Una cronaca ragionata
a cura di Davide Servetti – (Dottorando di ricerca in “Autonomie locali, servizi pubblici e diritti di cittadinanza” Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro”)
Ragioni ed obiettivi del convegno.
Undici anni fa, il termine “federalismo sanitario” faceva il proprio ingresso formale nella legislazione italiana e ciò accadeva nella rubrica dell’art. 19-ter del d. lgs. n. 502 del 1992, come modificato dal d. lgs. n. 229 del 1999. Da allora l’espressione “federalismo”, variamente aggettivata, si è imposta nel dibattito pubblico e nelle agende di governo, fino alla promulgazione della legge delega n. 42 del 2009 che, recando disposizioni in attuazione dell’art. 119 della Costituzione, filtra questo passaggio chiave dello sviluppo del nostro regionalismo con la nota formula “federalismo fiscale”, già contenuta nel decreto legislativo “Giarda-Visco” n. 56 del 2000.
Su questa premessa, il Centro di eccellenza interfacoltà per il management sanitario dell’Università del Piemonte Orientale “A. Avogadro” (Ceims), in collaborazione con l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), ha organizzato venerdì 19 novembre 2010, ad Alessandria, l’VIII Convegno nazionale di Diritto sanitario, dedicato appunto al tema “La sanità italiana alla prova del federalismo fiscale”.
Nella consapevolezza che il comparto sanitario abbia probabilmente creato per primo, nel nostro ordinamento, un modello di organizzazione e gestione di servizi pubblici nel quale molti intravedono i tratti fondamentali del c.d. federalismo fiscale, la sanità italiana dovrà nei prossimi mesi misurarsi con l’attuazione della legge n. 42, verificando la tenuta o meno di quel ruolo anticipatore che le viene riconosciuto e sembra confermato dalla scelta del governo di emanare proprio in materia sanitaria uno dei due decreti delegati che, per primi, intervengono in tema di fabbisogni e costi standard: il tutto a partire da un’attenta lettura della rubrica della citata disposizione del 1999, che non a caso proseguiva con «…patto di stabilità e interventi a garanzia della coesione e dell’efficienza del Servizio sanitario nazionale», mostrando di non ignorare questioni nodali che concorrono oggi a comporre il complesso quadro dell’attuazione dell’art. 119 della Costituzione (BALDUZZI).
La giornata alessandrina si è articolata in tre sessioni, che hanno preso in considerazione i temi centrali dell’odierno dibattito sul c.d. federalismo fiscale in sanità: la natura e le modalità di determinazione dei fabbisogni e dei costi standard in relazione ai livelli essenziali di assistenza (Lea); il ruolo dei piani di riqualificazione quali strumenti peculiari del settore sanitario o, diversamente, come modello generalizzabile; l’opportunità o meno di guardare al comparto sanitario come modello per l’attuazione della legge n. 42 alla luce dell’esperienza maturata nel settore e testimoniata dai principali attori del sistema.
A confrontarsi sui temi del convegno sono stati chiamati alti funzionari dello Stato e delle regioni, parlamentari, professori universitari, tecnici ed esperti di sanità pubblica, nell’ottica di alimentare una riflessione scientifica interdisciplinare, non limitata al campo giuridico, ma aperta ai contributi di economisti, medici e sociologi, in grado di supportare con dati aggiornati e spunti innovativi il lavoro dei tecnici e dei politici chiamati a dar forma e tradurre in atto il c.d. federalismo fiscale.
La parola e la cosa: forme e sostanza del federalismo fiscale.
Tra i primi rilievi formulati dai relatori con riferimento generale alla riforma in corso, ha registrato attenzione e convergenza significative quello relativo al lessico giuridico e alle categorie in uso nell’ambito dell’attuazione del c.d. federalismo fiscale, ad iniziare dall’espressione stessa “federalismo”.
Come noto, l’etichetta “federalismo”, che indica originariamente il processo di costruzione (e al tempo stesso la forma o il “tipo”) di uno Stato definito e identificato facendo riferimento al paradigma statunitense, si è con il tempo prestata a usi talora ambigui. Ciò si è verificato, anzitutto, in ragione dell’applicazione della categoria ad ordinamenti diversi da quelli che presentavano il percorso storico di formazione dello Stato, in senso aggregativo, tipico del modello federale originale, nonché con la conseguente applicazione alle sotto-categorie di qualificazioni intese a connotarne il senso e l’identità specifica all’interno di una categoria in via d’espansione. A seguito della tendenza al decentramento dei poteri e delle funzioni dal centro alla periferia che molti processi di riforma istituzionale hanno presentato e presentano tuttora nel panorama internazionale, la dottrina ha elaborato una seconda, capiente, categoria di “federalismo”, quella del c.d. federalismo “devolutivo” o, anche, “disaggregativo”, la cui caratterizzazione specifica rispetto al modello originale è rinvenibile proprio nell’inversa dinamica storica dell’allocazione dei poteri tra Stato centrale ed enti territoriali. Una categoria, che ha teso spesso a confondere i propri limiti con tipi di Stato precedentemente identificati, come quello regionale. Inoltre, con l’intento di indagare la natura delle relazioni tra centro e periferia e tra enti periferici fa loro, sulla base dei principi e delle regole costituzionali di riparto delle competenze e di formazione delle scelte fondamentali comuni, la letteratura scientifica ha formulato ulteriori qualificazioni della categoria. Su questa via, si è ad esempio parlato di federalismo competitivo, cooperativo, regolativo (LUCIANI).
