Dieci anni dopo. Più o meno autonomia regionale? (Bologna, 27-28 gennaio 2011)

04.05.2011

“Dieci anni dopo. Più o meno autonomia regionale?”. È questo il titolo del Convegno organizzato dalla rivista Le Regioni, in collaborazione con Istituto di studi giuridici regionali, svoltosi a Bologna il 27 e 28 gennaio scorso, per riflettere sugli effetti e lo stato di attuazione della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione entrata in vigore quasi dieci anni or sono.

Fin dai primi interventi, tuttavia, è stato evidente come l’ingenua provocazione abbia dovuto lasciare ben presto spazio a una constatazione tanto amara quanto sostanzialmente unanime, riassunta nel modo più diretto da parte del Prof. Roberto Bin, secondo il quale l’Italia sta vivendo il momento di maggior centralismo di tutta la sua storia unitaria, tanto da avere ormai superato, nel regresso, il 1865, data in cui ebbe luce la legge di unificazione amministrativa del Regno.

In effetti, le conclusioni delle otto relazioni condotte da altrettanti ricercatori e giovani docenti degli atenei del nostro paese sull’attuazione delle differenti parti della riforma costituzionale sono impressionantemente coincidenti.

La prima relazione, di Filippo Benelli, ha affrontato il tema della costruzione delle materie e delle materie esclusive statali. A tal proposito, è stato messo in evidenza, in primo luogo, come il criterio materiale per la ripartizione della potestà legislativa tra Stato e Regioni, utilizzato dalla versione originaria del Titolo V, è rimasto inalterato anche nella nuova versione riformata nel 2001. Tuttavia, l’applicazione del testo del 1948 era piuttosto agevole anche grazie all’esistenza di corpus normativo di individuazione e trasferimento delle funzioni amministrative che specificavano il contenuto dell’elenco contenuto all’art. 117 e ad una sostanziale corrispondenza con i dicasteri governativi. Si può, infatti, affermare che, prima della riforma, il principio del parallelismo funzionasse non solo nel senso di individuare la titolarità delle funzioni amministrative a partire dalla titolarità della potestà legislativa, ma anche nel senso di contribuire all’attività di produzione legislativa chiarendo e specificando, attraverso i decreti di trasferimento delle funzioni amministrative, il contenuto delle materie elencate all’art. 117 della Costituzione.

La versione riformata dell’articolo, con la scomparsa di alcune delle materie precedentemente elencate e l’inserimento di nuove, non aventi tuttavia carattere oggettivo, resta priva di quegli elementi di stabilizzazione che avrebbero potuto agevolarne l’applicazione. Se, infatti, Livio Paladin si riferiva alle materie regionali del vecchio art. 117 come a una pagina bianca da scrivere, è possibile affermare che, mentre quella aveva quanto meno le righe che ne avrebbero guidato la scrittura, quella che si è presentata dopo il 2001, era priva anche di quelle.

La Corte Costituzionale, nei primi anni successivi all’entrata in vigore nella riforma costituzionale, cerca di trovare un punto di equilibrio tra lo Stato e le Regioni con riferimento alla potestà legislativa, attraverso il ricorso al principio di leale collaborazione che viene conseguentemente portato alle più estreme conseguenze. La Corte individua, infatti, anche all’interno del secondo comma dell’art. 117, le materie cosiddette trasversali poiché, pur rientrando nella potestà esclusiva dello Stato, coinvolgono in modo più o meno pregnante anche gli interessi delle singole Regioni che, pertanto, dovranno vedersi riconosciuta una potestà legislativa commisurata anche in questo ambito. La coesistenza pertanto di interessi statali e regionali nell’ambito di una stessa materia comporta, pertanto, una necessaria coesistenza della potestà legislativa statale con quella regionale.

Tale tecnica raffinata di bilanciamento viene tuttavia abbandonata dalla giurisprudenza costituzionale dagli anni 2006-2007, quando la Corte, seppur confermando l’idea delle materie trasversali e della teorica coesistenza della potestà legislativa dei due livelli di governo coinvolti, dichiara sempre più spesso la prevalenza dell’una sull’altra e, in particolare, arriva sempre più spesso a escludere ogni spazio per interventi legislativi da parte della Regione.

L’opzione netta in favore del principio di prevalenza pone in posizione totalmente recessiva il principio di leale collaborazione, riducendo pertanto i margini di autonomia legislativa delle Regioni e, dunque, le potenzialità insite nel riformato art. 117 della Costituzione. Rileva, infine, in questo ambito molto più che in altri, la persistente assenza di un luogo di confronto istituzionale tra lo Stato e le Regioni in materia di attività di produzione legislativa.

