Commento alla sentenza Corte di Giustizia della Comunità Europea Sez. IV, 23 dicembre 2009, C- 305/08

12.05.2010

La sentenza qui commentata si segnala perché consente di trarre alcuni spunti in materia di definizione dell’ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni contenute nel d.lgs. 12 aprile 2006 (e, ancor prima, delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) sottolineando, in particolare, le differenti prospettive di partenza da cui muove il diritto comunitario e quello nazionale, nella condivisa finalità di assicurare la piena ed effettiva concorrenza nel settore degli appalti pubblici. Senza voler anticipare le (pur sommarie) conclusioni di questo breve contributo, merita di essere evidenziato sin da ora come la ricostruzione complessiva degli strumenti di tutela del libero confronto concorrenziale cui sembra aderire la Corte di Giustizia, sicuramente apprezzabile in una dimensione sistematica del diritto comunitario, non solo consentirà di superare le precedenti oscillazioni che si erano registrate nella giurisprudenza nazionale, ma si rivela altresì carica di implicazioni per il diritto interno italiano, con particolare riguardo ad alcune recenti disposizioni adottate dal Legislatore nazionale ed le valutazioni da effettuarsi nel concreto corso di svolgimento delle procedure di gara.

La controversia decisa dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea, Sez. IV, 23 dicembre 2009, C- 305/08 verte, infatti, sulla (il)legittimità di una interpretazione delle direttive comunitarie in materia di appalti volta a delimitare l’accesso alle procedure di gara ai soli “operatori economici”, intendendosi per tali esclusivamente i soggetti la cui struttura organizzativa ed attività prevalente sia orientata al perseguimento di fini di lucro, così coincidendo sostanzialmente con la nozione di impresa descritta dal codice civile italiano. La sentenza della Corte, quindi, interviene a dirimere il contrasto giurisprudenziale insorto dopo il recepimento delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE da parte del Legislatore italiano con il d.lgs. n. 163 del 2006, statuendo che la nozione di operatore economico non corrisponde a quella codicistica, ma deve intendersi in senso più flessibile e, quindi, più ampio.

Per inquadrare correttamente i termini della questione, occorre soffermarsi – sia pure in estrema sintesi – sulla controversia decisa dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea, sollevata in via incidentale dal Giudice Amministrativo italiano.

Nella specie, si trattava di una procedura di gara indetta da una Regione per l’affidamento di un appalto di servizi avente ad oggetto l’acquisizione di rilievi marini sismostratigrafici, l’esecuzione di carotaggi e il prelievo di campioni in mare nella fascia costiera. A tale selezione partecipava anche un raggruppamento, costituito da un consorzio di ventiquattro università italiane, il cui statuto enuncia l’assenza di scopo di lucro, essendo piuttosto tale soggetto istituzionalmente rivolto a promuovere e coordinare le ricerche e le altre attività scientifiche nel settore.

La commissione giudicatrice, rilevata, l’assenza di scopo di lucro in capo al consorzio, ha ritenuto di doverlo escludere, nel presupposto che l’art. 34 del d.lgs. n. 163 del 2006 contenga una elencazione tassativa dei soggetti ammessi a partecipare alle procedure di gara indette dalle stazioni appaltanti. Avverso tale esclusione, il consorzio interponeva ricorso straordinario al Presidente della Repubblica ed il Consiglio di Stato, investito della questione, decideva di rinviare gli atti alla Corte di Giustizia affinché fosse accertato se un “raggruppamento interuniversitario … possa essere considerato un «operatore economico» ai sensi della direttiva 2004/18 e se, pertanto, sia ammesso a partecipare ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi come quella oggetto della causa principale” (cfr. par. 17 della sentenza).