In secondo luogo, a questo impiego prevalentemente riconducibile all’elaborazione dottrinale, la storia dell’uso della parola “federalismo” nel nostro Paese è stata condizionata dall’assunzione del termine al lessico politico sul finire degli anni Novanta, fattore che, unito all’utilizzo dottrinale, ne ha sostanzialmente provocato anche il predetto ingresso nella legislazione. Più precisamente, il “federalismo” e la riforma “federale” dello Stato sono divenuti obiettivo programmatico di un partito politico, la “Lega Nord”, che ha veicolato e mediato politicamente istanze di natura dichiaratamente secessionista mediante la proposta di accentuare l’autonomia delle regioni, nel senso di un incremento dei titoli di competenza legislativa ed amministrativa ad esse spettanti e di una maggiore autonomia finanziaria, attraverso il riconoscimento all’ente regionale di percentuali fisse e, negli intenti, crescenti di entrate fiscali riferibili al suo territorio. Una transizione para-ideologica, dunque, in cui il “federalismo-bandiera politica”, sostituendosi alla soluzione antisistemica della secessione del Nord del Paese, ereditava tuttavia le istanze anti-solidaristiche proprie di quel retroterra culturale (BALBONI).
Tali sviluppi si collocavano, per altro verso, negli anni delle c.d. riforme Bassanini, realizzatrici di un rilevante processo di decentramento amministrativo consistente nel trasferimento di funzioni statali a prevalente beneficio di regioni e comuni, tale da acquisire al vocabolario corrente, anche giuridico, l’espressione di “federalismo a Costituzione invariata”. Ed è in quest’ultima dimensione d’indirizzo politico-amministrativo che si inserì la rubrica succitata “federalismo sanitario” dell’art. 19-ter, d.lgs. 502/1992 nel testo novellato dal d.lgs. 229/1999, il quale introduceva uno strumento, “i programmi operativi di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento dei Servizi sanitari regionali” (archetipi dei piani di rientro, cfr. infra), finalizzato ad intervenire sui singoli Ssr nei casi in cui il monitoraggio ministeriale avesse rilevato scostamenti dai Lea e dai parametri di efficienza, economicità e funzionalità dei servizi sanitari. Tale norma, mediante la quale l’ordinamento si dotava di uno strumento per rimediare agli squilibri qualitativi e finanziari tra i Ssr, poteva presentare il rischio di un’ingerenza statale nell’autonomia regionale, poiché sottoponeva ad una tutela centrale il Ssr interessato dai programmi, seppur nell’assoluto rispetto del principio di leale collaborazione, cui erano funzionali la previsione dell’intesa ed il supporto dell’Agenas. Le perplessità delle regioni rispetto a tale strumento, inserito nel quadro di una riforma valutata “centralistica” da più parti, indussero ad utilizzare l’etichetta “federalismo sanitario”, proprio a voler evidenziare la coerenza della riforma del 1999 rispetto al predetto indirizzo politico-amministrativo e rimarcare la logica di sussidiarietà alla base della norma, nell’ambito di un corretto rapporto tra responsabilità ed autonomia (ancora BALDUZZI, nell’introduzione generale al Convegno).
Questi diversi canali di penetrazione della parola “federalismo”, accanto alle sue diverse aggettivazioni e connotazioni, hanno dunque portato ad un uso talora disinvolto del termine, spesso a scapito della sua limpidezza semantica e dei suoi contenuti originali. L’auspicio generale tra i relatori è stato quello di una pulizia semantica del linguaggio che intorno al termine “federalismo” si è sviluppato.
In particolare, non deve dimenticarsi che il modello “federale” è per sua natura centrifugo e foriero di una esaltazione delle differenze e delle diversità tra i territori, il cui peso comporta rischi di tenuta unitaria laddove non adeguatamente bilanciato. La stessa espressione “federalismo solidale”, che raccoglie consenso quasi unanime, rappresenterebbe sotto il profilo logico-semantico un evidente ossimoro, poiché il federalismo può e deve essere ricondotto a solidarietà ed unitarietà, ma non è di per sé tale (BALBONI).
Nell’ambito di una più corretta ponderazione delle parole, allora, è anche più agevole intravedere ciò che talvolta il loro uso cela. Ad esempio, può ritenersi singolare il fatto che, in tempo di federalismo fiscale, sia opinione unanime che le regioni e, marcatamente, gli enti locali versino in una situazione di sensibile compressione della loro autonomia finanziaria da parte dello Stato, il che porta a ritenere che a fronte di un federalismo evocato, si assista piuttosto ad un centralismo praticato (DIRINDIN).