La seconda relazione, di Fabio Corvaja, affronta il tema della potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni e della prassi con cui questa è stata concretamente esercitata. Il riconoscimento di tale potestà ha rappresentato, senza dubbio, un notevole ampliamento dei profili dell’autonomia regionale, soprattutto se letti con riferimento al riconoscimento della possibilità per le Regioni di legiferare anche in assenza di leggi statali di cornice e al superamento, sancito nel 2003 dalla Corte Costituzionale, della inammissibilità delle leggi statali di dettaglio aventi il carattere della cedevolezza. Ben presto, tuttavia, la giurisprudenza costituzionale inizia a emanare una serie di criteri che hanno come effetto quello di smontare progressivamente il criterio strutturale della concorrenza: si pensi, a tal proposito, all’affermazione della non generalità e non definitività della nozione di principio fondamentale o al livello differente di dettaglio che possono avere le leggi di principio a seconda dell’oggetto di cui si occupano ovvero delle particolari contingenze fattuali che sono preposte a disciplinare (soprattutto per quanto concerne il coordinamento di finanza pubblica).

La teorica della maggiore distinzione, che rifiuta il concetto di legge statale cedevole, porta spesso a giudicare leggi statali effettivamente di dettaglio come costituzionalmente legittime, a patto che vengano considerate come leggi di cornice contenenti principi generali e, al tempo stesso, nega in qualsiasi modo alle Regioni la possibilità di poter dettare autonomamente principi, anche aventi il carattere della cedevolezza.

Un aspetto che complica ulteriormente tale quadro deriva dal fatto che i principi generali possono essere definiti anche mediante rinvio della legge statale ad atti di altra natura, di rango anche secondario (con l’effetto di alterare significativamente la gerarchia delle fonti); oppure inserendo disposizioni di principi in testi dall’oggetto differente; o, infine, mediante atti aventi forza di legge (è, invece, generalmente riconosciuta l’impossibilità di porre principi generali mediante regolamenti statali).

Tutti questi elementi fanno propendere per una valutazione finale in base alla quale le potenzialità insite nell’introduzione della potestà legislativa concorrente, prevista al terzo comma dell’art. 117 della Costituzione, non sono state pienamente esercitate, comportando una riduzione del livello di autonomia regionale rispetto al dato normativo.

Non c’è dubbio che il maggiore incremento di autonomia da parte delle Regioni, in seguito all’entrata in vigore della riforma, avrebbe dovuto derivare dalla nuova potestà legislativa residuale, prevista al quarto comma dell’art. 117 Cost., e sulla quale si è incentrata la relazione di Stefania Parisi. Anche in questo ambito, tuttavia, si può notare come, soprattutto a partire dagli anni 2006 e 2007, il costante riferimento al principio della prevalenza da parte della giurisprudenza costituzionale abbia avuto l’effetto di fagocitare in massima parte le potenzialità espansive che la norma in esame offriva.

È, infatti, possibile dividere i giudizi resi dalla Corte Costituzionale, relativamente all’individuazione da parte delle Regioni di presunte materie rientranti nella potestà residuale, in quattro differenti tipologie:

–         quelli nei quali la Corte nega la qualificazione di materia all’ambito individuato dalla Regione (sent. n. 166/2004 e n. 370/2003): è il caso degli spettacoli, ricondotti dalla Corte nell’ambito della tutela dei beni culturali, o delle acque pubbliche, ricompresi in quella dell’energia.

–         quelli nei quali la presunta materia individuata dalla Regione è ricondotta al secondo o al terzo comma dell’art. 117 Cost. (sent. n. 9/2004): è il caso della disciplina dei restauratori, che non rientra nell’ambito della disciplina delle professioni, bensì nel campo della tutela dei beni culturali;

–         quelli (in pochissime occasioni) nei quali si fa riferimento ad una residualità che potrebbe essere definita come chiusa, in cui si esclude categoricamente l’intervento legislativo da parte dello Stato;

–         quelli (più spesso) nei quali la Corte si riferisce ad una residualità aperta, nei quali la materia viene pertanto definita come trasversale.

La Corte Costituzionale tende pertanto a riferirsi molto più spesso alla prevalenza, piuttosto che alla leale collaborazione e, stando così le cose, si pone la necessità di comprendere in pieno quale sia il fondamento costituzionale in base al quale si fa recedere tale principio rispetto al primo, posto che tanto l’art. 114 quanto l’art. 117, primo comma, privano il principio gerarchico di qualsivoglia fondamento costituzionale.

