La funzione statutaria e regolamentare degli enti locali

24.06.2002

Convegno promosso dall’Università di Palermo – Trapani, 3 maggio 2002

1. Premessa: un problema ricostruttivo (in parte) nuovo

La recente riforma del Titolo V della Costituzione ha posto certamente in primo piano anche la questione del potere normativo dei comuni, delle province e degli altri enti locali, poiché sono stati espressamente previsti a livello costituzionale – a differenza di quanto avveniva in precedenza – sia un potere statutario (nel secondo comma dell’art. 114), correlativo al riconoscimento di una condizione istituzionale di forte autonomia dei soggetti territoriali, sia un potere regolamentare (nel sesto comma dell’art. 117), preordinato specificamente alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni attribuite a ciascun ente locale.

Anche se non si tratta certo di una innovazione in assoluto nel diritto positivo, visto che un potere normativo era da tempo previsto nell’ambito dell’ordinamento italiano degli enti locali, le novità introdotte dalle innovazioni costituzionali suddette hanno indubbiamente aperto nuovi orizzonti, da valutare nel quadro del disegno complessivo di riforma istituzionale che la l.c. n. 3 del 2001 contiene. Va subito detto, in proposito, che se non sono poche le incertezze nella collocazione nel sistema delle fonti normative di quelle locali, anche per via delle formulazioni costituzionali non sempre puntuali ed esaustive in ordine al nuovo assetto dei poteri normativi ai vari livelli del sistema istituzionale, è fuori discussione che la prospettiva ricostruttiva deve ora necessariamente saldarsi con il senso profondo dell’autonomia degli enti territoriali, coniugata nel nuovo Titolo V in tutte le sue facce (politica, normativa, amministrativa, finanziaria), partendo da una lettura a tutto tondo dei principi e delle potenzialità contenuti nella norma fondamentale dell’art. 5 della Costituzione.

2. Gli antefatti delle innovazioni costituzionali sul potere normativo degli enti locali

Come già accennato, comuni e province hanno sempre goduto di uno spazio (non trascurabile) di potestà regolamentare, che in certo modo si può considerare intrinseca con la storia di queste istituzioni territoriali. D’altra parte, basta por mente alle previsioni legislative in materia risalenti alla fase iniziale dell’ordinamento unitario, nel XIX secolo, poi ricomprese nel testo unico sull’ordinamento degli enti locali del 1934, per rendersi conto del rilievo di una serie di regolamenti locali in settori tradizionalmente significativi: v. quelli in materia di uso dei beni locali, di igiene, di edilizia, di polizia locale, nonché quelli relativi alle istituzioni di servizio costituite dagli enti locali.

Queste fonti normative – previste dunque già assai prima della introduzione dei principi autonomistici nella Costituzione repubblicana – sono state in vario modo inquadrate dalla dottrina, ma per lo più è prevalsa la tendenza, almeno nei commentatori più attenti all’importanza di questi atti di autoregolazione – non solo in fautori del pouvoir municipal come diritto naturale (v. Santi Romano), ma anche in autori di matrice culturale più ‘statalista’ (v. Zanobini) –, a configurare questi regolamenti non come esercizio di funzioni amministrative, sia pure di carattere generale, bensì come espressione di una specifica attitudine degli enti locali a produrre norme ‘proprie’ (in parallelo, per molti versi, con le funzioni ‘proprie’, che non a caso tali autori riconoscevano di pertinenza necessaria degli enti rappresentativi di una collettività territoriale)

A maggior ragione si può riscontrare uno specifico rilievo dell’autonomia normativa degli enti locali dopo la scelta costituzionale del 1948, specialmente con riferimento alle potenzialità di autoregolazione e di autogoverno dei comuni e delle province desumibili dagli artt. 5 e 128. In tal senso la dottrina ha per lo più ricostruito e ricondotto i regolamenti locali nella categoria di quelli cd. autonomi o indipendenti, sottolineando con sempre maggiore frequenza l’importanza, in materia di fonti del diritto, del principio di competenza rispetto a quello di gerarchia (basta citare, ad esempio, autori come Benvenuti, Berti, Esposito, Guarino, nonché le considerazioni inequivoche di Crisafulli nel suo saggio del 1965 su ‘Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti’, nel quale espressamente riteneva sussistente, a proposito dei regolamenti di comuni e province, una ‘riserva di autonomia regolamentare nei confronti della stessa legge’; più di recente, anche Modugno ha ripreso la medesima impostazione nell’ambito dei suoi studi sulla crisi della legge, in cui ha messo in evidenza anche la portata dirompente ed espansiva delle fonti locali, accanto a quelle comunitarie).