Stante la scelta ormai assunta di affidarsi alla parola “federalismo”, quale veicolo verbale per dare attuazione al disposto dell’art. 119 Cost., pur essendo il nostro ordinamento in possesso di parole e concetti ben più coerenti e confacenti alla sua struttura profonda (su tutti, autonomia e regionalismo), l’impegno di chi è chiamato a operare nelle istituzioni e di chi porta il proprio contributo al processo di riforma in corso mediante il vaglio scientifico dei provvedimenti in elaborazione deve essere quello di orientare al principio di autonomia e responsabilità, da un lato, e di solidarietà, dall’altro, le norme che andranno a comporre i decreti attuativi della legge n. 42. Nella specie, ciò vale particolarmente per la configurazione del fondo perequativo, le cui regole di gestione – stanti i margini interpretativi ampi che una non limpida formulazione della legge n. 42 appare concedere al legislatore delegato – dovranno saper garantire il nostro sistema dalle spinte disaggreganti cui si assiste in alcuni Stati dell’Europa di tradizione fino a ieri fortemente solidaristica (Germania e Spagna, ad esempio), in modo che le pretese di conservazione delle entrate fiscali ai territori da cui esse provengono non possano frustrare il principio dell’eguaglianza nel godimento dei diritti sull’intero territorio nazionale che il fondo ha, primariamente, lo scopo di perseguire.
La sfida è, dunque, è culturale: intendersi su quale federalismo sia l’oggetto e l’obiettivo dell’attuale processo di riforma – atteso che, quanto a “genere”, non possa che trattarsi che di un federalismo devolutivo – significa intendersi su quale foedus si vuole stipulare. Finora il processo di potenziamento delle autonomie regionali si è mosso secondo un foedus che assumeva a proprio fondamento il principio di solidarietà tra cittadini e tra territori. Sarà questo il terreno sul quale si misurerà la compatibilità della revisione del foedus, di cui il c.d. federalismo fiscale si fa portatore, con i principi fondamentali della nostra Costituzione (BALDUZZI).
Quale “torta” e come “affettarla”: fabbisogno standard, costi standard e livelli di assistenza.
Numerosi relatori hanno preso in esame alcune norme dello schema di decreto recentemente presentato alla commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale in materia di determinazione dei costi e fabbisogni standard nel settore sanitario.
A giudizio di molti esperti di finanza pubblica, uno dei banchi di prova della riforma è rappresentato proprio dal metodo di determinazione dei fabbisogni e dei costi standard, ovvero dalla costruzione del sistema di finanziamento della spesa. Da questo punto di vista il settore sanitario può offrire un modello sia sotto il profilo del meccanismo tecnico di definizione delle risorse sia sotto quello della procedura interistituzionale di tale definizione, stante il fatto che si tratta dell’unico comparto della p.a. che abbia ad oggi superato (da circa quindici anni) il sistema di finanziamento a spesa storica.
Atteso che la scelta d’intervenire anzitutto nel settore sanitario per affrontare tale questione fondamentale non può far ritenere de plano che il metodo di determinazione potrà essere lo stesso per altri comparti della p.a., tuttavia essa consente di valutare, da un lato, per quale metodo la riforma opta in un settore che rappresenta la quota di gran lunga preponderante dei bilanci regionali, dall’altro, di osservare la tenuta del modello cooperativo creatosi nell’ultimo quindicennio in sanità e, dunque, la sua coerenza e capacità anticipatoria rispetto al c.d. federalismo fiscale.
Venendo al sistema tracciato dallo schema di decreto per la determinazione di fabbisogno e costi standard, può essere utile impiegare la metafora utilizzata dai relatori (DIRINDIN) per impostare la questione. Pensiamo di essere un padre o una madre di famiglia che, volendo dare una festa, sono posti di fronte al problema di acquistare una torta per i propri invitati. Le questioni che s’intrecciano sono tre: la dimensione della torta (1), la quale dipende dal numero degli invitati (2), il rapporto tra i quali potrà risolvere la questione del numero e della dimensione delle fette (3). Fuor di metafora, la “torta” rappresenta il fabbisogno sanitario nazionale standard (secondo l’espressione in uso nell’art. 21 dello schema di decreto), gli invitati rappresentano i livelli sanitari di assistenza che il fabbisogno deve finanziare, mentre le fette stanno ad indicare i costi standard per livelli di assistenza.
Leggendo il testo dello schema di decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 7 ottobre 2010, si ha anzitutto un’informazione fondamentale: il metodo di calcolo del fabbisogno standard adottato è di tipo macroanalitico. Più precisamente, in una prima fase, il metodo di calcolo che veniva da più parti indicato era di tipo microanalitico, ovvero quello che avrebbe inteso ricavare il fabbisogno standard nazionale dalla somma dei costi standard delle singole prestazioni erogate a livello regionale: la somma delle briciole, volendo sfruttare la metafora. Molti commentatori avevano criticato tale sistema, rilevandone la difficilissima percorribilità, se non l’assoluta impraticabilità per carenza di condizioni informative tecnicamente necessarie ad una così poderosa rilevazione, nonché di criteri di “standardizzazione” adatti ad un tale livello di analiticità. La scelta del legislatore delegato di abbandonare questo percorso e di tracciare un sistema di calcolo macroanalitico, ovvero che prende in considerazione i macroraggruppamenti di costi standard per tipo di prestazione, ha registrato l’apprezzamento dei relatori e di chi si è, in particolare, concentrato sugli aspetti economici del problema (DIRINDIN, CISLAGHI).