Carlo Padula ha invece svolto una relazione sul tema della potestà regolamentare, partendo dal presupposto che prima della riforma del Titolo V vigeva, anche in questo campo, un sostanziale principio del parallelismo. Dopo il 2001 è stato possibile identificare invece cinque modalità differenti con le quali i regolamenti statali hanno inciso sulle materie di competenza regionale:

1 – transitoria e cedevole rispetto alla legislazione regionale;

2 – transitoria e non cedevole;

3 – regolamenti emanati per disciplinare l’amministrazione statale;

4 – producendo interferenze sulla potestà legislativa ;

5 – prevalendo sulle leggi regionali e abrogandole.

La sent. n. 303 del 2003 ha sostanzialmente escluso tutte le suddette interferenze che si sarebbero potute porre, ma non molto tempo dopo la pronuncia hanno iniziato ad aprirsi alcune brecce.

 – La sent. n. 307 del 2003 ha affermato che i regolamenti regionali possono rappresentare un vincolo alla legislazione regionale anche nell’ambito delle potestà legislativa concorrente (in tal caso si trattava del rispetto dei valori di elettrosmog stabiliti con d.P.C.M.);

– Una sentenza del 2005 dichiara illegittima una legge della Regione Veneto che deroga alle distanze previste dal PRG, predefinite con decreto ministeriale.

– La Corte riconosce altresì la possibilità per lo Stato di intervenire con regolamento nell’ambito delle materie trasversali.

– Si pone inoltre il problema del rapporto tra regolamento statale e legge regionale previgente.

L’urgenza dei problemi che si pongono è facilmente comprensibile soprattutto alla luce del pericolo di inversione della gerarchia delle fonti.

Le possibili vie d’uscita per configurare un sistema coerente possono essere due:

–         l’introduzione di una clausola di supremazia degli atti statali su quelli regionali (come nell’ordinamento tedesco);

–         il divieto di emanare regolamenti statali nell’ambito delle competenze trasversali.

In questo quadro, ha sottolineato il Prof. Barbera, va menzionata la categoria degli atti non aventi natura regolamentare che permettono sia di evitare il parere del Consiglio di Stato, sia di intervenire nell’ambito delle materie concorrenti, in sfregio a quanto previsto al sesto comma dell’art. 117.

Nella successiva tavola rotonda, il Prof. Roberto Bin ha cercato di fotografare la situazione di neo centralismo che si sta affermando e, al tempo stesso, ha cercato di individuarne le ragioni esplicative. Nell’affermare che l’Italia si trova in una situazione di centralizzazione che, nel regresso, supera quella delineata nel 1865, il relatore ha sottolineato che tale situazione riguarda anche il cosiddetto federalismo fiscale, dal momento che è possibile affermate che all’indomani dell’unità d’Italia vigeva un sistema indubbiamente più chiaro e in grado di garantire il principio di responsabilità.

L’affermazione del principio di prevalenza, in luogo del ricorso alla leale collaborazione, è frutto molto più di un scelta politica che di un ragionamento giuridico e tale situazione è dovuta a due elementi fondamentali: in primo luogo al fatto che la nuova versione dell’art. 117 è stata redatta in modo estremamente confuso; in secondo luogo occorre ricordare che la riforma del Titolo V non è ancora stata attuata completamente, se non mediante la legge n. 130 del 2003 che non è stata tuttavia per nulla incisiva.

Il fatto maggiormente sconcertante sta nel fatto che, rispetto a tale situazione, le Regioni sembrano del tutto inerti e difendono le loro ragioni e prerogative sviluppando esclusivamente il ruolo politico, indebolendo del tutto quello giuridico, e minando in questo modo la certezza del diritto.

A tali considerazioni il Prof. Paolo Giangaspero ha aggiunto rilevando come la riforma del Titolo V sia stata eminentemente una riforma della giurisprudenza e come, in questo quadro, anche le Regioni ad autonomia speciale, più che invocare la clausola della maggiore autonomia, continuino ad arroccarsi nelle competenze a esse riconosciute dagli Statuti.

Nella sessione pomeridiana si è affrontato anzitutto il tema della chiamata in sussidiarietà e degli strumenti di raccordo (Cesare Mainardis) a partire dalla nota sentenza n. 303 del 2003 che aprì la strada ad una concezione negativa della sussidiarietà, ad una concezione della leale collaborazione come rapporto consensuale tra soggetti e ad un rapporto ben definito tra fonti statali e fonti regionali. La giurisprudenza successiva si allontanò tuttavia ben presto da tale modello valutando, ad esempio, l’effettivo esercizio della leale collaborazione a partire da quanto riportato dalla legge statale e senza indagare se tra Stato e Regione vi sia stato un confronto reale e arrivando addirittura ad ammettere regolamenti statali esecutivi della legge in sussidiarietà, in sfregio a quanto previsto all’art. 117, sesto comma, della Costituzione.

