“Buone” regole e democrazia, a cura di Margherita RAVERAIRA. Presentazione di Francesco Pizzetti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 1-250.
Il tema della better regulation è esploso, non solo in Italia, nel corso dell’ultimo decennio. Iniziative dell’OCSE e dell’Unione europea hanno portato l’attenzione tanto dei tecnici, quanto dei politici sulla necessità di adottare “buone regole” per assicurare un efficace funzionamento dell’economia di mercato e degli stessi meccanismi istituzionali. E in Italia, almeno dal 1997 in poi è stato un susseguirsi di iniziative dirette allo scopo: dall’istruttoria legislativa nelle Commissioni parlamentari al Comitato per la legislazione istituito presso la Camera dei deputati, fino alle nuove circolari sul drafting; dai testi unici “misti” ai codici di settore, fino al meccanismo “taglialeggi” o “ghigliottina”; dall’AIR (analisi di impatto della regolamentazione) all’ATN (analisi tecnico-normativa), fino alla VIR (verifica dell’impatto della regolamentazione); dal potenziamento, presso la Presidenza del Consiglio, del DAGL (Dipartimento per gli affari giuridico-legislativi) al Nucleo per la semplificazione delle norme e procedure, fino alla recente Unità per la semplificazione.
Eppure, molte di queste innovazioni sono parse non sufficientemente “meditate” nelle loro premesse teorico-normative o comunque controverse nei loro caratteri più innovativi, tant’è che alcune di esse sono state abbandonate o fin qui hanno registrato esiti decisamente fallimentari. E, soprattutto, le spinte alla “cattiva regolazione” sembrano avere prevalso la maggior parte delle volte, come testimonia, ogni anno, l’esperienza di leggi finanziarie composte da un unico articolo, costituito da centinaia di commi (il record è, almeno per il momento, quello della legge finanziaria per il 2007, contenente, come è noto, ben 1.364 commi, oltre alle relative tabelle e agli allegati), riguardanti le materie più disparate.
Il volume curato da Margherita Raveraira,“Buone” regole e democrazia (Soveria Mannelli, Rubettino, 2007), nel quale vengono pubblicati gli esiti di una ricerca di interesse nazionale svolta presso le Università di Perugia e di Firenze, aiuta a comprendere sia le ragioni che hanno determinato l’esplosione, negli ultimi anni, delle politiche di better regulation, sia – e questa è la parte sicuramente più innovativa – le cause che ne hanno fin qui comportato, almeno in Italia, un esito tutt’altro che soddisfacente.
L’approccio scelto è, correttamente, di tipo piuttosto vasto. Vi compaiono, perciò, saggi (di Margherita R. Procaccini) sul tema della c.d. accountability o (di Elda Brogi) sulle caratteristiche della regolazione nell’ambito della governance dell’Unione europea, oltre a due ampi ed interessanti contributi di Alessandra Valastro dedicati alla rassegna critica delle modalità di partecipazione dei privati alla valutazione delle politiche pubbliche e all’esame delle principali esperienze di consultazione fin qui poste in essere in Italia, a livello statale e regionale.
Si tratta di lavori estremamente utili, che hanno il pregio di chiarire una serie di ambiguità e possibili equivoci, assai frequenti nei dibattiti in tema di better regulation. Si affronta, tra gli altri, il tema della difficile traduzione, nell’ordinamento italiano, dello stesso termine regulation, in bilico tra regolazione, regolamentazione e normazione, anche alla luce della definizione estremamente ampia proposta dall’OCSE. Analogamente, nel campo minato delle forme di partecipazione dei soggetti privati, si distingue tra le forme partecipative a scopo conoscitivo (tra le quali rientrano la consultazione e l’audizione) e quelle di natura politica (tra cui spiccano la concertazione e la negoziazione): è chiaro che si tratta di una distinzione dura da tenere in concreto, in quanto l’interesse del soggetto privato è sempre il medesimo, a prescindere dalle finalità in nome delle quali il soggetto pubblico lo coinvolge, ma è innegabile che essa non dovrebbe in alcun sfuggire al potere pubblico, specie nel momento in cui questo sia chiamato a fissare le “regole del gioco” partecipativo (tra le quali devono esservene di indonee ad impedire il noto fenomeno della “cattura” del regolatore).
Di vasto respiro è la presentazione del volume, affidata a Francesco Pizzetti, presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali: in essa si fa riferimento alle tante trasformazioni alle quali i sistemi normativi vanno incontro per effetto della globalizzazione dei mercati e delle rapidissime innovazioni tecnologiche che caratterizzano l’epoca attuale, le quali determinano un’estrema frammentazione dell’attività di produzione delle regole negli ordinamenti contemporanei. Con riferimento all’ordinamento italiano, poi, Pizzetti accenna alle specifiche difficoltà che lo caratterizzano, segnalando la necessità di “guardare oltre”, superando il blocco derivante dalla compresenza di un riformismo giacobino, aggravato per effetto delle logiche di un sistema maggioritario, e di una cultura dell’eterna concertazione, che si trascina nel lungo periodo della storia nazionale.