Atteso il giudizio positivo su questa opzione fondamentale, restano alcuni dubbi su due elementi che tale metodo macroanalitico assume a criteri di determinazione del fabbisogno standard: l’utilizzazione delle “regioni-benchmark” e il sistema di ponderazione del costo standard. L’idea di assumere a riferimento per la determinazione del costo standard delle macro-prestazioni e, in ultima analisi, del fabbisogno nazionale i costi rilevati nelle regioni più virtuose (ovvero le regioni che «garantiscono l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizioni di efficienza e di appropriatezza», art. 22, comma 5) è in sé un’idea condivisibile. Tuttavia, lo schema di decreto presenta talune ambiguità e talune carenze che inducono a proporre alcune avvertenze.
Anzitutto esiste un problema di individuazione delle regioni-benchmark di cui dovrà tenersi conto. I due criteri da combinare sono l’equilibrio finanziario e la qualità nell’erogazione dei Lea: mentre il primo criterio è di applicazione piuttosto semplice (benché restino zone d’ombra generate dal disallineamento tra bilanci delle aziende sanitarie e bilanci regionali: PALUMBO, ZUCCATELLI) ed è tradizionalmente preponderante sul secondo, quest’ultimo, nonostante i notevoli progressi nell’elaborazione di indicatori specialmente in ordine alle prestazioni ospedaliere, risulta tecnicamente più problematico, dipendendo dalla sintesi di molteplici indicatori, spesso in grado di consegnare rapporti soltanto parziali sullo stato qualitativo di un servizio sanitario regionale. Questa circostanza, che costituisce una questione nota ed annosa in sanità, deve richiamare l’attenzione sul rischio che il sistema, anche in questa occasione, mostri uno sbilanciamento a favore del criterio dell’equilibrio finanziario (CISLAGHI). Una siffatta preoccupazione, peraltro, sembra essere avvalorata dalla disattenzione del testo del decreto per il ruolo dei livelli essenziali di assistenza. Più precisamente, l’art. 21 dello schema (comma 1), nell’enunciare il principio guida nella determinazione del fabbisogno nazionale standard, afferma che tale fabbisogno «è determinato in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi assunti dall’Italia in sede comunitaria». Per ritrovare un riferimento ai Lea, che li consideri quali variabile della determinazione delle risorse, bisogna andare a leggere l’art. 22, commi 5 e 6, nell’ambito del calcolo dei costi standard, suddivisi in tre macroaree di prestazione. Ora, chi conosca l’evolversi della vicenda, concernente il rapporto tra determinazione delle risorse finanziare per il SSN e determinazione dei Lea così come si è sviluppata lungo gli anni Novanta del secolo scorso, non può che manifestare una certa perplessità per questo scivolamento dei Lea ad una posizione che appare di secondo piano. La disposizione non si pone necessariamente in contrasto con l’equilibrio trovato con l’art. 1, comma 3, del d.lgs. 502/1992 (così come modificato dal d.lgs. 229/1999), il quale afferma che «L’individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza assicurati dal Servizio sanitario nazionale, per il periodo di validità del Piano sanitario nazionale, è effettuata contestualmente all’individuazione delle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l’intero sistema di finanza pubblica nel Documento di programmazione economico-finanziaria» (c.vo nostro). Tuttavia, l’interpretazione più immediata è quella per cui la disposizione del decreto in commento si distacchi dalla soluzione della contestualità nell’individuazione dei Lea e della disponibilità finanziaria del SSN che aveva consentito la coesistenza dell’universalità del diritto costituzionale alla tutela della salute con il principio di scarsità delle risorse ineluttabilmente proprio di ogni sistema economico e, a maggior ragione, del nostro sistema pubblico. Il che, se portato alle logiche conseguenze (individuazione delle risorse come variabile indipendente di un’individuazione dei livelli retrocessa a variabile dipendente) presenterebbe evidenti rischi di frizione del nuovo sistema con il quadro costituzionale (BALDUZZI, DIRINDIN).
In secondo luogo, il metodo di determinazione del fabbisogno standard a partire dalla media dei costi dei macroraggruppamenti di prestazioni rilevati all’interno delle regioni benchmark deve confrontarsi con l’interdipendenza che presenta ogni macroarea rispetto all’altra. In altri termini, se il costo standard è calcolato per ciascuno dei tre livelli separatamente, come sembra essere stabilito all’art. 22, comma 6, dello schema di decreto, il rischio è quello di ottenere tre valori che, dopo l’applicazione alle singole regioni essenzialmente mediante il metodo della ponderazione (su cui infra), danno luogo in realtà a fabbisogni standard regionali inidonei a finanziare una spesa nel complesso appropriata, potendo arrivare paradossalmente a mettere in difficoltà quegli stessi sistemi virtuosi. In particolare, è evidente che il livello di spesa per la macroarea dell’assistenza ospedaliera è inversamente proporzionale a quello per la macroarea dell’assistenza distrettuale. I diversi sistemi regionali virtuosi hanno nella realtà trovato propri equilibri tra queste due macroaree e alcune proiezioni sull’applicazione del metodo di calcolo dei costi standard previsto nello schema rivelano che un sistema regionale che ha un livello di spesa piuttosto elevato in assistenza distrettuale ed uno meno elevato in assistenza ospedaliera (avendo dunque raggiunto obiettivi di deospedalizzazione e territorializzazione dell’assistenza indicativi di virtus) potrebbe essere penalizzato da quel metodo, poiché potrebbe vedersi applicato un costo standard per assistenza distrettuale più basso del proprio ed uno per assistenza ospedaliera più alto, risultanti dalla media di ciascuno dei macrocosti rilevati nelle tre migliori regioni. Il che esporrebbe quel sistema ad una potenziale regressione rispetto ai risultati ottenuti (BISSONI). Ecco che anche un metodo in principio astrattamente condivisibile deve trovare correttivi capaci di evitare semplificazioni di una realtà assai più complessa.
