Corte Costituzionale, sentenza 17 novembre 2010, n. 325 in tema di legittimità costituzionale della disciplina dei servizi pubblici locali

07.05.2010

Nella sentenza 325/2010, la Corte Costituzionale affronta una pluralità di questioni relative al rapporto tra competenza statale e spazi di intervento dei legislatori regionali nella disciplina dei servizi pubblici locali.

La Corte si pronuncia sia sulle censure di costituzionalità sollevate da diverse regioni italiane (Emilia-Romagna, Liguria, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria e Marche) nei confronti dell’articolo 23 bis del d.l. 112/2008 conv., con modifiche, dalla legge 133/08 – tanto nel suo testo originario che nel testo risultante dalle modifiche apportare dall’articolo 15 del d.l. 135/2009 conv., con mod., dalla legge 166/09 – che sulle censure di costituzionalità mosse dal Governo nei confronti di alcune disposizioni delle leggi regionali Liguria e Campania ritenute lesive della competenza statale in tema di disciplina del servizio idrico integrato.

Le questioni affrontate nella sentenza possono essere ricondotte ai seguenti profili di interesse:

1) compatibilità del quadro normativo interno con la disciplina comunitaria, con particolare riferimento sia alla nozione di “servizio pubblico locale di rilevanza economica” che alla scelta operata a livello nazionale di restringere per le amministrazioni pubbliche la possibilità di fare ricorso alla gestione diretta dei servizi pubblici locali;

2) congruità del regime transitorio previsto dal comma 8 dell’articolo 23 bis nel testo risultante dalle modifiche apportate all’articolo 23 bis dall’articolo 15 della legge 166/2009 per il superamento degli affidamenti non conformi al quadro normativo delineato dai commi 2, 3 e 4 del medesimo articolo 23 bis;

3) attribuzione della competenza alla determinazione delle condizioni di “rilevanza economica dei servizi pubblici locali” ed individuazione dei contenuti della nozione di “interesse economico generale”, con particolare riguardo al tema del riconoscimento di tale qualificazione al servizio idrico integrato;

4) necessità della preventiva avocazione allo Stato della competenza amministrativa sull’organizzazione della gestione del servizio stesso al fine del legittimo esercizio della competenza legislativa per la disciplina delle forme di gestione di un servizio pubblico locale;

5) limiti della potestà regolamentare dello Stato relativamente all’assoggettamento degli affidatari diretti dei servizi pubblici locali, da un lato, «al patto di stabilità interno» e, dall’altro, all’obbligo di osservare «procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale»;

6) spettanza della competenza a disciplinare il servizio idrico integrato con particolare riferimento ai limiti che incontra la disciplina regionale nel disciplinare tale attività.

 

Vediamo, andando con ordine, le osservazioni della Corte sui richiamati aspetti.

 

1. Compatibilità comunitaria. Relativamente al primo profilo, la Corte muove il suo ragionamento dalla constatazione che sebbene in ambito comunitario, non venga mai utilizzata l’espressione “servizio pubblico locale di rilevanza economica” (SPL di rilevanza economica), ma solo quella di “servizio di interesse economico generale” (SIEG), la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’ambito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo».

Tale ricostruzione è, ad avviso della Corte, confermata dallo stesso comma 1 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 che attribuisce espressamente ai SPL di rilevanza economica un significato corrispondente a quello di “servizi di interesse generale in ambito locale” di rilevanza economica, di evidente derivazione comunitaria.

Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento, infatti, ad un servizio che:

a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come “qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato”;

b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni.

Le due nozioni, inoltre, assolvono l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica.

La disciplina comunitaria del SIEG e quella in materia di SPL divergono, invece, in ordine all’individuazione delle eccezioni alla regola dell’evidenza pubblica.

Al riguardo, la Corte affronta sia il tema della disciplina prevista per la scelta del socio privato della società mista affidataria diretta del servizio (cd. gara a doppio oggetto), che il tema della disciplina della gestione diretta (cd. affidamento in house) del servizio da parte dell’ente locale.