Questa impostazione si è ovviamente rafforzata con l’evoluzione del diritto positivo, in particolare allorquando – a partire dalla l.n. 142/90 – si è espressamente sancito, nel quadro di una configurazione dell’autonomia dei comuni e delle province maggiormente in sintonia con il principio fondamentale dell’art. 5 Cost., il riconoscimento di un potere sia statutario che regolamentare degli enti locali, finalizzato soprattutto alla autoregolazione dell’organizzazione e dei procedimenti interni, nonché del funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione. La svolta della l. 142 è stata in seguito ripresa e implementata da una serie di interventi di riforma riguardanti, a vario titolo, l’amministrazione e le istituzioni locali, in particolare dalla l. 59/97, nel cui art. 2 è stata significativamente sancita una generalizzata autonomia regolamentare degli enti locali per la disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni ad essi attribuite, nonché dalla l.n. 265/99, che ha circoscritto i limiti al potere normativo degli enti locali ai soli principi espressamente stabiliti dalla legge, con ciò ampliando notevolmente la ratio e la potenziale portata delle regole autonome. Infine il nuovo testo unico sull’ordinamento degli enti locali n. 267/2000 ha ribadito, come noto, la previsione sia del potere statutario che regolamentare da considerare ‘riservato’ a comuni e province, nell’ambito di una sorta di minigerarchia locale delle fonti in cui il regolamento deve naturalmente rispettare non solo i principi fissati dalla legge ma anche lo statuto.

3. Il ruolo e il valore delle fonti locali dopo la riforma costituzionale

La costituzionalizzazione che ora è stata operata dalla l.c. n. 3/01 sia di statuti che di regolamenti degli enti locali ha, dunque, come antefatti tutta questa serie di vicende, che confermano in certo modo un dato di continuità tipico della realtà delle istituzioni locali. Per altro verso, tuttavia, va sottolineato che è mutato – e non di poco – il quadro di riferimento generale dell’autonomia locale in cui si inserisce anche il riconoscimento costituzionale del potere normativo di comuni e province, poiché il nuovo orizzonte del Titolo V sviluppa appieno le potenzialità dell’art. 5 Cost. e dà vita ad un sistema di istituzioni territoriali di diverso livello parivalenti, nell’ambito di una nuova statualità in cui le autonomie territoriali concorrono a plasmare la stessa essenza della sovranità popolare (come ha significativamente riconosciuto la recentissima sentenza n. 106/2002 della Corte Costituzionale).

Con il nuovo Titolo V tutto il baricentro del sistema si sposta, non solo sul piano amministrativo, ma anche su quello normativo, a cominciare dal rovesciamento di prospettiva nel rapporto tra il potere legislativo statale e quello regionale, che porta a qualificare la regione come soggetto legislativo generale (e residuale). Al di là delle fonti legislative, appare in ogni caso di particolare rilievo il nuovo quadro delle fonti normative locali, che non possono certo considerarsi – visto tra l’altro il nesso tra gli ambiti materiali di statuti e regolamenti locali con campi strategici per il ruolo di autogoverno dei comuni e delle province – come fonti integrative e accessorie della legge, se non addirittura mero strumento dell’autonomia amministrativa, bensì come espressione di una specifica riserva di un potere di autoregolazione, coperto da una specifica garanzia costituzionale, strettamente connessa con il principio di autonomia tout court (che ha, d’altronde, nello stesso etimo il germe e il fondamento di un imprescindibile contenuto normativo).