E, in effetti, la necessità di un intervento chiarificatore della Corte di Giustizia si era reso opportuno alla luce di quattro ordini di (connesse) considerazioni. Sotto un primo profilo, assume rilievo l’art. 1, lett. c), della direttiva 92/50/CEE, alla quale è succeduta la direttiva 2004/18, a tenore della quale la locuzione “«prestatori di servizi» le persone fisiche o giuridiche, inclusi gli enti pubblici che forniscono servizi“, sembrerebbe restringere l’ambito soggettivo di applicazione della disposizione “ai soggetti che svolgono «istituzionalmente» l’attività corrispondente alla prestazione che dovrà essere fornita nell’ambito dell’appalto di cui trattasi” (cfr. par. 19), con la conseguenza che  potrebbero essere ammessi alle gare, “oltre agli operatori economici privati, soltanto gli organismi pubblici che forniscono a titolo lucrativo le prestazioni oggetto di tale appalto, conformemente alla missione loro conferita nell’ambito dell’ordinamento giuridico, con esclusione quindi degli organismi universitari“. A tale impostazione, peraltro, sembra accedere anche il legislatore italiano,  laddove all’art. 3, comma 19, del decreto legislativo n. 163/2006,  è stato stabilito che il prestatore di servizi “è un operatore economico «che offr[e]» servizi «sul mercato»” (cfr. par. 19).

Va sottolineato, inoltre come, nella pratica applicazione delle norme si erano progressivamente profilati differenti orientamenti giurisprudenziali.

Secondo un primo (e più risalente) indirizzo, ad esempio, era impedito alle associazioni di volontariato di partecipare alle procedure di gara ad evidenza pubblica, a ciò ostando l’assenza di lucro nel loro scopo sociale (TAR Lombardia – Milano, Sez. III, 9 marzo 2000, n. 1869). La descritta esclusione, peraltro, era motivata in ragione del fatto che le associazioni godono di regimi fiscali particolarmente agevolati, con la conseguenza che la loro ammissione alle gare introdurrebbe un elemento destabilizzante della concorrenza e del corretto confronto tra imprese (TAR Basilicata, Sez. I, 6 dicembre 2005, n. 1011). Più di recente, il TAR Lazio – Roma, Sez. III, 29 luglio 2008, n. 7591, aveva ribadito la tesi secondo cui la nozione di impresa ipostatizzata nel codice civile sarebbe l’unica alla quale riferimento per delimitare l’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 34 del d.lgs. n. 163 del 2006, escludendo di conseguenza una fondazione da una gara d’appalto in ragione della circostanza che l’assenza di scopo di lucro non le consentirebbe di svolgere attività commerciali.

In definitiva, secondo tale orientamento giurisprudenziale la ratio sottostante alle direttive ed all’art. 34 del d.lgs. n. 163 del 2006 sarebbe quella di consentire la partecipazione ai soli soggetti che perseguono scopi di lucro, ossia, in buona sostanza le diverse forme di impresa previste dal codice civile e dalle altre leggi speciali.

Un più recente indirizzo della giurisprudenza, tuttavia, sembra avere aderito ad una diversa ricostruzione della sfera di applicazione soggettiva, mostrandosi favorevole a consentire l’accesso alle gare anche alle associazioni prive di scopi di lucro, in nome della più ampia tutela dei principi  di apertura del mercato e della concorrenza (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 26 marzo 2009, n. 889). Viene così ad essere privilegiata un’ottica di tipo “oggettivo”, in virtù della quale la variabile discriminante è costituita dalla suscettibilità (o meno) dell’attività svolta dal soggetto di essere inquadrata nei criteri tipici dell’attività imprenditoriale, ossia dalla sua attitudine a generare ricavi e, quindi, utile d’impresa. Anche il Consiglio di Stato appare attestarsi sulla medesima posizione, in quanto in una recente decisione della Sezione VI (16 giugno 2009 n. 3897), è stato riconosciuto come la nozione di “imprenditore” di derivazione comunitaria (alla quale fare riferimento per l’applicazione delle norme in materia di procedure di gara) differisce notevolmente da quella desumibile dal codice civile italiano (non applicabile o, comunque, recessiva ai fini dello svolgimento delle procedure ad evidenza pubblica). In particolare, quel che rileva ai fini della ammissione alla gare non sarebbe la sussistenza o meno di uno scopo di lucro in capo all’appaltatore, bensì l’intenzione di questi di rendere una prestazione dietro pagamento di corrispettivo, comportandosi in pratica alla stregua di un “imprenditore” secondo le categorie proprie del diritto comunitario.