Relativamente al primo tema – disciplina dell’affidamento (diretto) a società mista – la Corte rileva che il testo vigente dell’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008, è compatibile con il diritto comunitario sia nella parte in cui detta una disciplina «conforme alla normativa comunitaria» che nella parte in cui la disciplina nazionale si «discosta» da essa, ma non per questo merita censura di incompatibilità.

Richiamando il quadro normativo, la Corte Costituzionale rileva, infatti, che la disciplina nazionale di cui al comma 2, let. b) , dell’articolo 23 bis risulta «conforme alla normativa comunitaria» nella parte in cui consente l’affidamento diretto della gestione del servizio, “in via ordinaria”, ad una società mista, alla doppia condizione che la scelta del socio privato “avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica” e che a tale socio siano attribuiti “specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio” (cosiddetta gara ad evidenza pubblica a doppio oggetto: scelta del socio e attribuzione degli specifici compiti operativi), mentre se ne «discosta» nella parte in cui pone «l’ulteriore condizione, al fine del suddetto affidamento diretto, che al socio privato sia attribuita “una partecipazione non inferiore al 40 per cento”».

Ad avviso della Corte Costituzionale, tale misura minima della partecipazione (non richiesta dal diritto comunitario, ma neppure vietata) si risolve in «una restrizione dei casi eccezionali di affidamento diretto del servizio» e, quindi, la sua previsione perviene al risultato di far espandere i casi in cui deve essere applicata la regola generale comunitaria di affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Ne consegue, nonostante tale difformità, la piena compatibilità della normativa interna con quella comunitaria.

Conclusione sostanzialmente analoga viene raggiunta dalla Corte in relazione alla disciplina nazionale sulla gestione cd. in house. Anche in questo caso, infatti, la Corte osserva che la normativa comunitaria «consente, ma non impone», agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale. In tale linea di ragionamento va, dunque, inquadrata la condotta del legislatore italiano che, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei SPL ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto.

Sul punto, infatti, viene osservato che, secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti la gestione in house – ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto – debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tuttavia, la giurisprudenza comunitaria «non pone ulteriori requisiti per procedere a tale tipo di affidamento diretto, ma si limita a chiarire via via la concreta portata delle condizioni».

A fronte di tali principi affermati dalla disciplina comunitaria, il legislatore nazionale, nella versione vigente dell’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008, non soltanto richiede espressamente, per l’affidamento diretto in house, la sussistenza delle condizioni poste dal diritto comunitario, ma esige il concorso delle seguenti ulteriori condizioni:

a) una previa “pubblicità adeguata” e una motivazione della scelta di tale tipo di affidamento da parte dell’ente in base ad una “analisi di mercato”, con successiva trasmissione di una “relazione” dall’ente affidante alle autorità di settore, ove costituite (testo originario dell’art. 23-bis), ovvero all’AGCM (testo vigente dell’art. 23-bis), per un parere preventivo e obbligatorio, ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni dalla ricezione;

b) la sussistenza di “situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento” (commi 3 e 4 del testo originario dell’art. 23-bis), ovvero di “situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento” (commi 3 e 4 del testo vigente del medesimo art. 23-bis), “non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato”.

Ad avviso della Corre, siffatte «ulteriori condizioni si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica».

In tale linea di ragionamento, dunque, la scelta della restrizione del ricorso all’affidamento è, da un lato, ritenuta espressione di “un margine di apprezzamento” del legislatore nazionale e, dall’altro, valutata come “non irragionevole”.  

Con riferimento al primo profilo si afferma espressamente che è «innegabile l’esistenza di un margine di apprezzamento» del legislatore nazionale rispetto a principi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato. Al legislatore italiano dunque non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici –  di applicazione più ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario.