Si tratta indubbiamente di un riconoscimento che si lega, come già accennato, ad un ruolo proprio – e quindi insostituibile – delle fonti locali, che sono da considerare quindi le uniche ora abilitate a disciplinare determinati oggetti o comunque a dettare un certo ambito di disciplina (anche se questa configurazione forte del principio di competenza normativa non determina, a mio avviso, di per sé una pari dignità formale e l’assenza di ogni gerarchia tra la fonte legislativa e le fonti statutarie e regolamentari locali, come sostanzialmente sostenuto da Ignazio Marino, né una assimilazione degli statuti locali alle fonti primarie, in applicazione di una sorta di principio di sussidiarietà normativa, come adombrato da Andrea Piraino). Semmai si pone in modo nuovo un problema di collocazione degli statuti e dei regolamenti locali nel sistema delle fonti, partendo dalla matrice di democraticità-sovranità popolare indubbiamente da riconoscere a questi strumenti normativi, che entro certi limiti dovrebbero poter certo essere anche opponibili alla legge (ferma restando, ovviamente, la impossibilità per fonti non legislative di disciplinare aree oggetto di riserva assoluta di legge).

In tal senso l’approfondimento che può risultare maggiormente utile per discernere l’ambito riservato alla legge da quello riservato alle fonti locali dovrebbe mirare a mettere in luce soprattutto il ruolo proprio della legge rispetto a quello dello statuto e dei regolamenti. Da questo punto di vista sembra agevole configurare la legge essenzialmente come la sede di determinazione dei fini generali e delle garanzie procedimentali nella esplicazione delle funzioni amministrative locali, anche a garanzia dei destinatari, mentre appare altrettanto agevole caratterizzare la fonte locale (anzitutto lo statuto) di comuni e province come la sede precipua di determinazione dell’identità di ciascuna istituzione comunitaria nel suo rapporto con il territorio, con le conseguenti principali scelte organizzative e di disciplina degli interessi localizzabili. In tale contesto è poi da considerare riservato ai regolamenti il compito di una disciplina di dettaglio sia sul piano organizzativo interno sia sul piano dell’adeguamento dei procedimenti alla fisionomia e all’assetto di ciascuna istituzione locale.

Proseguendo, sia pure sommariamente, in questa disamina dei tratti caratteristici dal potere normativo delle autonomie di minore ampiezza (territoriale), si può aggiungere che per certi versi l’approccio che forse meglio consente di focalizzare la nuova condizione delle fonti normative locali dopo la riforma costituzionale è quello in cui emergono i limiti che statuti e regolamenti di comuni e province incontrano rispetto alle fonti esterne. Da questo angolo visuale, infatti, si può ricostruire un quadro di vincoli – e, correlativamente, di spazi di autoregolazione disponibili – che rende ancor più evidente il ruolo nuovo e l’ampiezza di campo normativo sia degli statuti che dei regolamenti di autonomia. In effetti, per gli statuti i limiti, ricavabili soprattutto ex art. 114, sono soltanto quelli desumibili dalla stessa Costituzione, in particolare in relazione all’assetto del potere legislativo, salvo aggiungere, da un lato, i vincoli che possono derivare dai principi generali sull’organizzazione pubblica ricavabili dall’ordinamento nazionale (e comunitario) e, dall’altro, le limitazioni che scaturiscono dalla disciplina degli organi di governo di comuni e province, di pertinenza del legislatore statale, ai sensi della lett. p) del secondo comma dell’art. 117. Per i regolamenti locali si deve aggiungere a questo quadro di vincoli anche quanto discende da previsioni legislative statali o regionali (a seconda dell’ambito di competenza materiale), la cui portata peraltro non può spingersi oltre la fissazione di principi generali di disciplina dell’esercizio delle funzioni attribuite a comuni o province, come già in precedenza accennato, salvo eventualmente distinguere tra disciplina riguardante le funzioni riconosciute come proprie e quella concernente le funzioni conferite (considerato che per le prime, a differenza delle seconde, si potrebbe verosimilmente ritenere maggiormente garantita l’autonomia normativa locale e quindi più circoscritto il ruolo riservato al legislatore).

Si tratta quindi, sia per statuti che per regolamenti locali, di una condizione non certo di automatica subordinazione alla legge, come normalmente accade nel rapporto tra fonti primarie e subprimarie. Il tradizionale primato della fonte legislativa– che già era stato messo in discussione prima della recente riforma costituzionale per quanto riguarda il rapporto con le fonti normative di comuni e province (ad esempio da Modugno, che aveva escluso una vera e propria subordinazione, sottolineando semmai che la peculiare condizione di queste fonti di autonomia rappresenta un ulteriore indice della destrutturazione del tradizionale sistema gerarchico) – deve ora sempre più fare i conti con il ruolo specifico degli statuti e con l’ambito materiale entro certi limiti riservato alla fonte regolamentare (in tal senso significativa è, ad esempio, la ricostruzione di Ruggeri, che prospetta, nella Repubblica delle autonomie, il superamento del modello ‘legicentrico’ e una nuova ricomposizione delle fonti in sistema secondo una logica di ‘integrazione’ delle competenze e di garanzie della integrità dell’autonomia).

