Il libro di Mancino è costruito molto bene ed è indubbiamente convincente in molti dei suoi contenuti. Il volume, con la prefazione di Michele Scudiero, contiene la raccolta degli interventi parlamentari dell’Autore sulla riforma costituzionale approvata dalla maggioranza di centro-destra nella XIV legislatura (sulla quale pende ora il referendum confermativo) e sulla nuova legge elettorale (che ha trovato la sua prima applicazione nelle elezioni del 9 e 10 aprile scorsi).
Le riflessioni dell’Autore, nell’ampio dibattito parlamentare, sono mosse dalla preoccupazione per il pericolo di una “lacerazione” della nostra Costituzione che, a sessant’anni di distanza dai lavori dell’Assemblea Costituente, pure necessita di un adeguamento, sulla base dell’esperienza maturata e delle esigenze di una società ormai trasformata. Ciò che però sicuramente si vorrebbe scongiurare è un autentico stravolgimento dell’impianto della forma di governo voluto dai Costituenti, che ha posto il Parlamento al centro del nostro sistema. Il tutto sullo sfondo di una pregiudiziale questione di metodo. Mancino pone al lettore (oltre che a se stesso) un interrogativo: può ritenersi valido il ricorso all’articolo 138 della Costituzione per modificare ben cinquantaquattro articoli della Costituzione?
L’indebolimento della rappresentanza è il motivo ispiratore delle preoccupazioni espresse da Mancino con i propri interventi nella Commissione Affari costituzionali e nell’Assemblea di Palazzo Madama, peraltro riproposte dallo stesso Autore in una prolusione all’Università di Brescia, ricompresa nel capitolo primo della raccolta. In questo stesso capitolo, Mancino, dall’alto della sua esperienza politica, ricorda il difficile cammino delle riforme, fin dagli anni Settanta, quando i due maggiori partiti, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista non trovarono un punto d’accordo, mentre il Partito socialista di Craxi cominciava ad avanzare la questione della riforma della Costituzione. Dopo l’esperienza non molto felice della Commissione Bozzi, di cui lo stesso Mancino fu componente e Vicepresidente, sono stati fatti dei seri tentativi di revisione costituzionale, prima con la Commissione Bicamerale De Mita-Jotti (istituita con la legge costituzionale n. 1 del 1993) e poi con quella D’Alema (istituita con la legge costituzionale n. 1 del 1997) che, tuttavia, per la mancanza di un accordo tra le forze politiche, non sono giunti a compimento. Si è soltanto riusciti ad introdurre, con il procedimento ordinario di revisione previsto dall’articolo 138, le modifiche della potestà statutaria e della forma di governo regionale (legge costituzionale n. 1 del 1999), la riforma del giusto processo (art. 111 della Costituzione, modificato con l. cost. n. 2 del 1999), fino alla modifica dell’intero Titolo V della Parte II della Costituzione, approvata dal Parlamento alla fine della XIII legislatura, sottoposta a referendum confermativo ed entrata in vigore con la legge costituzionale n. 3 del 2001. Una riforma, quest’ultima, sulla quale Mancino, peraltro, ha espresso sempre forti riserve (anche per il metodo con cui è stata approvata) e per la quale ritiene necessario un intervento correttivo.
L’A. ricorda che all’inizio della XIV legislatura fu presentato il progetto di legge costituzionale sulla c.d. devoluzione “bossiana”, volta ad inserire nel nuovo articolo 117 della Costituzione un quarto comma che, nelle materie della scuola, della sanità e della polizia locale, devolveva la competenza esclusiva alle regioni (A.S. 1187/XIV legislatura). Questo progetto è stato superato e inglobato dalla bozza dei quattro saggi di Lorenzago che, presentato come disegno di legge costituzionale al Senato nell’autunno del 2003, ha caratterizzato il calendario dei lavori e l’ordine del giorno parlamentari per due anni fino all’approvazione, a maggioranza assoluta, di un testo che stravolge l’impianto costituzionale del 1947.