La Corte si vede pertanto costretta a valutare, nell’ambito dei giudizi di costituzionalità, la presenza di interessi unitari, la ragionevolezza degli strumenti adottati e la ragionevolezza del contenuto della legge in sussidiarietà, svolgendo valutazioni che presentano pertanto un margine di discrezionalità estremamente elevato. La chiamata in sussidiarietà, da mero strumento, diventa invece il nuovo metodo per far prevalere l’interesse nazionale, scomparso dal dettato costituzionale del 2001.

Michele Belletti ha in seguito affrontato il tema dei poteri statali di garanzia e decisione ultima, commissariamenti e centralizzazione delle decisioni, partendo dalla constatazione che quanto previsto all’art. 120 Cost. rappresenta una disposizione dalla quale emerge nuovamente la clausola dell’interesse nazionale abrogata con la riforma del Titolo V. Il tema maggiormente problematico concerne la titolarità della sostituzione normativa che, pur spettando teoricamente al Consiglio dei Ministri, viene spesso esercitata anche da parte degli stessi Commissari che, paradossalmente, il più delle volte coincidono con gli stessi Presidenti di Regione. Con riferimento a tali atti, tuttavia, la sent. n. 361 del 2010 afferma in modo perentorio che essi non sono suscettibili di produrre effetti giuridici di ogni genere, per quanto tali norme non ledano le prerogative del Governo. Ciò che la Corte Costituzionale tuttavia non rileva, e che fa sì che tale sentenza sia stata considerata una vera e propria mostruosità (Prof. Bartole), sta nel fatto che tale produzione normativa è in realtà fortemente lesiva delle prerogative della Regione che non avrebbe di fatto modo di impugnare. Il paradosso è, infatti, rappresentato dal fatto che, nel momento in cui la Regione (rappresentata dal suo Presidente) volesse sollevare conflitto di attribuzione impugnando la norma emanata dal Commissario dovrebbe farlo mediante il proprio Presidente, nella cui figura, tuttavia, coincide quella del Commissario.

Tale sentenza va inoltre a scontrarsi con quanto sancito dalla sent. n. 2 del 2010 che, invece, ammetteva interventi normativi da parte del Commissario in materia finanziaria e di bilancio.

A questo va aggiunta la considerazione in base alla quale la potestà legislativa del Consiglio regionale durante la sostituzione deve essere finalisticamente orientata alla realizzazione di quanto previsto dalla delibera governativa di sostituzione che assumerà, pertanto, un ruolo di parametro interposto nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale. 

Ilenia Ruggiu ha affrontato il tema del sistema delle conferenze e del ruolo istituzionale delle Regioni nelle decisioni statali. A tal proposito è stato rilevato come, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V, le Conferenze abbiano continuato a mantenere il monopolio dei rapporti Stato-Regione; non abbiano rilevato all’interno delle stesse le suddivisioni politiche e l’organizzazione interna sia ancora strutturata sulla base dell’articolazione dei Ministeri. A differenza del periodo antecedente al 2001, si è avuto, invece, un netto aumento dei pareri negativi e di quelli condizionati che mostrano il sostanziale fallimento della riforma del Titolo V e fanno del sistema delle Conferenze un vero proprio controgoverno. Le proteste poste in essere dalle Regioni nelle forme dell’abbandono della Conferenza, dello sciopero politico, dello stillicidio di documenti  e il discostarsi da parte del Governo dai pareri espressi dalle Conferenze mostrano tuttavia il fallimento di un sistema che dovrebbe ormai lasciare spazio all’istituzione del Senato delle autonomie di cui, a dieci anni di distanza, non si vede ancora l’ombra.

Dario Immordino affronta quindi il tema dell’autonomia finanziaria delle Regioni, mettendo anzitutto in luce come tale aspetto rappresenti il cuore di qualsivoglia progetto federalista e di ampliamento dei poteri delle autonomie territoriali. Dopo dieci anni dall’entrata in vigore del nuovo Titolo V, solo nel 2009 è stata approvata la legge delega per la sua attuazione e non ancora tutti i decreti delegati ivi previsti sono stati emanati. Nel 2004 la Corte Costituzionale intervenne con una sentenza, ormai famosa, nella quale affermava che dall’entrata in vigore del nuovo art. 119 Cost. derivavano già alcuni limiti che lo Stato era tenuto a rispettare: tra questi il fatto che possono essere definiti tributi propri solamente quelli istituiti con legge regionale; che i principi generali in materia di coordinamento della finanza pubblica non possono essere dedotti generalmente dall’ordinamento; che lo Stato è investito dal limite di reformatio in pejus. Tale limite è risultato tuttavia poco operativo, dal momento che lo Stato continua comunque a intervenire definendo i principi di coordinamento di finanza pubblica attraverso i quali riemerge di fatto la clausola dell’interesse nazionale abrogata nel 2001.