D’altra parte, va anche osservato che le previsioni di poteri normativi, sia statutari che regolamentari, delle autonomie locali sono da considerare senz’altro immediatamente operative, ossia autoapplicative: non c’è quindi bisogno di alcuna ulteriore previsione o intermediazione legislativa per poter attuare il nuovo quadro di riferimento costituzionale relativo alle funzioni normative degli enti locali, anche se qualche commentatore e financo qualche sede istituzionale sembra attardarsi a prospettare ipotesi di questo genere (v., ad esempio, la relazione al disegno di legge governativo promosso dal Ministro La Loggia, nella quale si pretenderebbe di ‘attribuire’ con legge la nuova potestà statutaria e regolamentare). Semmai può essere opportuno, in tale intervento legislativo, precisare sia il regime di immediata ‘cedevolezza’ della legge a fronte del subentro della fonte locale, sia, per altro verso, il regime transitorio di applicazione delle vigenti norme statali e regionali fino all’emanazione dei regolamenti locali.

Quello che si può, inoltre, aggiungere è che certamente e a maggior ragione non può essere in alcun modo immaginata, dopo la riforma costituzionale, una qualche forma di relazione gerarchica tra i regolamenti statali o regionali e quelli locali: lo impedisce, oltre che la ratio di quanto già osservato in ordine al valore delle nuove fonti rafforzate di autonomia, anche la impostazione sistematica del sesto comma dell’art. 117, nel quale emerge con evidenza la voluntas del legislatore costituzionale di operare un riparto per materia in ordine alle varie fonti regolamentari (statali, regionali e locali), evitando ogni logica di prevalenza formale di una categoria di regolamenti sulle altre.

A proposito dei regolamenti, si può ulteriormente prospettare una questione di taglio diverso e – almeno sul piano metodologico – di non trascurabile rilevanza, chiedendoci se la sfera materiale di queste fonti locali autonome debba ritenersi circoscritta a quanto espressamente previsto nel sesto comma dell’art. 117, ossia ‘alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni attribuite’ agli enti locali. Il che equivale a chiedersi, in altre parole, se vi sia spazio per regolamenti locali in campi non ricompresi nelle indicazioni del sesto comma ma riguardanti, ad esempio, settori in cui tradizionalmente già si è esplicata – come in precedenza accennato – l’autonomia regolamentare di comuni e province.

In proposito si può anzitutto osservare che le suddette formule del sesto comma dell’art. 117 hanno verosimilmente una portata assai ampia, tale da ricomprendere potenzialmente qualsiasi esigenza di autoregolazione locale connessa con l’assetto organizzativo ed i compiti esplicati da ciascun soggetto di autonomia: in tal senso tutte le tipologie di regolamenti locali già previsti dal testo unico del 1934 possono essere agevolmente ricondotte, a vario titolo, a discipline sullo svolgimento di funzioni da considerare di pertinenza degli enti locali, anzitutto dei comuni. D’altra parte, è innegabile che gli enti locali possano utilizzare il potere normativo, sia statutario che regolamentare, per disciplinare anche eventuali ‘funzioni libere’ autoassunte, allorquando ritengano di esercitare compiti nuovi non attribuiti ad altri soggetti del sistema. Comunque, se ulteriori ambiti regolamentari fossero in astratto configurabili, al di là di quanto previsto dal sesto comma dell’art. 117, non sembra che alcunché possa impedire l’esercizio di un potere di regolazione locale anche in tali ambiti, ovviamente in questi casi senza – per così dire – copertura costituzionale e quindi con minori garanzie di autonomia, ossia con potenziali maggiori vincoli rispetto alle fonti primarie, sia statali che regionali, non trattandosi di aree ‘riservate’ alla funzione normativa tipica degli enti locali in questione.

