Indirizzo politico e ruolo dell’amministrazione – Resoconto convegno

09.11.2004

Il 15 ottobre 2004, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Brescia, si è tenuto l’incontro di studi del gruppo San Martino incentrato su “Indirizzo politico e ruolo dell’amministrazione”.

Il primo dei relatori a prendere la parola è stato il Prof. Gianluca Gardini, professore dell’Università degli studi di Chieti-Pescara, il quale ha incentrato il suo intervento sull’indirizzo politico e la dirigenza.
Come sottolineato dal relatore, il fine perseguito dalla pubblica amministrazione, ovvero l’interesse pubblico concreto di cui essa deve garantire la soddisfazione, viene fissato espressamente dalla legge. Il processo che porta al raggiungimento di tale fine si articola essenzialmente in due fasi: la fase di indirizzo e quella di gestione. Si ha, dunque, il passaggio da una produzione normativa generale ed astratta alla creazione di regole da applicare nei casi concreti. In questa seconda fase, tuttavia –come ha notato il relatore- la legge risulta insufficiente nel predeterminare soluzioni adeguate per ciascun caso concreto. Di fronte a più soluzioni ammissibili la P.A. nel decidere utilizza il potere discrezionale. L’amministrazione, dunque, deve agire in base a quanto stabilito dalla legge, quest’ultima, tuttavia, lascia un certo margine di scelta (discrezionalità amministrativa).
Partendo dal presupposto che le scelte non possono mai essere spiegate in termini oggettivi (come mera attuazione di una norma di carattere generale) ma presentano, sempre e comunque, un carattere politico, ad avviso del relatore, si può considerare il nuovo modello di P.A., introdotto a seguito delle riforme degli anni novanta, come il frutto di un processo di decentramento del potere pubblico (avvenuto sia in senso territoriale che soggettivo). In particolare si è assistito ad un decentramento del potere discrezionale, vale a dire al passaggio di tale potere da organi legittimati politicamente ad organi che non lo sono.
Fino all’inizio degli anni novanta, come ha ricordato il Prof. Gardini, vi è stata una forte compressione della dirigenza da parte del potere politico. Solo dopo diversi tentativi (fallimentari) di cambiamento (primo fra tutti quello tentato dal d.p.r. 748/72) una svolta significativa si è avuta con la l. 142/90 che ha introdotto per la prima volta, anche se limitatamente agli enti locali, il principio di distinzione tra politica ed amministrazione.
Il modello proposto da tale legge è stato poi esteso a livello nazionale grazie al d.lgs. 29/93 ed al d.lgs. 80/98. Si è realizzato, così, il passaggio dei cd poteri discrezionali alla dirigenza, alla quale è stata attribuita la capacità di innovazione e di scelta caso per caso.
Con le riforme del decennio scorso si rompe, così, definitivamente il tradizionale modello gerarchico della politica.
Dopo l’emanazione dei decreti del 1993 e del 1998, con il venir meno di un modello unitario, nasce l’esigenza di creare un vincolo di coerenza tra l’area di indirizzo e quella di gestione; sia pur nella distinzione, dunque, si rende necessaria una continuità tra politica ed amministrazione. In effetti, come ha sottolineato il relatore, in un sistema decentrato, maggioritario e tendenzialmente bipolare come quello italiano se mancasse un vincolo tra questi due livelli l’esercizio del potere discrezionale rischierebbe di essere sproporzionato verso l’uno o l’altro versante dell’agire amministrativo.
La continuità tra politica ed amministrazione viene garantita essenzialmente da quattro elementi, ognuno dei quali da solo non sarebbe in grado di garantire l’unitarietà ed il raccordo necessario tra indirizzo e gestione:
1. gli atti di indirizzo (direttive);
2. l’attribuzione di risorse economiche ai dirigenti;
3. la responsabilità dirigenziale;
4. la fiduciarietà delle nomine.
Una notevole rilevanza, ad avviso del relatore, deve essere attribuita a quest’ultimo elemento, il quale viene valorizzato in particolare dalla temporaneità degli incarichi, introdotta dal d.lgs. 80/98. La precarietà degli incarichi rappresenta indubbiamente uno degli aspetti fondamentali del nuovo sistema amministrativo che ha spinto e spinge il legislatore a collegare il merito con la funzionalità del sistema.
Seguendo questa impostazione l’imparzialità non sarebbe preclusa; tale principio, infatti, non viene messo in discussione, a patto che, ovviamente, gli incarichi vengano attribuiti per un tempo congruo (vale a dire adeguato per consentire il raggiungimento di determinati obiettivi) e che il conferimento o la revoca dell’incarico vengano supportati da una motivazione.
Secondo il relatore il problema nasce, in questo contesto, quando la durata minima dell’incarico non viene garantita (ovvero laddove venga fissato il termine massimo ma non il termine minimo). In tal caso i rischi cui si va incontro sono due: in primo luogo, la possibilità di rinnovo dopo un incarico piuttosto breve potrebbe essere utilizzata come strumento di ricatto da parte dell’organo politico (rischio di fidelizzazione all’organo politico). In secondo luogo c’è il rischio che si instaurino automatismi nelle revoche degli incarichi. Com’è noto, alcuni incarichi di funzione dirigenziale (in particolare quelli indicati dal 3° comma dell’art. 19, del d.lgs. 165/01) cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo. In questi casi si potrebbe incorrere nel rischio rappresentato dal venir meno dell’obbligo di motivazione.
Al di là delle possibili problematiche precedentemente descritte, il relatore ha riconosciuto e ribadito l’importanza e la valenza del nuovo modello di P.A., basato sulla distinzione tra politica ed amministrazione, il quale ha trovato un solido equilibrio soprattutto grazie all’introduzione della temporaneità degli incarichi.
Tuttavia, la riforma introdotta nel corso degli anni novanta, presumibilmente potrebbe non essere l’ultima, in considerazione del percorso intrapreso nel nostro paese verso l’assestamento definitivo del sistema bipolare.