I margini di autonomia delle Regioni vengono successivamente ulteriormente ristretti dal fatto che la Corte inizia ad ammettere i trasferimenti vincolati che l’art. 119 Cost. invece escludeva, arrivando quindi a sacrificare la stessa autonomia in nome della tutela e della tenuta unitaria del sistema.

Nella successiva tavola rotonda il Prof. Merloni ha svolto tre considerazioni fondamentali: in primo luogo ha tentato di ricostruire le cause delle tendenze centralistiche di questi ultimi anni, rintracciandole anzitutto in motivazioni di tipo politico generale legate al fatto che le ricette per uscire dalla crisi economica e finanziaria sono di tipo statale e frenano in questo modo ogni tentativo di decentramento; nell’assenza di una disciplina organica della leale collaborazione che allo stato attuale configura in capo allo Stato un potere pressoché unilaterale e non impedisce a al Presidente della Regione di svolgere il ruolo di Commissario del Governo; nell’assenza di un organo in cui siano rappresentate le autonomie territoriali e che possa incidere sul procedimento legislativo concludendo accordi sulle interpretazioni costituzionali del Titolo V, migliorare il riparto delle materie e autorizzare le chiamate in sussidiarietà, garantire la partecipazione all’iter legislativo e accedere direttamente alla Corte Costituzionale. In secondo luogo ha rilevato che, nonostante l’art. 119 sia il più innovativo dell’intera riforma del Titolo V, vi è il rischio di una sua errata applicazione e soprattutto che la concreta attuazione del federalismo fiscale risulti essere più un messaggio propagandistico che altro. In terzo luogo sarebbe opportuno dare la possibilità alle Regioni di disciplinare l’ordinamento degli enti locali.

La Prof.ssa Violini ha ulteriormente evidenziato che la mancata codificazione della leale collaborazione produce uno spostamento dell’attività di codecisione dal livello costituzionale a quello meramente politico.

La mattinata successiva si è svolta una tavola rotonda che ha visto coinvolti eminenti giuristi, studiosi del diritto regionale e giudici emeriti della Corte Costituzionale.

Il Prof. Falcon, nel notare come tutte le relazioni della giornata precedente fossero concordi nel ritenere che, a dieci anni di distanza dall’entrata in vigore del Titolo V, il livello di autonomia regionale sia diminuito, è necessario relativizzare tale conclusione rispetto alla fine degli anni ’90, quando si stavano attuando le riforme Bassanini e si puntava a superare definitivamente il centralismo e a giungere a un’effettiva parità istituzionale tra gli enti territoriali. Le stesse conclusioni non possono infatti essere svolte rispetto al quadro normativo previsto negli anni ’70 e ’80.

Il Prof. Barbera ha invece affermato che la domanda riguardo la maggiore o minore autonomia è assolutamente insufficiente, dal momento che la vera questione da porre dovrebbe riguardare la valutazione sulla maggiore o minore efficienza del modello amministrativo adottato, al fine di recuperare i ritardi nei confronti del resto d’Europa. Le Regioni rappresentano senza dubbio uno strumento dalle grandi potenzialità per ottenere una maggiore efficienza e per fronteggiare meglio la competitività internazionale, ma la debolezza che queste presentano è dovuta sia ad ostacoli normativi sia all’eccesso di municipalismo che caratterizza il nostro paese.

Il regionalismo, e la sua declinazione più avanzata rappresentata dal federalismo, da sempre è stato oggetto di strumentalizzazioni, prima dalla sinistra, in origine centralista, favorevole all’attuazione delle Regioni immediatamente dopo l’entrata in vigore della Costituzione; più di recente dalla destra, al fine stringere l’alleanza con la Lega Nord; infine nuovamente dal centrosinistra, approvando una riforma costituzionale senza un approfondito dibattito parlamentare, scritta e discussa, di fatto, solamente da un Comitato ristretto, nel tentativo di sottrarre voti a quest’ultima.

In questo quadro, dunque, la sentenza n. 303 del 2003 della Corte Costituzionale ha rappresentato un tentativo di dare un’interpretazione ragionevole a un testo costituzionale estremamente confuso e, a tratti, particolarmente ondivago.