Un terzo ordine di argomentazioni si fondava sulla posizione dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che aveva operato “una distinzione tra gli operatori economici e i soggetti, come gli enti pubblici non economici, le università e i dipartimenti universitari, che non rientrano nella prima categoria in quanto perseguono finalità diverse dall’esercizio di un’attività economica“, escludendo che questi ultimi potessero essere ammessi a partecipare ad appalti pubblici, a meno che non costituissero “apposite società in base all’autonomia riconosciuta alle università dalla normativa nazionale” (vedi par. 21).

Un ultimo profilo assunto dal Consiglio di Stato a motivo delle proprie riserve e, quindi, della richiesta di intervento della Corte di Giustizia, è quello relativo ai precedenti della stessa Corte, in cui è stato ripetutamente enunciato il principio dell’obbligo di interpretazione delle norme “alla luce di un criterio funzionale che consenta di evitare l’elusione del principio fondamentale della concorrenza effettiva” (cfr. par. 22).

La posizione assunta dalla Corte di Giustizia è estremamente chiara nel senso di affermare che “il legislatore comunitario non ha inteso restringere la nozione di «operatore economico che offre servizi sul mercato» unicamente agli operatori che siano dotati di un’organizzazione d’impresa, né introdurre condizioni particolari atte a porre una limitazione a monte dell’accesso alle procedure di gara in base alla forma giuridica e all’organizzazione interna degli operatori economici” (par. 35).

In questo senso, la Corte osserva, nel paragrafo 28, come la direttiva 2004/18 non definisca la nozione di “operatore economico” in termini precisi (e, quindi, tassativi), adottando piuttosto una formulazione flessibile e, soprattutto, senza introdurre alcun distinguo in funzione del perseguimento o meno dello scopo di lucro preminente. Del pari, la direttiva non contiene alcun esplicito divieto privi di scopo di lucro di partecipare alle gare pubbliche: tanto ciò è vero che, anzi, è espressamente prevista la possibilità per gli organismi di diritto pubblico – che pure svolgono attività non commerciale o industriale – di partecipare alle procedure di gara.

Particolarmente interessanti, poi, sono le considerazioni svolte dalla Corte in ordine ai possibili effetti distorsivi della concorrenza derivanti dalla ammissione alle gare delle associazioni, in quanto soggetti che, di  regola, beneficiano di trattamenti fiscali agevolati. A tale proposito, la Corte rileva che “il quarto «considerando» della direttiva 2004/18 enuncia l’obbligo per gli Stati membri di provvedere affinché una distorsione di questo tipo non si produca per il fatto della partecipazione di un organismo di diritto pubblico a un appalto pubblico“, estendendo la portata dell’obbligo anche a categorie di soggetti come il consorzio interuniversitario. Conseguentemente, le stazioni appaltanti sono chiamate ad intervenire nelle procedure applicando i noti rimedi della verifica in ordine all’eventuale anomalia dell’offerta pervenuta, nel caso qualificando il regime fiscale agevolato alla stregua di  un aiuto di stato (o, se si vuole, sovvenzione) incompatibile con la partecipazione dell’operatore alla gara.

I successivi paragrafi compresi tra 37 e 43 sono dedicati ad un’illustrazione sintetica (ma certo esaustiva) dei precedenti della stessa Corte di Giustizia, sui quali si è intesa fondare la sentenza in commento.

Il ragionamento svolto prende le mosse dalla preliminare statuizione per cui “uno degli obiettivi della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici è costituito dall’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile … e che è nell’interesse del diritto comunitario che venga garantita la partecipazione più ampia possibile di offerenti ad una gara d’appalto“. Ciò, peraltro, nella convinzione che solo attraverso la massima apertura del confronto concorrenziale si possa garantire il migliore risultato possibile – in termini di qualità ed economicità della prestazione offerta – per la stazione appaltante.

Se questo è vero, è inevitabile che sotto il profilo della sfera di applicazione soggettiva delle norme sugli appalti si giunga ad un’interpretazione altrettanto estensiva della nozione di “operatori economici“, così da ricomprendere al suo interno, ad esempio, anche gli organismi di diritto pubblico (i quali, come noto, non esercitano “a titolo principale un’attività lucrativa sul mercato“).