Quest’ordine di problemi s’intreccia con quelli segnalati dai relatori con riferimento all’applicazione del metodo della quota capitaria ponderata al calcolo dei costi standard.
Lo schema di decreto mostra di assumere a costo standard per macroarea la quota di spesa pro capite che dal 1995 in poi costituisce lo strumento di base per la ripartizione del “fondo sanitario nazionale” prima e, attualmente, della disponibilità complessiva del SSN. Un’opzione che, confermando la funzionalità di quel metodo, ha raccolto l’apprezzamento dei relatori.
Il rilievo critico generalmente emerso riguarda, tuttavia, la scelta del legislatore delegato di comprendere come unico criterio di ponderazione della quota capitaria quello per classi di età. Il problema nasce dalla necessità di determinare un valore pro capite di spesa che tenga conto delle caratteristiche demografiche e ambientali peculiari di ogni regione: possedendo ogni contesto regionale una combinazione variabile di determinanti del livello di salute della popolazione, il sistema ha tentato negli anni di elaborare diversi criteri di ponderazione della quota capitaria, così che il finanziamento di ogni Ssr corrispondesse il più possibile al bisogno di salute specifico di quella realtà regionale. Va da sé che regioni con popolazione più anziana presentano un fabbisogno di finanziamento superiore a quelle con popolazione più giovane, perché l’età ha un’incidenza di circa il 40% sulla frequenza delle malattie. E va da sé che la ponderazione per classi di età sia la più semplice da applicare. Tuttavia il 60% della frequenza delle malattie è riconducibile ad altri fattori, che devono essere tenuti in conto nella ripartizione della disponibilità complessiva di risorse. Infatti, se nel primo periodo di applicazione del metodo della quota capitaria ponderata, circa i due terzi del fondo sanitario nazionale venivano ripartiti attraverso la ponderazione per classi d’età, a questo criterio se ne sono affiancati altri e, oggi, soltanto un terzo del fondo è ripartito sulla base dell’età della popolazione. Un’evoluzione, quest’ultima, che è stata soprattutto promossa su richiesta delle regioni del Sud del Paese, le quali risultavano penalizzate da una predominanza del criterio della ponderazione per classi d’età (DIRINDIN, CISLAGHI).
Oggi, lo schema di decreto sembra assumere una posizione più arretrata di quella che il sistema ha conquistato in un quindicennio circa di applicazione del metodo della quota capitaria ponderata. L’auspicio è, naturalmente, che anche questo aspetto sia debitamente corretto nel prosieguo dell’iter legislativo.
Infine, è stata rappresentata una preoccupazione generale con riferimento al sistema di definizione e ripartizione delle risorse nel suo complesso. Il sistema tracciato nello schema di decreto, il quale oltre ai rilievi già riferiti presenta secondo alcuni relatori difetti tecnici di formulazione del metodo di calcolo dei costi standard (tali per cui alla “macchinosità” del comma 6 dell’art. 22 potrebbe corrispondere un risultato inverso rispetto alla precisione che il testo sembra avere ad un occhio inesperto: in altri termini si tratterebbe di un “calcolo a vuoto”), lascia un quesito aperto sulla sorte della convenzione di previsione a cadenza triennale delle risorse necessarie al SSN, consolidatasi mediante la pratica dei c.d. patti per la salute. L’auspicio è che l’ambiguità dell’art. 23 a riguardo non pregiudichi un risultato che il sistema delle relazioni Stato-regioni ha ottenuto con un lungo e prezioso percorso, ovvero quello della certezza delle risorse del Ssn di triennio in triennio (PRINCIPE).
La cartina di tornasole: i piani di riqualificazione e rientro come strumento eccezionale o modello anticipatore?
I piani di riqualificazione e rientro (in genere, significativamente, noti con la più breve etichetta di “piani di rientro”) costituiscono strumenti di cui il sistema sanitario italiano si è gradualmente dotato per rispondere agli squilibri finanziari e qualitativi tra servizi sanitari regionali.
Introdotti nell’ordinamento dall’art. 19-ter del d.lgs. 502/1992 (nel testo modificato dal d.lgs. 229/1999) nella forma rimasta inattuata dei «programmi di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento dei Servizi sanitari regionali», i piani di rientro riemergono nell’attuale forma a seguito della legge n. 311 del 2004, il cui art. 1, comma 180, demanda all’Agenas l’elaborazione di «programmi operativi di riorganizzazione, di riqualificazione o di potenziamento», destinati ad essere applicati alle regioni che presentino una situazione di squilibrio finanziario derivante da un disavanzo superiore al 5%. Previo espletamento senza risultati positivi di alcuni passaggi autogestiti dalla regione interessata (si vedano i commi 174-180 del citato art. 1 della l. 311), i predetti programmi triennali, ovvero i piani di rientro (dal disavanzo), sono fatti oggetto di un accordo tra Stato e regione e vengono implementati con il supporto tecnico e sotto il controllo dell’Agenas, il cui personale viene affiancato al commissario ad acta e agli uffici regionali competenti a questo scopo, secondo gli indirizzi espressi dalla Conferenza unificata il 20 settembre 2007.