Per quanto concerne il secondo profilo, la Corte osserva come la scelta di restringere ulteriormente – rispetto al diritto comunitario – i casi di affidamento diretto in house (cioè i casi in cui l’affidatario costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo controlla pienamente e totalmente), sebbene non sia costituzionalmente obbligata, non possa essere ritenuta irragionevole dal momento che tale normativa «…si innesta coerentemente in un sistema normativo interno in cui già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia (introdotto dai non censurati artt. 35 della l. n. 448/2001 e 14 del d.l. n. 269 del 2003) e nel quale, pertanto, i casi di affidamento in house, quale modello organizzativo succedaneo della (vietata) gestione diretta da parte dell’ente pubblico, debbono essere eccezionali e tassativamente previsti». In definitiva, dunque, la Corte osserva conclusivamente sul punto che l’ordinamento comunitario, in tema di tutela della concorrenza e, in particolare, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici, costituisce «…solo un minimo inderogabile per il legislatore degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini più rigorosamente, nel senso di favorire l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento. Pertanto, il legislatore nazionale ha piena libertà di scelta tra una pluralità di discipline ugualmente legittime».

 

2. Congruità del periodo transitorio. La disciplina del periodo transitorio degli affidamenti non conformi dettata dal comma 8 del art. 23-bis, devi ritenersi congrua e proporzionata all’entità ed agli effetti delle modifiche normative introdotte e, dunque, ragionevole.

Tale conclusione viene tratta sulla base della ricostruzione della successione cronologica della disciplina, ricostruzione che, secondo la Corte, delinea un regime transitorio «con una cadenza differenziata, a seconda delle varie ipotesi, a partire dal 31 dicembre 2010 e sino al 31 dicembre 2012, termine ultimo, successivamente modificato, a decorrere dal 25 novembre 2009, in quello del 31 dicembre 2015». Ed è proprio alla luce di tale conclusione che la Corte afferma che tali margini temporali «in ragione della loro ampiezza, sono in grado di assicurare concretamente la possibilità di attenuare le conseguenze economiche negative connesse alla cessazione anticipata degli affidamenti e, dunque, escludono che possa essere invocato l’incolpevole affidamento del gestore nella durata naturale del contratto di servizio, che, solo, potrebbe determinare una possibile irragionevolezza della norma»[1].

 

3. Determinazione delle condizioni di rilevanza economica dell’attività. La nozione di “rilevanza economica”, al pari di quella omologa di “interesse economico” propria del diritto comunitario, va utilizzata, nell’ambito della disciplina del mercato dei servizi pubblici, quale criterio discretivo per l’applicazione delle norme concorrenziali e concorsuali comunitarie in materia di affidamento della gestione di tali servizi. Ne deriva che, «proprio per tale suo ambito di utilizzazione, la determinazione delle condizioni di rilevanza economica è riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di “tutela della concorrenza”, ai sensi del secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost.».

Poiché l’ordinamento comunitario esclude che gli Stati membri, ivi compresi gli enti infrastatuali, possano soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza dell’interesse economico del servizio, conseguentemente il legislatore statale si è adeguato a tale principio dell’ordinamento comunitario nel promuovere l’applicazione delle regole concorrenziali e ha escluso che gli enti infrastatuali possano soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza della rilevanza economica del servizio.

“L’interesse economico generale”, in quanto funzionale ad una disciplina comunitaria diretta a favorire l’assetto concorrenziale dei mercati, è riferito alla possibilità di immettere una specifica attività nel mercato corrispondente (reale o potenziale) ed ha, pertanto, natura essenzialmente oggettiva. Ne deriva che, l’ordinamento comunitario, in considerazione della rilevata portata oggettiva della nozione di “interesse economico”, vieta che gli Stati membri e gli enti infrastatuali possano soggettivamente e a loro discrezione decidere circa la sussistenza di tale interesse.

In tale prospettiva, la Corte relativamente al servizio idrico integrato afferma che «il legislatore statale, in coerenza con la menzionata normativa comunitaria e sull’incontestabile presupposto che il servizio idrico integrato «si inserisce in uno specifico e peculiare mercato (come riconosciuto da questa Corte con la sentenza n. 246 del 2009), ha correttamente qualificato tale servizio come di rilevanza economica, conseguentemente escludendo ogni potere degli enti infrastatuali di pervenire ad una diversa qualificazione».