Il Prof. Bartole si è invece soffermato sulle modalità del ragionamento giuridico in materia regionale notando come, fin dall’inizio del dibattito, la dottrina non ha avuto l’onestà di dire che l’idea del federalismo coincideva con quella del regionalismo e come l’idea di unità dell’ordinamento, ovvero di unità del potere centrale, sia rimasta la medesima di quando regnavano le monarchie assolute. Il passaggio dal vecchio al nuovo Titolo V è dunque impregnato di questa tradizione, che comporta necessariamente il perpetuarsi di fatto dell’interesse nazionale anche nella nuova formulazione. Alla luce di questo si può, infatti, affermare che nulla potrà mai cambiare se prima non muteranno gli strumenti di interpretazione della legge.

Successivamente, il Prof. Cammelli ha fatto notare che le difficoltà del nostro sistema di governo territoriale pagano le incompiutezze di 150 anni di storia unitaria nel quale il centro è sempre stato debole e la competizione tra sistemi locali è sempre stata estremamente esasperata. La situazione attuale è particolarmente preoccupante poiché non esiste ancora una reale interdipendenza tra territori e livelli di governo e i rapporti interistituzionali sono interamente affidati alla gestione occasionale da parte della politica. Né il sistema amministrativo, né tanto meno quello politico (data ormai la totale assenza di rapporti tra deputati, di fatto nominati dalle segreterie dei partiti, e i livelli di governo locali) sono in grado di tenere le file del sistema.

Si pone pertanto quanto mai l’esigenza di rivedere profondamente gli schemi e i modelli di riferimento, realizzando un sistema a geometria variabile, partendo dai riferimenti del terzo comma dell’art. 116 e del principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.), nel quale l’autonomia non sia concepita come un diritto, come un punto di partenza, bensì come un momento di arrivo. Volendo usare un’espressione metaforica, l’autonomia dovrebbe essere concepita non come un assegna da incassare, ma come una cambiale da onorare.

Il Prof. Caretti ritiene invece che le Regioni siano state le principali responsabili del fatto che le potenzialità insite nel nuovo Titolo V non siano state sfruttate a pieno e ciò vale particolarmente in riferimento alle tre principali novità che erano state apportate. In primo luogo, rispetto al riconoscimento costituzionale della potestà statutaria regionale, le Regioni hanno mostrato di non avere una particolare fantasia istituzionale, non intervenendo in alcun modo per modificare la forma di governo o per introdurre disposizioni innovative, senza contare che tre Regioni non hanno ancora provveduto alla sua emanazione.

In secondo luogo, a fronte di una maggiore possibilità per le Regioni di intervenire con lo strumento legislativo, si è paradossalmente registrato un netto calo, sia da un punto di vista qualitatito, sia da un punto di vista quantitativo, della legislazione regionale, anche a fronte dello scarso riconoscimento di nuove materie ricondotte nel seno del quarto comma dell’art. 117 Cost.

In terzo e ultimo luogo le Regioni, nel procedere all’allocazione delle funzioni ammiistrative, hanno mostrato tutta la loro tendenza alla centralizzazione regionale, mantenendo la titolarità di molte più funzioni di quante non richiedessero un effettivo esercizio unitario a livello regionale.

Considerata inoltre l’organizzazione del sistema politico-partitico e di quello sindacale e di rappresentanza degli interessi, il livello di autonomia effetivamente raggiunto è esattamente quello che ci si sarebbe potuti aspettare nel 2001 e, in questo quadro, la Corte Costituzionale ha invece avuto il merito di credere maggiormente nelle potenzialità del nuovo Titolo V.

Il Prof. D’Atena sostiene che, a dieci anni dall’entrata in vigore del nuovo Titolo V, si può tranquillamente affermare che il livello di autonomia è certamente cresciuto ripetto a quanto previsto dalla vecchia formulazione dello stesso, se non altro poiché sono venuti meno tutti quei meccanismi con i quali si condizionava l’autonomia delle stesse Regioni, vale a dire gli atti di indirizzo e coordinamento e la legislazione regionale di attuazione delle leggi statali.

Per quanto il nuovo Titolo V sia scritto in modo estremamente confuso, a dieci anni di distanza, anche grazie all’opera prezionsa della Corte Costituzionale, il quadro presenta senza dubbio minori margini di incertezza. Molteplici rimagono comunque gli aspetti maggiormente problematici che richiederebbero un intervento normativo tempestivo, a partire dalla definizione di un confine preciso tra norme di principio e norme di dettaglio e al sistema delle Conferenza che attribuisce un ruolo di eccessivo protagonismo agli esecutivi.