Il secondo capitolo del libro di Mancino contiene i principali interventi, anche in sede di dichiarazione di voto, con cui l’A. spiega le ragioni che, a vario titolo, lo fanno essere fermamente contrario alla riforma.
Rilevante è, tra gli altri, l’intervento svolto il 28 gennaio 2004 in sede di discussione generale nell’Assemblea di Palazzo Madama, sul testo approvato in sede referente dalla Commissione Affari costituzionali. Qui Mancino, attraverso una sintetica ed efficace ricostruzione storica delle vicende politiche del nostro Paese degli ultimi cinquant’anni, con un’attenzione particolare agli effetti del sistema elettorale prevalentemente maggioritario introdotto nel 1993, difende la centralità dell’istituzione parlamentare, anche mediante qualche richiamo di diritto costituzionale comparato, contro la proposta del centro-destra di elezione “surrettiziamente diretta” del Presidente del Consiglio.
Infatti, fin dal primo testo del disegno di legge presentato dal Governo Berlusconi al Senato (approvato con qualche modifica dalla Commissione affari costituzionali) è stato concepito un impianto di sistema con il Primo ministro nominato dal Presidente della Repubblica “in base ai risultati elettorali della Camera”. Il candidato premier “è collegato” ai candidati alla Camera e viene in questo modo indirettamente designato dagli elettori insieme alla sua maggioranza. Il Primo Ministro può nominare e revocare i ministri e può chiedere lo scioglimento della Camera; il relativo decreto presidenziale è adottato su richiesta del Primo Ministro stesso che ne assume la relativa responsabilità. Non è così invece per il Senato federale il quale non è più collegato al Capo del Governo dal rapporto di fiducia.
In questo quadro Mancino riconosce che la soluzione individuata può somigliare a quella proposta dall’Ulivo alla Bicamerale D’Alema. Tuttavia nella proposta del centro-destra vi è la mancanza assoluta di contrappesi. L’A. critica soprattutto che in caso di sconfitta parlamentare su una proposta di priorità del Governo o su una mozione di sfiducia vi sia lo scioglimento automatico. Infatti non è previsto più, come nella Costituzione vigente, il rapporto fiduciario tra le Camere e il Governo; è previsto invece che il Primo Ministro illustri il programma di legislatura e la composizione del governo: il programma è sottoposto al voto della sola Camera dei deputati.
Mancino poi si dice fermamente contrario all’irrigidimento del rapporto maggioranza-Primo Ministro, per cui in caso di sfiducia e, su proposta del Premier, vi sarebbe lo scioglimento a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato; in sostanza si può formare un nuovo governo se il 50%+1 dei deputati della maggioranza uscita dalle elezioni lo appoggia. Secondo l’A. ciò va a danno della stabilità perché maggioranza autosufficiente significa che qualsiasi partito che sia determinante per la maggioranza può costantemente minacciare non solo la caduta del Governo, ma anche quella della legislatura.
L’ampio potere di scioglimento del Primo Ministro trova corrispondenza in un impianto che già in sede elettorale, con le indicazioni sulla scheda del nome del candidato alla carica e il collegamento con le candidature nei collegi “tende a risolvere la vita democratica in una democrazia di mera investitura”(Elia).
Mancino esprime forti perplessità anche sulla riduzione dei poteri del Capo dello Stato che, sulla base del testo approvato dalle Camere nel corso della doppia deliberazione, non è più organo di garanzia costituzionale. Osserva Mancino, infatti, che diviene difficile per il Presidente della Repubblica “garantire” se il potere è monopolizzato dal Premier.
Contro la devolution di Bossi, l’A. sostiene che il nuovo quarto comma dell’articolo 117 della Costituzione, ove definitivamente approvato, accrescerebbe i lati oscuri della prima riforma del Titolo V (2001). Infatti notevoli sarebbero i problemi per la coesistenza della competenza esclusiva regionale in materia di “assistenza e organizzazione sanitaria” e la competenza esclusiva dello Stato nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali nonché quella concorrente (statale-regionale) in materia di “tutela della salute”. Parimenti problematico sarebbe il campo dell’istruzione: le competenze esclusive regionali in materia di “organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche” e di “definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di specifico interesse della Regione”.