 

4. Sulla (non) necessaria (preventiva) avocazione della competenza amministrativa. La Corte Costituzionale rileva che non può condividersi l’assunto da cui muove la censura sollevata dalle Regioni avverso i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, in relazione ai parametri «dell’art. 117, commi primo, secondo, terzo, quarto, Cost. con riferimento agli articoli 114, 117, sesto comma, e 118, commi primo e secondo, Cost.», per lesione della «autonomia costituzionale propria dell’intero sistema degli enti locali», in quanto tali previsioni, limitando la «capacità d’organizzazione e di autonoma definizione normativa dello svolgimento delle funzioni di affidamento dei servizi pubblici locali, potrebbero essere legittimamente introdotte dalla legislazione statale solo previa avocazione allo Stato della competenza sull’organizzazione della gestione dei servizi «sinora considerati locali (es. idrico integrato, raccolta dei rifiuti solidi urbani) sul presupposto che l’esercizio unitario di tali servizi sia divenuto ottimale solo a livello d’ambito statale (art. 118, primo comma, Cost.)».

Ad avviso della Corte tale censura si fonda sull’assunto secondo cui il legislatore statale può legittimamente disciplinare le forme di gestione di un servizio pubblico locale solo previa avocazione allo Stato della competenza amministrativa sull’organizzazione della gestione del servizio stesso. I Giudici rigettano tale assunto osservando che «la competenza legislativa esclusiva statale nella materia “tutela della concorrenza” comprende anche la disciplina amministrativa relativa all’organizzazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici locali, a prescindere dall’avocazione allo Stato di competenze amministrative degli altri livelli territoriali di governo».

 

5. Limiti della competenza regolamentare statale in materia di servizi pubblici locali. Oggetto di censura era il comma 10 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, in particolare le lettere a) e b) che demandano alla competenza regolamentare statale il compito di disciplinare rispettivamente: a) l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e l’osservanza, da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata, di «procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale»; b) la possibilità per i Comuni con un limitato numero di residenti, di «svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata».

La questione è risolta dalla Corte a partire dalla riconduzione dell’attinenza della disciplina statale ai titoli competenziali previsti dall’articolo 117 Costituzione.

In tale linea di ragionamento, la Corte scinde la previsione di cui alla lettera a) del comma 10, in due parti. Con riferimento alla prima – quella relativa all’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno – si afferma che la questione di costituzionalità è fondata, mentre dichiara non fondata la questione di costituzionalità sollevata in relazione alla seconda parte e relativa all’assoggettamento di affidatari diretti – società in house e società a partecipazione mista pubblica e privata – alle «procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale».

La censura di costituzionalità sollevata in riferimento alla prima parte della lettera a) è accolta sulla base della considerazione che «l’ambito di applicazione del patto di stabilità interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l’art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare».

Di contro, la disciplina prevista dalla seconda parte della lettera a) del comma 10, è considerata attinente alla materia della tutela della concorrenza. Più precisamente, la disposizione in parola è finalizzata ad evitare che, nel caso di affidamenti diretti, si possano determinare distorsioni dell’assetto concorrenziale del mercato nella fase, successiva all’affidamento del servizio, dell’acquisizione degli strumenti necessari alla concreta gestione del servizio stesso. In secondo luogo, essa attiene anche alla materia dell’ordinamento civile, anch’essa di competenza esclusiva dello Stato, in quanto impone alla particolare categoria di società cui è affidata in via diretta la gestione di servizi pubblici locali una specifica modalità di conclusione dei contratti per l’acquisto di beni e servizi e per l’assunzione di personale (sulla riconduzione delle modalità di conclusione dei contratti alla materia dell’ordinamento civile, ex plurimis, sentenza n. 295 del 2009). Ne consegue che la previsione del semplice parere della «Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni», anziché dell’intesa, non lede alcuna competenza regionale.

Analoga conclusione viene raggiunta in relazione alla disposizione contenuta nella lettera b) – che attribuisce allo Stato la potestà di prevedere con regolamento che «i comuni con un limitato numero di residenti possano svolgere le funzioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali in forma associata» – dal momento che l’ambito nel quale il regolamento statale interviene attiene alla materia «tutela della concorrenza», avendo per oggetto la determinazione della dimensione ottimale della gestione del servizio (sentenza n. 246 del 2009, punti 12.2. e 12.5. del Considerato in diritto). Ne consegue, anche in tal caso, che «la previsione del semplice parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, anziché dell’intesa, non lede alcuna competenza regionale».