Più in generale, il diritto comunitario tende a ritenere incompatibile con il descritto principio ogni forma di esclusione aprioristica di soggetti, sia essa derivante dalla particolare “forma giuridica corrispondente ad una determinata categoria di persone giuridiche“, oppure imputabile alla circostanza che tali organismi “beneficiano di sovvenzioni che consentono loro di presentare offerte a prezzi notevolmente inferiori a quelli degli offerenti concorrenti non sovvenzionati“.

In conclusione, la Corte ritiene che “sia dalla normativa comunitaria sia dalla giurisprudenza della Corte” si rintracciano fondate argomentazioni per ammettere “a presentare un’offerta o a candidarsi qualsiasi soggetto o ente che, considerati i requisiti indicati in un bando di gara, si reputi idoneo a garantire l’esecuzione di detto appalto, in modo diretto oppure facendo ricorso al subappalto, indipendentemente dal fatto di essere un soggetto di diritto privato o di diritto pubblico e di essere attivo sul mercato in modo sistematico oppure soltanto occasionale, o, ancora, dal fatto di essere sovvenzionato tramite fondi pubblici o meno“. Altrimenti argomentando, si finirebbe per accedere ad “un’interpretazione restrittiva della nozione di «operatore economico»“, in virtù della quale “i contratti conclusi tra amministrazioni aggiudicatrici e organismi che non agiscono in base a un preminente scopo di lucro non sarebbero considerati come «appalti pubblici»“, con il rischio di potere essere aggiudicati “in modo informale e, in tal modo, sarebbero sottratti alla norme comunitarie in materia di parità di trattamento e di trasparenza, in contrasto con la finalità delle medesime norme“.

Come si vede, dunque, secondo il diritto comunitario non è possibile escludere a priori alcuna categoria di soggetti dalla partecipazione ad una gara per il solo fatto di non perseguire scopi di lucro, in quanto una simile previsione contrasterebbe con il principio della massima apertura delle procedure ad evidenza pubblica, il quale si pone a corollario del più generale canone della concorrenza quale ordinario criterio di aggiudicazione dei contratti pubblici.

Né la Corte ritiene che una restrizione alla partecipazione motivata per il fatto che le associazioni prive di scopi di lucro godano di rilevanti agevolazioni fiscali possa essere di per sé valida ragione giustificatrice, dovendosi piuttosto procedere a verifiche caso per caso, applicando l’istituto della anomalia ed il ricorso alle regole sugli aiuti di Stato. Un ulteriore temperamento del principio dei soggetti privi di scopo lucro alle procedure ad evidenza pubblica è rinvenibile, peraltro, nella facoltà degli Stati membri di “autorizzare o non autorizzare tali soggetti ad operare sul mercato in funzione della circostanza che l’attività in questione sia compatibile, o meno, con i loro fini istituzionali e statutari” (vedi par. 48). Tale decisione, però, è affidata a ciascuno Stato membro e deve essere adottata in via preventiva (e generale), con la conseguenza che, una volta autorizzati gli stessi soggetti “a offrire taluni servizi sul mercato, la normativa nazionale che recepisce la direttiva 2004/18 nel diritto interno non può vietare a questi ultimi di partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici aventi ad oggetto la prestazione degli stessi servizi“.

La sentenza della Corte di Giustizia ha indubbiamente il merito di offrire un chiarimento (si auspica) definitivo sul tema della corretta interpretazione dell’art. 34 del d.lgs. n. 163 del 2006, con particolare riferimento alla delimitazione dei soggetti (o, se si vuole, della loro forma giuridica) ammessi a partecipare alle procedure di gara ad evidenza pubblica. La soluzione ermeneutica prospettata, inoltre, risulta la più coerente con l’obiettivo effettivamente perseguito dalle direttive comunitarie, ossia quello di garantire la massima tutela della concorrenza attraverso la più ampia partecipazione possibile alle procedure di gara. Come giustamente osservato dalla Corte, infatti, ogni eventuale restrizione che si fondi sulla natura del soggetto partecipante contiene in sé il rischio della creazione di  aree speciali, in cui “i contratti conclusi tra amministrazioni aggiudicatrici e organismi che non agiscono in base a un preminente scopo di lucro non sarebbero considerati come «appalti pubblici», potrebbero essere aggiudicati in modo informale e, in tal modo, sarebbero sottratti alla norme comunitarie in materia di parità di trattamento e di trasparenza, in contrasto con la finalità delle medesime norme” (par. 43).