Critica peraltro il mantenimento di alcuni difetti degli elenchi dei commi terzo e quarto dell’articolo 117, come modificato dalla riforma del 2001, dove Mancino riconosce la presenza di incongruenze che andrebbero corrette; si pensi ad esempio alla sottoposizione alla competenza concorrente di ambiti dalla connotazione nazionale come il trasporto nazionale dell’energia, le “grandi” reti di trasporto o le professioni.
Sul ritorno dell’interesse nazionale l’A. è ugualmente critico perché così come ridisegnato, l’interesse nazionale non è in grado di attrarre al centro competenze altrimenti assegnate alle regioni, quando l’insorgenza di nuove esigenze di disciplina unitaria rendesse tale centralizzazione necessaria e prevalente sulla stessa competenza esclusiva delle regioni. Può essere di aiuto, da questo punto di vista, il richiamo alla giurisprudenza costituzionale (cfr., sentenza n. 303 del 2003).
Quanto al Senato federale, Mancino vi dedica numerosi interventi. Innanzitutto, contesta l’abbassamento dell’età (a venticinque anni) come requisito per l’eleggibilità a senatore in quanto, alla luce della sua lunga esperienza, l’A. ritiene che per i difficili compiti che i senatori e, soprattutto, il Presidente del Senato (“seconda carica dello Stato”) sono chiamati a svolgere, debbono avere una qualche esperienza istituzionale e professionale.
Per altro verso, se la eliminazione del rapporto fiduciario con il governo costituisce una razionalizzazione del bicameralismo italiano, dall’altro, essa si risolve in una “deminutio” di stampo maggioritario dei poteri del Senato al punto che, sostiene l’A., di fronte al rischio di renderne incerte le competenze meglio sarebbe stato prevederne la soppressione.
Contro la nuova configurazione del Senato, Mancino contesta il testo della maggioranza di centro- destra che ne ha escluso la composizione mista (con senatori eletti, presidenti delle regioni, sindaci, altri) in senso proprio, finendo per ricomporre i gruppi solo su base politica, perdendo qualsiasi logica territoriale. In realtà la connotazione in senso federalista del Senato non si riferisce tanto alla composizione dell’organo quanto alla connessione operata tra la formazione di esso e l’elezione contestuale dei consigli regionali. Dubita quindi dell’effettivo carattere federale del Senato. E’ difficile immaginare per l’A. che le regioni e gli enti locali si sentano veramente rappresentati dal Senato costruito dalla riforma del Governo Berlusconi, dal momento che è stata scartata sia l’ipotesi di un “Bundesrat italiano” sia quella di un Senato di stampo americano (composto di un numero pari di senatori per ogni Stato membro).
D’altra parte il carattere più o meno federale del Senato ha delle conseguenze anche sulla composizione della Corte costituzionale. Trattandosi di un Senato tutt’altro che federale, Mancino paventa il rischio di un’eccessiva politicizzazione della Consulta, i cui membri sarebbero nominati per la maggior parte dal Parlamento (tre dalla Camera dei deputati e quattro dal Senato federale). Tanto più che nella situazione attuale accrescere il tasso di politicizzazione della Corte significa trasferire impropriamente il dibattito tra i due poli in seno all’organo di giustizia costituzionale.
Alla luce di queste ragioni politico-istituzionali, Mancino nei suoi ultimi interventi (novembre 2005), consapevole dell’ormai inevitabile ricorso al referendum previsto dall’articolo 138 della Costituzione, auspica che la riforma del governo di centro-destra venga bocciata dal voto popolare.
Nicola Mancino, La Costituzione lacerata, Elio Sellino editore, 2006
21.06.2006