Il Prof. Onida, nel sostenere di non riuscire a dare un risposta netta alla domanda iniziale del convegno, necessitandone una senza dubbio più articolata, ritiene che il Governo e il Parlamento hanno sostanzialmente continuato a svolgere il loro ruolo in modo sostanzialmente identico a quello che essi svolgevano prima dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V. La Corte Costituzionale, per parte sua, ha cercato di intervenire nel modo più incisivo possibile, per quanto essa non abbia mai svolto storicamente il ruolo di contropotere, assecondando di fatto sempre le linee di tendenza della legislazione statale e considerando che le decisioni che essa produce si basano su questioni di merito che non è corretto generalizzare in modo assoluto.

Il Prof. Pizzetti, da parte sua, non condivide l’uso del termine federalismo per indicare il regionalismo o, tutt’al più, una sua forma maggiormente avanzata: si è infatti ricorso a tale termine per affermare in modo perentorio che la base del nuovo sistema amministrativo fossero le autonomie locali e non le Regioni a svolgere un ruolo significativo solo in alcune aree del paese.

Un errore particolarmente grave è rappresentato dalla mancata attuazione delle Città metropolitane, che ha assecondato un processo di sostanziale marginalizzazione delle grandi città del nostro paese che sempre meno svolgono un ruolo di carattere nazionale.

Altro errore storico fu la gestione degli interventi volti alla riduzione del divario tra il Nord e il Sud: la spesa pubblica fu infatti gestita in modo estremamente accentrato e, per quanto al Nord fu tesa alla creazione di infrastrutture, al Sud era volta alla creazione di occupazione, con l’effetto di aumentare ulteriormente il divario tra le aree.

Un tentativo di intraprendere la strada di una maggiore autonomia fu effettuato attraverso le cosiddette Riforme Bassanini, che misero al centro del sistema le autonomie locali, mentre il vero momento di blocco fu dovuto invece alla mancata attuazione del nuovo Titolo V.

Pizzetti ha altresì notato che le relazioni introduttive erano tutte estremamente incentrate sul ruolo della Corte Costituzionale, tralasciando ad esempio, un dato come quello della gestione della spesa pubblica che ormai, solo per il 40%, è allocata a livello statale.

La crisi economica, con un conseguente ruolo estremamente rilevante e penetrante del Ministero del’economia, e la rigida attuazione del patto di stabilità interno hanno inciso moltissimo nel senso di ridurre i possibili margini di azione delle autonomie locali.

In questo quadro, il federalismo fiscale si pone come un’opportunità senza precedenti: attuando un controllo centrale della spesa pubblica e parametrando le risorse disponibili rispetto ai costi e ai fabbisogni standard, sarà possibile tentare un’opera di razionalizzaizone della spesa che potrà garantire maggiori investimenti in materia di beni e servizi, in articolare al Sud, al fine di affrontare al meglio la competitività dei mercati internazionali.

Il Prof. Scudiero ritiene che dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V vi sia un maggior livello di autonomia per tutti gli enti territoriali, anche se non è possibile generalizzare in pieno ed comunque opportuno approfondire le differenze esistenti tra Regioni. Il contesto di riferimento è inoltre particolarmente sfavolrevole, anche perché la classe politica nazionale ha una scrasissima percezione del valore deontico dell’autonomia, mentre quella locale presenta una carenza culturale che, salvo rare eccezioni, è ancora maggiore.

Il tema cruciale è rappresentato dalle risorse finanaziarie e dalla prospettiva del federalismo fiscale: solo mediante una sua attenta e puntuale attuazione e attraverso la prospettiva del regionalismo differenziato, si può immaginare di raggiungere un buon livello di autonomia territoriale.

Il Prof. Vandelli ritiene invece che la risposta alla domanda centrale del convegno debba essere data non in senso assoluto, ma rispetto a un parametro di riferimento, quale può essere, ad esempio, la maggiore efficienza del sistema amministrativo. Alla fine degli anni ’90 si pensò ad una particolare configurazione autonomistica dell’articolazione dei livelli governo, ma si arrivò a configurare quello che potrebbe essere ribattezzato il “federalismo dei prefetti”.

Rispetto alla configurazione attuale, verrebbe da chiedersi se il riconoscimento in capo alle Regioni della potestà legislativa sia giustificabile rispetto agli interventi che esse producono o se gli stessi non possano essere svolti anche attraverso la semplice potestà regolamentare. In questo senso è necessario rammentare che l’attribuzione della potestà legislativa alle Regioni è funzionale a cogliere al meglio le istanze territoriali per la predisposizone di interventi legislativi volti a un efficace perseguimento dell’uguaglianza sostanziale, che non potrebbe essere altreimenti promossa da interventi statali e uniformi.