 

6. Limiti alla disciplina regionale nella disciplina dei servizio idrico integrato. La disciplina del servizio idrico integrato va ascritta alla competenza esclusiva dello Stato nelle materie “tutela della concorrenza” e della “tutela dell’ambiente” ed è, pertanto, inibito alle Regioni derogare alla disciplina statale. In tale linea di ragionamento, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune previsioni contenute nelle leggi delle Regioni Liguria (L.R. 38/2008) e Campania (L.R. 2/2010) che dettavano una disciplina in aperto contrasto con la disciplina dettata dal legislatore nazionale.

Più precisamente, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle seguenti disposizioni regionali.

 

i) Il comma 1 dell’art. 4 della L.R. Liguria n. 39/2008 (Regione Liguria 28 ottobre 2008, n. 39 (Istituzione della Autorità d’Ambito per l’esercizio delle funzioni degli enti locali in materia di risorse idriche e gestione dei rifiuti ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 – Norme in materia ambientale), in quanto attribuisce alla Giunta regionale una serie di competenze amministrative spettanti al COVIRI (ora CONVIRI), ai sensi dell’art. 161, c. 4, l. c), del d.lgs. n. 152 del 2006. Risulta così violato l’ art. 117, c. 2, lett. s), Cost., che riserva allo Stato la competenza legislativa nella materia “tutela dell’ambiente”.

 

ii) Il comma 4 dell’art. 4 della L.R. Liguria n. 39/2008, il quale prevede la competenza dell’Autorità d’Ambito a provvedere all’affidamento del servizio idrico integrato, “nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, c. 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006”. La norma censurata impone, infatti, l’applicazione del c. 5 dell’art. 113 TUEL, cioè di un comma abrogato per incompatibilità dall’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008, con il quale, pertanto, si pone in contrasto. In particolare, il citato c. 5 dell’art. 113 è palesemente incompatibile con i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, perché disciplina le modalità di affidamento del SPL in modo difforme da quanto previsto da detti commi.

 

iii) I commi 5 e 6 dell’art. 4 della L.R. Liguria n. 39/2008, in quanto tali norme impongono l’applicazione del c. 15-bis dell’art. 113 TUEL, abrogato per incompatibilità dall’art. 23-bis, con il quale, pertanto, si pone in contrasto. Il citato c. 15-bis dell’art. 113 TUEL, infatti, è incompatibile con il suddetto art. 23-bis, perché disciplina il regime transitorio degli affidamenti diretti del servizio pubblico locale in modo difforme da quanto previsto dal parametro interposto. Ne deriva, pertanto, la violazione dell’art. 117, c. 2, lett. e), Cost.

 

iv) Il comma 14 dell’art. 4 della L.R. Liguria n. 39/2008, il quale affida all’Autorità d’Ambito territoriale ottimale (AATO) la competenza a definire “i contratti di servizio, gli obiettivi qualitativi dei servizi erogati, il monitoraggio delle prestazioni, gli aspetti tariffari, la partecipazione dei cittadini e delle associazioni dei consumatori di cui alla l.r. 2 luglio 2002, n. 26”, in quanto si pone “in contrasto con la normativa statale”, cioè con il c. 4, lett. c), del nuovo testo dell’art. 161 del d.lgs. n. 152/2006, il quale ha attribuito al COVIRI la relativa competenza. Anche in tal caso, infatti, la Regione è intervenuta, nella materia “tutela dell’ambiente”, attribuendo all’Autorità d’Ambito una serie di competenze amministrative spettanti, invece, al COVIRI (ora CONVIRI), ai sensi dell’art. 161, c. 4, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006, ed ha pertanto violato l’art. 117, c. 2, lett. s), Cost.