Secondo queste coordinate i piani di rientro sono entrati a regime a partire dall’anno 2007. Le regioni attualmente sottoposte a piano di rientro sono l’Abruzzo, la Calabria, la Campania, il Lazio, il Molise, la Sicilia. La Liguria è l’unica regione che ad oggi sia “uscita” dal piano, rientrando dal proprio disavanzo, mentre alcune delle regioni nominate, sottoposte ai piani dal 2007, hanno iniziato il secondo triennio. A novembre 2010 il Piemonte e la Puglia sono in fase d’ingresso.
I piani di riqualificazione e rientro, dunque, rappresentano strumenti che, in deroga all’autonomia regionale e nel quadro dell’esercizio dei poteri sostitutivi di cui all’art. 120 Cost. e all’art. 8 della legge n. 131/2003, sottopongono le regioni in disavanzo finanziario ad una tutela statale molto attenta al rispetto di quell’autonomia derogata (la legge n. 311 del 2004 prevede che sia il presidente della regione ad essere nominato commissario ad acta), disciplinata da un accordo tra lo Stato e la regione, garantita dall’intervento di un soggetto tecnico sostanzialmente terzo, per suo statuto espressione sia ministeriale sia regionale, che è l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Si tratta di strumenti originariamente concepiti quali provvedimenti eccezionali, la cui prassi applicativa ha tuttavia investito di un ruolo più ampio. Infatti, alla luce dell’avvio dei piani di secondo livello (il c.d. secondo triennio) per alcune regioni (Campania, Lazio e Sicilia), tali strumenti stanno acquisendo una funzione di complessiva riorganizzazione dei servizi sanitari regionali interessati. Dovendo non soltanto raggiungere il ripiano, ma pure produrre provvedimenti di riqualificazione necessari ad eliminare le cause dello squilibrio finanziario, la prassi ha reso evidente che soltanto programmi strutturali e di medio periodo possono essere in grado di raggiungere tali obiettivi in quei contesti regionali che hanno mancato una compiuta riorganizzazione del proprio servizio sanitario, che altre regioni hanno invece implementato negli anni successivi ai decreti di riordino del 1992-93.
Atteso questo quadro, quali sono ad oggi le prospettive dei piani di rientro in sanità e quale il loro ruolo potenziale nel processo di riforma “federale” in corso? Hanno proposto riflessioni e osservazioni a riguardo relatori, che, per il proprio ruolo istituzionale, possono ritenersi tra le persone più qualificate a tracciare un bilancio parziale dell’esperienza svolta.
Anzitutto è emerso un dato sistemico di primaria rilevanza: l’adozione dei piani di rientro è il fattore che ha realmente posto fine al sistema della spesa storica per quelle regioni che risultavano sistematicamente in disavanzo e i cui bilanci sanitari sono stati sanati dallo Stato fino al 2007. Con i ripiani dei disavanzi, quei sistemi regionali venivano sostanzialmente mantenuti in stato di inefficienza, esattamente come accadeva sotto la vigenza del sistema di finanziamento a pie’ di lista (MOIRANO). Sotto questo profilo, dunque, i piani hanno contribuito a sviluppare in senso cooperativo quel nesso tra autonomia e responsabilità che risulta di fondamentale rilevanza anche nel quadro del c.d. federalismo fiscale. A questo proposito, l’esperienza dei piani di rientro rappresenta un modello di equilibrata cooperazione tra lo Stato, quale garante di un uniforme godimento dei livelli essenziali delle prestazioni da parte dei cittadini sull’intero territorio nazionale, nonché del complessivo equilibrio della finanza pubblica, e le regioni, quali titolari di competenze normative ed amministrative in materia di tutela della salute tali da rappresentare i soggetti gestori dei servizi che quei livelli devono erogare. Una cooperazione che non è avvenuta soltanto tra Stato e singola regione, mediante l’affiancamento di funzionari dei ministeri della salute e dell’economia, ma anche tra regioni, attraverso l’affiancamento di personale proveniente dalle regioni “virtuose”, sotto il coordinamento dei funzionari dell’Agenas. I relatori hanno evidenziato i risultati positivi così ottenuti, consistenti anzitutto nella circolazione di buone prassi amministrative e di modelli organizzativi tra realtà regionali, tali da far generare dall’interno delle regioni in difficoltà un processo di cambiamento. Tuttavia, il modello cooperativo prescelto presenta anche criticità d’ostacolo all’implementazione dei piani.