4. L’ambito di statuti e regolamenti locali

A prescindere dalle considerazioni appena svolte, appare in ogni caso essenziale determinare, il più puntualmente possibile, l’ambito e i contenuti propri delle fonti locali, anzitutto per quanto riguarda gli statuti dei comuni e delle province, per i quali nulla precisa la norma dell’art. 114 Cost. che riconosce tale potere normativo, nonché per i regolamenti di autonomia, per i quali l’unico riferimento è quello contenuto nel già citato sesto comma dell’art. 117.

Da questo punto di vista va anzitutto rilevato l’orizzonte effettivamente nuovo che, come già più volte sottolineato, caratterizza ora le fonti normative locali, le quali dovranno sempre più concorrere in futuro a disciplinare concretamente spazi ampi di amministrazione e di funzioni amministrative e servizi pubblici, stante il rilevante potenziamento delle competenze istituzionali degli enti locali, a partire dai comuni, in applicazione del principio di sussidiarietà. In sostanza, essendo destinati gli enti locali a farsi carico in futuro di gran parte del sistema amministrativo, si troveranno anche a dover far fronte ad un maggior carico di regolazione per disciplinare lo svolgimento delle funzioni loro attribuite.

Al di là di questa osservazione, la cui importanza non va certo sottovalutata, vi è comunque una considerazione di fondo che aiuta ancor più a comprendere il nuovo quadro di riferimento in cui si deve collocare anche la ricostruzione dell’ambito effettivo della disciplina pro futuro riservata, almeno in linea di principio, alle fonti locali. Ci si riferisce al venir meno, a seguito della riforma costituzionale, dei presupposti che avevano finora giustificato l’esistenza di un ordinamento generale (statale) per gli enti locali, costituito da un organico quadro normativo, tendenzialmente uniforme per ciascuna categoria di enti, riguardante una serie di oggetti e materie a vario titolo connesse alla fisionomia istituzionale, all’organizzazione e al funzionamento degli enti locali: basti pensare alla serie di ‘capi’ in cui è articolato il recente t.u. n. 267/2000.

In effetti, non si può non dire che il recentissimo testo unico sugli enti locali, confezionato al termine di un decennio di riforme che hanno prodotto innovazioni significative nell’assetto istituzionale e organizzativo dei comuni e delle province, è già da ritenere in sé superato, tenuto conto che – a seguito di quanto previsto dalla lett. p) del secondo comma dell’art. 117 (che riserva al legislatore statale in materia di enti locali unicamente la disciplina degli organi di governo, dei sistemi elettorali e delle loro funzioni fondamentali) – non si può più parlare di un vero e proprio ordinamento generale degli enti locali. Di conseguenza, il testo unico è destinato ad essere sostanzialmente ridimensionato, se non abrogato, in sue numerose parti e fin d’ora deve essere messo in discussione laddove contenga norme in contrasto con la riforma costituzionale (v., ad esempio, in materia di controlli): comunque va letto con la nuova lente costituzionale, con il massimo favor possibile per l’autonomia.

Da tutto ciò deriva, altresì, che aumenta correlativamente lo spazio potenziale di autoregolazione locale in tutti i campi non riservati a qualche titolo al legislatore statale (oltre a quanto previsto nella suddetta lett. p), si possono ad esempio – tra gli oggetti ora disciplinati dal t.u. n. 267 – considerare in qualche modo ancora riservati al legislatore nazionale, in virtù di altre previsioni costituzionali, i compiti regolativi attinenti al sistema statistico, nonché alla gestione finanziaria e contabile locale, laddove implichi connessioni con il coordinamento della finanza pubblica). Gli effetti di questa trasformazione di competenze normative, che è da ritenere per quanto possibile già operativa (senza quindi la possibilità di invocare norme del testo unico a supporto di tesi conservative), possono essere in certi casi (apparentemente) addirittura ‘rivoluzionari’, legittimando, ad esempio, scelte organizzative locali volte a non tener conto di tradizionali figure presenti nella struttura di comuni e province, quali i segretari (e in tal senso non mancano alcuni primi casi di enti locali che hanno deliberato di prescindere da questi organi amministrativi, così come non mancano enti locali che hanno esplicitamente adottato deliberazioni di ampio orizzonte – e per certi versi anche ridondanti e ripetitive – volte a ‘recepire’ nello statuto locale le principali novità costituzionali).