Appare altrettanto evidente, tuttavia, come l’applicazione nel nostro ordinamento dei principi enunciati nella sentenza della Corte potrebbe risultare non del tutto agevole, per due ordini di considerazioni.

In primo luogo, l’orientamento espresso nella sentenza che qui si segnala si fonda su di una ricostruzione del concetto di impresa diametralmente opposto: ai fini del giudizio sull’ammissibilità dell’operatore economico, occorre indagare la sua natura soggettiva (apprezzabile attraverso indici esteriori), bensì il possesso dei “requisiti indicati in un bando di gara” richiesti per l’esecuzione dell’appalto “in modo diretto oppure facendo ricorso al subappalto, indipendentemente dal fatto di essere un soggetto di diritto privato o di diritto pubblico e di essere attivo sul mercato in modo sistematico oppure soltanto occasionale, o, ancora, dal fatto di essere sovvenzionato tramite fondi pubblici o meno” (vedi par. 42). L’applicazione di tale criterio implica una valutazione da effettuarsi nel singolo caso concreto, con un ulteriore onere di (istruttoria e conseguente) motivazione a carico della Amministrazione, chiamata non più (solo) a controllare la natura soggettiva dell’offerente, ma (soprattutto) ad avvalersi dello strumento della verifica dell’anomalia della offerta, con particolare attenzione all’eventuale incidenza di regimi fiscali di favore di cui goda l’offerente o di altre forme di agevolazione (assimilabili ad aiuti di Stato e) suscettibili di alterare il confronto concorrenziale. Con il che si deduce come il compito della stazione appaltante (ed il successivo sindacato giurisdizionale) deve necessariamente risultare più incisivo e penetrante, così da impedire indebite distorsioni nel mercato.

Sotto altra (ma connessa) angolatura, si segnala come la pronuncia in commento potrebbe riflettersi sull’art. 13, co. 1, del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 e s.m.i. con il quale è stato introdotto il divieto  per le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle Amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività (con esclusione dei servizi pubblici locali e dei servizi a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici) di partecipare alle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici disciplinati dal d.lgs 12 aprile 2006, n. 163. E’ appena il caso di ricordare come tale disposizione fosse stata introdotta al dichiarato scopo di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori nel territorio nazionale, data la considerevole diffusione sul territorio di società (formalmente private ma sostanzialmente) pubbliche, a partecipazione pubblica mista o totalitaria ed i loro rapporti preferenziali con le Amministrazioni aggiudicatrici.

Il rilevato disfavore manifestato dalla Corte di Giustizia verso soluzioni normative che si traducono in un divieto generalizzato ed a priori alla partecipazione alle procedure di gara per alcune categorie di soggetti, tuttavia, induce a dubitare che tale divieto possa considerarsi del tutto compatibile con il diritto comunitario. E, in effetti, similmente a quanto osservato nella sentenza della Corte in commento, il Giudice comunitario potrebbe ritenere che sia sufficiente ad evitare distorsioni del mercato ed alterazioni della par condicio il ricorso alla verifica dell’anomalia dell’offerta, oppure l’applicazione della disciplina in materia di aiuti di Stato. L’esigenza di consentire la partecipazione anche di tali soggetti, del resto, sembrerebbe anche rafforzata in considerazione del fatto che le società a partecipazione pubblica posseggono una veste formale di impresa e, di regola, esercitano attività a scopo di lucro, consistente nell’erogazione di servizi pubblici. In questo senso, allora, appare particolarmente rilevante il passaggio della motivazione della sentenza in commento, nella parte in cui la Corte di Giustizia, da un lato, afferma come gli Stati membri possano “autorizzare o non autorizzare tali soggetti ad operare sul mercato in funzione della circostanza che l’attività in questione sia compatibile, o meno, con i loro fini istituzionali e statutari“; dall’altro, precisa anche come “tuttavia, se, e nei limiti in cui, siffatti soggetti siano autorizzati a offrire taluni servizi sul mercato, la normativa nazionale che recepisce la direttiva 2004/18 nel diritto interno non può vietare a questi ultimi di partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti pubblici aventi ad oggetto la prestazione degli stessi servizi“.

A cura di Filippo Degni


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