Critiche risolute si sono registrate con riferimento all’attribuzione ex lege della funzione di commissario governativo ad acta al presidente della regione sottoposta a piano (LUCCHINA, MOIRANO, ZUCCATELLI). A fronte della ratio attinente al rispetto dell’autonomia regionale, astrattamente condivisibile, è stata messa in dubbio l’opportunità della scelta di assegnare all’organo di vertice della regione, cui è obiettivamente imputabile la situazione d’inefficienza del Ssr, la funzione di adottare provvedimenti che esso avrebbe dovuto ordinariamente adottare in forma, peraltro, meno gravosa per il sistema di quanto non sia quella connaturata ai provvedimenti attuativi dei piani. La compresenza delle due funzioni in capo alla medesima persona, secondo quest’ordine di critiche, esporrebbe in concreto la figura del commissario alle medesime pressioni del corpo politico e degli operatori del sistema che spesso possono annoverarsi tra le cause delle cattive politiche che hanno condotto alla situazione di disavanzo. Pur essendo svincolato dalla giunta nell’esercizio della funzione commissariale e pur trovandosi assoggettato agli obiettivi del piano, infatti, il presidente resta condizionato da quei gruppi di pressione, la cui resistenza è sempre necessario superare per una corretta attuazione del programma di riorganizzazione delle strutture e dei servizi. Per altro verso, tale situazione di conflitto d’interessi, può portare ad una mancanza di collaborazione con il sub-commissario, il quale rappresenta la figura tecnica nominata per supportare a tempo pieno l’attività commissariale.
Non sono mancate, peraltro, alcune iniziative volte a creare migliori condizioni di azione al commissario ad acta. Ad esempio, al fine di sostenere la penetrazione dell’azione di riqualificazione nelle strutture organizzative del Ssr, nonché allo scopo di promuovere un’assunzione di responsabilità diffusa tra i dirigenti della sanità che non si limiti ai vertici dell’amministrazione regionale ma interessi anche quelli aziendali, il Patto per la salute 2010-2012 ha previsto che alla nomina del commissario ad acta consegua la decadenza automatica non solo del direttore dell’assessorato alla sanità (laddove istituito), ma anche dei direttori generali, amministrativi e sanitari degli enti del Ssr (art. 13, comma 5, Patto per la salute 2010-2012 approvato con intesa Stato-regioni del 3 dicembre 2009).
Attesi questi rilievi concernenti la figura del commissario, le prospettive dei piani di rientro possono in fondo considerarsi legate all’accennata loro trasformazione da strumenti concepiti come eccezionali e di breve periodo in strumenti volti ad una riqualificazione di medio periodo dei sistemi regionali in difficoltà.
L’applicazione dei piani ha consentito di far emergere le criticità strutturali dei servizi sanitari regionali coinvolti e la relativa consapevolezza rispetto alla necessità di riorganizzazione (BANCHERO, PALUMBO). Si è compreso che il problema è colmare non solo i disavanzi ma i gap organizzativi e gestionali che le regioni sottoposte a piano presentano, poiché è in essi che si radicano i problemi di bilancio e, soprattutto, l’inappropriatezza delle prestazioni ampiamente rilevata che pregiudica un’ottimale erogazione dei livelli essenziali di assistenza. Spesso tra regioni virtuose e regioni in difficoltà non è la differenza nei conti ad essere ampia, quanto quella nella qualità dei servizi (MOIRANO).
Tra disavanzi e carenze nella garanzia dei Lea esiste un legame a doppio filo, che è connaturato alla ben nota doppia dimensione dell’appropriatezza (appropriatezza organizzativa e appropriatezza clinica), quale concepita dallo stesso ordinamento (art. 1, comma 7, d.lgs. 502/1992, nel testo introdotto con il d.lgs. 229/1999. Parte di un unico problema, i profili economico-finanziario e qualitativo dell’attuazione dei piani sono stati ad oggi affrontati mediante l’affidamento a due organismi distinti il controllo degli uni e degli altri. Infatti, per ragioni di organizzazione del lavoro e di “coabitazione” nella partnership del piano sia del ministero dell’economia sia di quello della salute, la valutazione dell’implementazione dei piani sotto il profilo degli obiettivi di riequilibrio di bilancio è stata demandata al c.d. tavolo tecnico degli adempimenti finanziari, facente capo al ministero dell’economia e finanze, mentre il monitoraggio relativo all’erogazione dei Lea è stato attribuito al c.d. comitato permanente per la verifica dei livelli essenziali di assistenza, facente capo al ministero della salute. Tale “divisione del lavoro” non fa altro che riproporre l’annosa questione del rapporto tra risorse e Lea. A causa di molteplici ragioni, tra le quali, oltre alla maggior semplicità dell’utilizzo degli indicatori finanziari a fronte della notevole complessità della gestione di quelli qualitativi, rileva soprattutto il peso acclaratamente superiore del ministero dell’economia nella determinazione dell’indirizzo politico-amministrativo, che l’ordinamento non conosce soltanto più a livello di prassi, ma ha istituzionalizzato: si pensi al rafforzamento del ruolo del Ministero dell’economia e delle finanze rispetto al settore sanitario cui ha dato luogo la legge di re-istituzione di quest’ultimo (l. 13 novembre 2009, n. 172).