Va poi anche osservato, per cogliere appieno la portata diffusiva delle conseguenze connesse al nuovo quadro delle funzioni normative degli enti locali, che quanto finora si è considerato a proposito delle nuove competenze statutarie e regolamentari di comuni e province è da ritenere certamente applicabile anche laddove siano presenti strutture tendenzialmente stabili e permanenti che siano ‘proiezioni’ degli enti territoriali locali costituzionalmente previsti: in altre parole, ciò significa che i poteri normativi, sia statutari che regolamentari, di cui si è parlato, riguardano anche le figure associative di enti locali, soprattutto dei comuni, quali le unioni di comuni e le comunità montane.

Tanto premesso, per tentare di puntualizzare ulteriormente l’ambito proprio ed i contenuti precipui degli statuti – ed in conseguenza dei regolamenti – di comuni e province, si può delineare una sorta di elenco di elementi che dovrebbero caratterizzare l’esercizio della potestà statutaria, al di là di quanto ora è previsto nell’art. 6 del testo unico del 2000, in cui viene indicata una serie (invero eterogenea) di oggetti, frutto tra l’altro di una collazione non del tutto felice di testi normativi precedenti. In effetti, lo statuto dovrebbe in futuro costituire la sede principale per delineare, in via stabile e tendenzialmente una tantum, anzitutto i dati relativi alla identità di ciascun ente autonomo, nei suoi aspetti storici, nel rapporto con il territorio e con gli interessi localizzabili. Inoltre, dovrebbero rientrare nello statuto le scelte che, entro certi limiti, possono concorrere a definire la ‘forma di governo’ di ciascun ente, al di là di quanto previsto in via generale dalla disciplina statale uniforme sugli organi di governo: a tal fine possono rilevare, ad esempio, le scelte organizzative e di funzionamento relative al decentramento, al difensore civico, alla distribuzione delle funzioni tra gli organi, nonché al rapporto (e alla distinzione) tra responsabilità politiche e responsabilità gestionali. Inoltre, sono da considerare essenziali le scelte statutarie relative alle forme di autocontrollo, anche sostitutivo, che debbono d’ora in poi caratterizzare sostanzialmente il funzionamento e le garanzie interne agli enti locali, anche a favore delle minoranze, venute meno le forme di controllo esterno a vario titolo incompatibili con il principio di autonomia. Infine, due ulteriori capitoli dovrebbero essere parte costitutiva degli statuti, da un lato quello relativo alla disciplina dei rapporti con i cittadini, dall’altro quello riguardante le relazioni istituzionali con altri enti locali, che assume particolare rilievo soprattutto nel caso dei piccoli comuni.

5. Quali garanzie di effettività del nuovo assetto

Da quanto si è potuto fin qui considerare, sia pure in modo assai sommario, scaturisce uno scenario in larga misura del tutto nuovo sia per la maggiore ampiezza sul piano quantitativo delle funzioni normative locali sia in ordine alla ‘qualità’ e al valore da attribuire alle fonti espressive dell’autonomia statutaria e regolamentare di comuni e province: e va sottolineato che si tratta di uno scenario destinato a valere per tutti gli enti locali della Repubblica, anche se ricompresi in Regioni speciali (i cui poteri di ordinamento degli enti locali debbono fare ovviamente i conti con il nuovo quadro costituzionale). Sottacendo una serie di questioni che pure sarebbe necessario o opportuno approfondire per cercare di completare questa prima ricostruzione del nuovo quadro costituzionale dei poteri normativi locali, ci si limita a segnalare di seguito alcune questioni che assumono, a vario titolo, un rilievo peculiare, con riserva di ulteriori analisi e prospettazioni.

In primo luogo, sembra assumere una luce del tutto nuova la questione relativa all’iter formativo delle fonti normative locali, anzitutto degli statuti: non tanto per quanto riguarda la disciplina delle deliberazioni statutarie (per la quale può ritenersi, almeno transitoriamente, vigente quella prevista dal t.u. n. 267), né per quanto riguarda forme di controllo alternative a quelle a suo tempo previste ex art. 130 Cost., ora abrogate, bensì soprattutto per quanto riguarda la possibilità di assicurare agli enti locali forme adeguate di supporto tecnico-giuridico ai fini dell’esercizio del proprio potere normativo (a tal fine può essere fors’anche approfondita la prospettiva di un ruolo di supporto, almeno per gli aspetti di maggior rilievo, da parte degli ‘organi ausiliari della Repubblica’, che oltretutto in futuro vedranno consistentemente ridimensionato il loro ruolo di consulenza per le fonti regolamentari statali).