 

v) Il comma 1 dell’art. 1 della L.R. Campania n. 2/2010 (Regione Campania 21 gennaio 2010, n. 2 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – Legge finanziaria anno 2010);), il quale prevede la competenza della medesima Regione a disciplinare il servizio idrico integrato regionale come servizio privo di rilevanza economica ed a stabilire autonomamente sia le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio sia il termine di decadenza degli affidamenti in essere, in quanto essa si pone in contrasto con gli artt. 141 e 154 del d.lgs. n. 152 del 2006, l’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008, il d.l. n. 135 del 2009 e l’art. 113 TUEL, che ricomprendono il servizio idrico integrato tra i servizi dotati di rilevanza economica. La disciplina statale pone una nozione generale e oggettiva di rilevanza economica, alla quale le Regioni non possono sostituire una nozione meramente soggettiva, incentrata cioè su una valutazione discrezionale da parte dei singoli enti territoriali e ponendosi, altresì, in contrasto con il regime transitorio disciplinato dall’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008, il quale non può essere oggetto di deroga da parte delle Regioni.

 


[1] In riferimento al passaggio contenuto nel punto 8.2 del considerando in dritto, va rilevato che la ricostruzione operata dalla Corte circa l’effettiva ampiezza ed estensione dei margini temporali del regime transitorio non risulta perfettamente aderente al dettato normativo di cui al comma 8 dell’articolo 23 bis. In base a tale disposizione, infatti, il regime transitorio degli affidamenti diretti può essere ricostruito a partire dalla individuazione delle seguenti date di cessazione:

a) 31/12/2011 per gestioni in house, in essere alla data del 22/08/2008, non conformi alla disciplina prevista  dall’articolo 23 bis, comma 3,  con previsione di “salvezza” – ovvero di scadenza alla data prevista dal contratto di servizio – a condizione che entro il 31/12/2011 le amministrazioni cedano almeno il 40% del capitale attraverso le modalità di cui alla lett. b) del c.2, dell’art.23 bis;

b) 31/12/2011 per le gestioni affidate direttamente a società miste, il cui socio sia stato scelto mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui al comma 2, let. a), dell’art.23 bis, che non abbiano avuto ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio conformemente al comma 2, let. b). Cessano, invece, alla naturale scadenza prevista dal contratto di servizio le gestioni affidate direttamente a società miste, il cui socio  sia stato scelto mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla let. a), comma 2, dell’art.23 bis, che abbiano avuto ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio in base al comma 2, let. b).

d) alla scadenza prevista nel contratto di servizio, gli affidamenti diretti assentiti alla data del 1/10/2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in borsa a tale data e a quelle da esse controllate ai sensi dell’art. 2359 c.c., a condizione che la partecipazione pubblica, si riduca anche progressivamente, attraverso procedure ad evidenza pubblica, ovvero forme di collocamento privato presso investitori qualificati e operatori industriali, ad una quota non superiore al 40% entro il 30/06/2013 e non superiore al 30 % il 31/12/2015;  se tali condizioni non si verifichino, gli affidamenti cessano, rispettivamente, il 30/06/2013 o il 31/12/2015;

e) al 31/12/2010, per tutte le gestioni affidate che non rientrano in nessuno dei casi precedenti.

Sulla base di tale ricostruzione possono essere dunque effettuate due osservazioni circa le considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale nel richiamato punto 8.2 della pronuncia 325/2010.

La prima è relativa al fatto che l’attuale regime transitorio degli affidamenti, contenuto nel c.8, dell’art.23 bis, è scandito, essenzialmente, dalle due date del 31/12/2010 e del 31/12/2011, mentre non risulta nel dato normativo alcun riferimento alla data del 31/12/2012.

La seconda, riguarda invece la data di cessazione degli affidamenti al 31/12/2015; tale data, infatti, non ha una validità di carattere generale in quanto si riferisce ad un limitato numero di affidamenti: gli affidamenti in essere al 1/10/2003 a società partecipate già quotate a quella data (e a quelle da esse controllate ai sensi dell’articolo 2359 c.c.) che, entro il 31/12/2015, non abbiano ceduto a terzi almeno il 70 per cento del loro capitale sociale.

a cura di Luigi Alla


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