Questo fattore culturale, dunque, incombe anche sulla corretta implementazione dei piani di rientro, rappresentando un nodo da sciogliere per una positiva evoluzione del sistema anche nell’ambito più generale del processo di riforma “federale” in corso. Nella direzione auspicata, peraltro, deve segnalarsi che la Conferenza Stato-regioni, il 18 novembre scorso, ha istituto al suo interno la Struttura tecnica di monitoraggio (Stem), prevista dal Patto per la salute 2010-2012, la quale costituisce una struttura paritetica Stato-regioni incaricata di effettuare un monitoraggio unitario dello stato dei Ssr, mediante applicazione di indicatori sia di efficienza sia di appropriatezza. Se, come sembra, la Stem rappresenterà la sostanziale confluenza del tavolo di verifica degli adempimenti e del comitato per la verifica dei Lea, il sistema potrà tentare per mezzo di essa di rimediare al predetto squilibrio tra profilo finanziario e qualitativo, aggravatosi negli ultimi anni a detrimento del secondo.
Da quanto emerso grazie agli interventi dei relatori, in conclusione, l’esperienza dei piani di rientro rappresenta realmente un avanzato laboratorio per procedure e tecniche di cooperazione interistituzionale che risponda alle attuali esigenze di raccordo e coordinamento stretto all’interno del nostro multilevel governance system.
Quanto alle possibilità di generalizzazione del modello dei piani di rientro ad altri settori dell’amministrazione, che si prevede possano assumere contorni più vicini a quelli del comparto sanitario a seguito del c.d. federalismo fiscale, sono stati tuttavia espressi diversi caveat. Anzitutto, ogni comparto della p.a. segue proprie logiche, fondamentalmente legate ai diritti che esso è chiamato a tutelare, il che deve rendere consapevoli che ogni trapianto di modello, anche tra politiche pubbliche, presenta rischi di rigetto dovuti alle peculiarità proprie di ognuna e al diverso grado di avanzamento dei processi di modernizzazione delle tecniche di gestione tra i diversi settori. In secondo luogo, l’esperienza dei piani ha mostrato anche la necessità crescente di competenze e di personale ad hoc da dedicare all’implementazione dei programmi, specie alla luce della più volte evidenziata trasformazione registratasi: in concreto si tratta, quindi, di tenere in conto questo fattore, benché ad oggi il lavoro svolto nell’ambito dei piani sia da indicarsi quale esempio di efficiente impiego delle risorse umane, stanti i numeri proporzionalmente contenuti del personale coinvolto. Segnalare la virtuosità di un’esperienza e indicarla quale possibile modello da seguire, non significa ritenerla un’esperienza replicabile sic et simpliciter con attese di pari esito.
Considerazioni conclusive: dalla lunghezza del guado dipenderà la buona traversata.
Nel corso del convegno, è stata più volte espressa preoccupazione per l’accelerazione che l’approvazione dei decreti delegati sta riscontrando a fronte di condizioni, relative a scelte politiche fondamentali e ad elaborazioni tecniche, non ancora inveratesi e che richiederanno, in taluni casi, non breve tempo prima che s’inverino. Stante una condivisione, che può dirsi generalmente registrata, in ordine alla necessità di far evolvere il nostro sistema regionale secondo modalità più confacenti al nesso fondamentale autonomia-responsabilità-solidarietà, tale per cui il federalismo fiscale può realmente sfruttarsi quale opportunità in tal senso, numerose avvertenze sono emerse rispetto al percorso di attuazione della legge n. 42. Quest’ultima, che presenta positivi aspetti di interesse primario quanto alla strutturazione di un iter attuativo che il legislatore delegato è chiamato a condividere con Parlamento ed autonomie, tuttavia ha in sé margini interpretativi dei principi e criteri direttivi, evidenziati già all’indomani della sua promulgazione, tali da non consentire prognosi attendibili prima della lettura dei decreti delegati. A tal proposito, un aspetto generalmente sottolineato è quello che attiene alla carenza di contenuti che i commentatori rilevano nei decreti finora emanati o approvati allo stato di schema, la quale dà luogo ad uno spostamento del momento e della sede di “riempimento” di quei margini oltre i vincoli procedurali stabiliti dalla stessa legge delega, verso l’area delle fonti di rango secondario. Uno slittamento già rilevante in sé da un punto di vista costituzionale.
La tecnica del rinvio o, per indulgere alla metafora, della “matrioska” rischia di lasciare privo di riferimenti stabili anche il dibattito scientifico che intorno al processo di riforma si sta sviluppando, consentendogli un apporto di rilevanza minore a quel processo, senza dunque che allo “slittamento” consegua in effetti quella maggiore riflessione e quell’estensione temporale necessarie ad una corretta maturazione delle suddette condizioni, le quali avrebbero bisogno di terreno sul quale crescere. La contraddizione tra richiesta di maggiore ponderazione da un lato e maggiore determinatezza dei contenuti dall’altro è, di conseguenza, parziale e in grande misura smentita da queste considerazioni.
Per sua parte, il dato emerso dal convegno conferma l’idea iniziale per cui il settore sanitario sia probabilmente il più preparato a testare le forze del c.d. federalismo fiscale.
Trattasi non solo, allora, di “sanità alla prova del federalismo fiscale”, ma anche di “federalismo fiscale alla prova della sanità”. E il dibattito in seno alla Conferenza Stato-regioni sullo schema di decreto in materia di fabbisogni e costi standard sembra dimostrarlo.