, invero, è quello di salvaguardare il pluralismo nell’educazione; l’articolo del Protocollo n. 1, infatti, impone allo Stato, nell’esercizio delle funzioni di educazione e istruzione, di fare in modo che le informazioni e le conoscenze vengano trasmesse agli studenti con un approccio critico e obiettivo; per converso, è vietato agli Stati ogni sorta di indottrinamento.
In realtà, gli Stati contraenti godono di un certo margine di discrezionalità nel conciliare l’esercizio delle funzioni che competono loro in materia di educazione e istruzione con il rispetto del diritto dei genitori di garantire tale educazione secondo le loro convinzioni religiose e fiolosofiche; pertanto, la Corte deve rispettare le decisioni che gli Stati assumono in quest’ambito.
Da ciò consegue che compito della Corte è quello di garantire che le scelte adottate dagli Stati non conducano a forme di indottrinamento.
Ad avviso della Corte, posto che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono, tuttavia, nella fattispecie, elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni. Inoltre, pur essendo comprensibile che la ricorrente possa vedere nell’esposizione del crocifisso nelle aule frequentate dai suoi figli una mancanza di rispetto da parte dello Stato del suo diritto di garantire loro un’educazione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni filosofiche, la sua percezione personale non è sufficiente ad integrare una violazione dell’art. 2 (punto 66).
La presenza del crocifisso non può, di per sé, integrare un’opera di indottrinamento e non è associata a un insegnamento obbligatorio del Cristianesimo.
Secondo le considerazioni formulate dal Governo, l’Italia apre l’ambiente scolastico alle altre religioni; come si evince dall’assenza di qualsivoglia divieto per gli studenti di indossare il velo islamico o altri simboli che presentano un carattere religioso.
In definitiva, la Corte conclude che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 2 del Protocollo n. 1, soprattutto, in considerazione del fatto che il diritto della ricorrente, in quanto genitore, di spiegare e consigliare i suoi figli e di orientarli verso una direzione conforme al proprio credo religioso è rimasto intatto.
Con riferimento alla asserita violazione dell’articolo 14 (il godimento dei diritti e libertà stabiliti nella Convenzione deve essere garantito senza alcuna discriminazione), nella sua sentenza la Grande Camera ha ritenuto che, tenuto conto delle sue conclusioni in merito alla violazione dell’articolo 2, non c’era motivo di esaminare il caso dal punto di vista dell’articolo 14 (punto 79-81).
Quest’ultima disposizione, ad avviso della Corte, non ha esistenza propria ma ha valenza esclusivamente in relazione al godimento dei diritti e alle libertà garantiti dalle altre disposizioni della Convenzione e dei suoi Protocolli. Pertanto, il Collegio stabilisce che, anche ad ammettere che i ricorrenti vogliano lamentarsi di una discriminazione nel godimento dei diritti garantiti dagli articoli 9 della Convenzione e 2 del Protocollo n. 1, non si pone nessuna questione separata da quelle già decise nell’ambito dell’articolo 2.