Ampio è l’orizzonte culturale di cui dà conto Margherita Raveraira, nel saggio di apertura del volume, nel quale, anche alla luce di un attento esame della letteratura scientifica inglese e statunitense, non solo giuridica ma anche economica e politologica, si mira a mostrare come, nel mondo contemporaneo, siano i soggetti privati gli attori maggiormente interessati all’adozione di regole pubbliche “migliori”. Nel nuovo contesto della global governance lo Stato è chiamato a ridefinire la propria posizione, facendo sì, tra l’altro, che le decisioni normative ad esso imputabili derivino da processi in varia misura partecipati dai soggetti privati. In questa chiave, la tradizionale funzione legislativa appare in fase recessiva, mentre in ascesa risulta, nei Paesi sviluppati, la produzione regolativa espressione non di imposizione autoritativa, ma di tipo pattizio, mediante gli accordi normativi e le forme di autoregolamentazione. Per porre freno al declino della funzione legislativa e alla crisi della legge occorre perciò – sottolinea l’Autrice – che la funzione legislativa si fondi su un principio di partecipazione trasparente, da realizzare mediante canali ulteriori rispetto a quelli tipici della rappresentanza politica. Il tutto, però, con l’avvertenza, spesso trascurata in nome della retorica della partecipazione, che la consultazione dei soggetti privati non deve assurgere surrettiziamente a esercizio, da parte dei privati, del potere di decidere norme e regole pubbliche.
Di notevole interesse è poi il contributo di Massimo Carli, in cui si esaminano con occhio attento e critico alcune tra le politiche volte a favorire la qualità della normazione poste in essere, o comunque prospettate, in Italia nell’ultimo decennio evidenziando come, alla base delle difficoltà da esse incontrate, si riscontri anzitutto un problema di tipo culturale. Tra l’altro, l’Autore sottolinea il mancato coordinamento tra i manuali di drafting adottati a livello statale e a livello regionale; fa il punto sull’attuazione dell’AIR e della VIR, constatando come nella XIV legislatura non sia stato raggiunto nessuno degli obiettivi a suo tempo enunciati dal responsabile del DAGL; si domanda se sia fattibile la norma “taglialeggi” di cui all’art. 14 della legge di semplificazione 2005; fornisce un utile quadro delle disposizioni in materia di qualità della legislazione presenti negli statuti regionali fin qui approvati, peraltro ritenute eccessivamente generiche. Per poi soffermarsi, nella parte conclusiva del contributo, su due questioni da anni dibattute e tuttora in larga parte irrisolte, quali l’obbligo di abrogazione espressa contenuto in alcune leggi e la motivazione delle leggi: sostenendo, nel primo caso, che le clausole di abrogazione espressa siano dotate di un qualche valore giuridico nei confronti del legislatore successivo (specie se richiamate nei regolamenti parlamentari); e, nel secondo caso, l’utilità dell’obbligo di motivare le leggi, in modo da verificarne più agevolmente l’efficacia e la legittimità.
Chiude il volume un ulteriore saggio della curatrice, nel quale si stila un bilancio tutt’altro che positivo dei risultati fin qui prodotti dalle politiche per la regolazione adottate in Italia, ponendosi, appunto, in termini espliciti, la questione relativa alle cause che hanno determinato un tale stato di cose. L’Autrice rileva, infatti, che continuare a limitarsi a dire che è un problema di cultura (per quanto sia innegabilmente vero) fa correre il rischio di ricadere in una sorta di accettazione acritica dell’esistente. Inoltre, l’“attivismo riformatore” ha finito per favorire ampie sacche di mancata attuazione, rafforzando le resistenze al cambiamento, e per ingolfare ulteriormente l’ordinamento. Dopo aver evidenziato come tutte queste politiche di semplificazione e di valutazione vedano il Governo come soggetto-chiave, con una conseguente perdita di centralità del Parlamento, l’Autrice ritiene che anche la recente istituzione di un “Tavolo permanente per la semplificazione” rischi di non risultare sufficiente: perché esso sembra tendere a riprodurre le consolidate formule di negoziazione e di concertazione, anziché muoversi nella direzione di porre in essere forme di vera e propria consultazione, che facciano entrare nel gioco il cittadino, o comunque i portatori di interessi deboli. La via da percorrere dovrebbe invece essere quella di superare una logica pubblico-centrica, ricorrendo più intensamente agli strumenti della co-regolazione e dell’auto-regolazione, e procedendo allo stesso tempo con decisione ad un’ampia opera di codificazione e di riordino normativo.