Vi è anche da mettere a fuoco un problema nuovo di ‘cognizione’ delle fonti locali, considerato, da un lato, che tali fonti sono destinate ad aumentare di molto sul piano quantitativo e che, d’altro canto, sono verosimilmente destinate a pesare assai di più di quanto finora sia avvenuto per quanto riguarda gli effetti giuridici delle norme prodotte in sede statutaria o regolamentare. A tal fine non è probabilmente fuori luogo porsi fin d’ora la domanda di quali strumenti di cognizione debba disporre in futuro il nostro sistema per consentire non solo al cittadino di un dato comune e di una data provincia di conoscere le fonti normative che lo possono riguardare, ma anche ad un cittadino qualsiasi (e a maggior ragione ad un organo istituzionale) della Repubblica di poter accedere alle fonti normative di una determinata istituzione locale.

Infine, va almeno segnalato un problema che sicuramente in futuro può assumere un rilievo concreto e per molti versi determinante per la effettività delle garanzie di autonomia delineate dalla riforma costituzionale: ci si riferisce alla necessità di assicurare agli enti locali la possibilità di accesso, non solo a sedi giurisdizionali ordinarie (come già ora è possibile), ma soprattutto alla Corte Costituzionale per veder salvaguardata la propria autonomia normativa rispetto a una eventuale invasione di campo operata dal legislatore statale o regionale. Su questo piano la recente riforma non offre alcun appiglio, essendosi limitata a modificare le norme del Titolo V e non quelle relative alle garanzie costituzionali: ma si tratta di una lacuna oggettivamente rilevante, che va affrontata al più presto con un appropriato intervento del legislatore costituzionale (a prescindere da qualche forse possibile soluzione indiretta, che in via transitoria può essere immaginata in sede di legislazione ordinaria).

Prima di concludere, tre brevi notazioni. La prima per ribadire quanto già si è in precedenza adombrato, ossia che a seguito della riforma costituzionale è necessario por mano quanto prima ad una profonda revisione del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, non solo per quanto riguarda le norme che disciplinano l’esercizio del potere statutario e regolamentare locale, ma anche per la necessità di circoscrivere la disciplina statale alle sole materie ora riservate al legislatore nazionale in materia di enti locali (siffatta revisione potrebbe conseguire alla chiarificazione delle funzioni fondamentali degli enti locali, ex lett. p) dell’art. 117, che appare certamente urgente anche per poter procedere all’attuazione di quanto previsto dall’art. 118 in ordine alla riallocazione delle funzioni amministrative di tutto il sistema).

La seconda per sottolineare l’importanza del metodo concertativo nella definizione dei meccanismi di attuazione e di implementazione della riforma costituzionale: in effetti, la portata così ampia del nuovo quadro e gli effetti profondi di trasformazione delle competenze istituzionali richiedono che si proceda il più possibile attraverso strade che evitino conflitti paralizzanti e realizzino intese proficue e condivisioni nelle scelte da operare per rendere effettivo il nuovo disegno. A tal fine vanno certamente sperimentate al più presto almeno le due strade concertative che sono previste dal nuovo quadro del Titolo V, l’una a livello nazionale, attraverso l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle autonomie territoriali, l’altra a livello regionale, attraverso la costituzione del Consiglio delle autonomie locali, che dovrebbe assicurare il raccordo sistematico tra regioni ed enti locali nelle decisioni attuative della riforma.

La terza per prospettare la (crescente) responsabilità degli amministratori locali, che sono destinati sempre più ad essere protagonisti di una autonomia ‘praticata’ e non solo ‘rivendicata’: ciò che richiede un particolare impegno anzitutto nella messa a punto di scelte statutarie e regolamentari che debbono guidare la vita di ciascun ente locale. Di qui, ovviamente, la necessità di evitare la strada degli ‘statuti tipo’ e di sviluppare una effettiva cultura dell’autonomia (ossia della responsabilità), e non della dipendenza (ossia della irresponsabilità).

di Gian Candido De Martin