In conlusione si sono svolti gli interventi del Prof. Bassanini e del Presidente della Corte Costituzionale, Prof. De Siervo.

Il primo ha sottolineato come le riforme in senso federalista sono state concepite tra gli anni ’80 e ’90, quando dall’opinione pubblica e dalla politica nacque l’idea che un’amministrazione che avesse il proprio baricentro spostato a livello locale fosse la strada maestra per incremetarne l’efficienza e permettere al paese di affrontare in modo adeguato le sfide della globalizzazione: nasce dunque l’idea che il modello federale fosse il più adeguato per governare le società complesse, soprattutto in assenza di una tradizione unitaria e di una forte amministrazione centrale come nel caso italiano.

In questo quadro, il cosiddetto federalismo amministrativo a Costituzione invariata rappresentava senza dubbio il primo tassello di un’operazione che doveva trovare il proprio sbocco naturale nella riforma costituzionale, in modo da garatire stabilità alla nuova distribuzione del potere tra livelli di governo.

Tale progetto è stato tuttavia tradito anzitutto dalle modalità con le quali si è arrivati all’approvazione della riforma del Titolo V che, da un’iniziale condivisione da parte di tutte le forze politiche, è stata approvata con la sola maggioranza assoluta, passando per essere considerata come una riforma solo di una parte. In questo quadro, ad aggravare ulteriormente la situazione è stata la mancata manutenzione della riforma che avrebbe permesso l’introduzione di una supremacy clause e di un Senato delle autonomie come strumenti di garanzia; di apportare le correzioni necessarie all’art. 117 Cost.; nonché l’attuazione dell’art. 119 Cost.

A proposito di quest’ultimo aspetto, la legge delega n. 42 del 2009 contiene indubbiamente principi corretti e va nella giusta direzione, tuttavia si presenta il rischio effettivo di un suo tradimento in occasione dell’emeazione dei decreti delegati: solamente con un uso realmente efficiente delle risorse diponibili è possibile infatti immaginare di mantenere in vita uno stato sociale di alto livello e, a tal fine, occorrerebbe altresì uno studio della reale capacità fiscale dei vari territori, nonché un’analisi attenta dei costi e dei fabbisogni standard anche per lo Stato.

Il Presidente De Siervo ha concluso notando che, tra le difficoltà che si pongono, vi sono altresì quelle derivanti da un alto conflitto politico giudiziario che di certo non favorisce un clima di sereno confronto politico finalizzato all’elaborazione di riforme condivise.

In tale contesto, va altresì rilevato che ad oggi si può ritenere che sia stato ormai raggiunto il livello di massimo degrado del sistema di produzione delle fonti normative, tanto che nel 2010 il numero di decreti legislativi ha superato di gran lunga quello delle leggi ordinarie.

In questa situazione di estrema nevrosi sitituzionale, si inserisce anche il tema dell’attuazione del Titolo V e il problema principale va individuato all’interno delle singole Regioni, dal momento che alcune, nell’arco di un anno, fanno davvero pochissime leggi.

Quanto alla conflittualità dinnanzi alla Corte, nel 2010 sono state emanate 99 sentenze su conflitti in via principale e 98 su conflitti in via incidentale e, dei primi, i due terzi sono stati sollevati dallo Stato. Riemergono inoltre anche in questo ambito le trattative a livello politico informale che spesso sfociano nella rinuncia all’impugnativa.

Infine, per quanto riguarda il Titolo V, è possibile notare che esso presenta gravi difetti, come l’impossibilità di ricondurre tra le materie residuali alcuni ambiti storicamente spettanti alle Regioni quali l’industria, l’artigianato e la pesca o l’affermazione, all’art. 118 Cost., in base alla quale tutte le funzioni spettano a Comuni che nulla ha a che vedere con la realtà fattuale.

Tale quadro è ulteriormente aggravato dal fatto che la cultura giuridica media non è certamente di stampo regionalista e, tanto meno, quella dei giudici facenti parte della Corte e dal fatto che la prospettiva del federalismo si pone inoltre in particolare contraddizione con la costante ipertrofia normativa del Parlamento.

Il presidente conclude pertanto che solo con un’analisi condotta in modo serio e a partire dal constesto reale di riferimento è possibile giungere all’attuazione di quel regionalismo che discende direttamente dalla concezione sturziana.

a cura di Alessandro Maria Baroni