Ha quindi preso la parola il prof. Marcello Clarich, dell’Università Luiss “Guido Carli” di Roma, con un intervento sulle Autorità Amministrative Indipendenti (A.A.I.). Come ricordato dal relatore la figura delle A.A.I. è subentrata nel nostro ordinamento giuridico a partire dall’inizio degli anni Novanta, anche se, già nella esperienza passata, erano riscontrabili amministrazioni dotate di un forte tasso di indipendenza (la Banca d’Italia, la Consob e l’ISVAP).
Il modello delle A.A.I. ha raggiunto il suo apice nella seconda metà del decennio scorso tanto che proprio in questo periodo la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (istituita nel 1997), compresa la centralità acquisita da tale modello, ha proposto l’inserimento nella Costituzione di alcune disposizioni specifiche in materia. Dopo un primo periodo di entusiasmo, tuttavia, il modello delle A.A.I. è andato incontro ad un processo di declino da un punto di vista istituzionale. Questo per diverse ragioni, prima tra tutte il tentativo di recupero di spazi ed importanza, dopo il periodo di profonda crisi attraversato nel corso degli anni novanta, da parte della classe politica.
Si sta verificando oggi, come segnalato dal relatore, un progressivo riassorbimento delle competenze delle A.A.I., ora ripristinate in capo ai ministeri competenti. Un esempio di questo fenomeno è rappresentato dal caso dell’Autorità per l’energia elettrica ed il gas le cui funzioni sono state fortemente limitate a seguito dell’emanazione del decreto Bersani (d.lg. 79/1999) che ha attribuito al Ministero per le Attività produttive numerose competenze in materia.
Di particolare rilievo in questo contesto, ad avviso del relatore, è la cosiddetta Legge Marzano (l.n. 239/2004 recante il “Riordino del settore energetico, nonché la delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia”) contenente disposizioni che possono incidere notevolmente sull’indipendenza dell’Autorità. Ad essa, infatti, vengono attribuite prevalentemente funzioni consultive, con possibilità per il Ministro per le attività produttive di esercitare un potere sostitutivo in caso di mancata adozione da parte dell’Autorità dei provvedimenti attribuiti alla sua competenza.
Il Prof. Clarich si è poi soffermato sulla caratteristica principale delle A.A.I., ovvero l’indipendenza, e sulla posizione occupata da queste ultime in quello che egli ha definito come “spazio regolatorio”.
Il tratto più rilevante delle A.A.I. è costituito dalla loro indipendenza dal Governo, esse infatti agiscono secondo moduli organizzativi e funzionali del tutto svincolati da qualsiasi relazione con i ministeri responsabili delle politiche di settore.
La distinzione e la ripartizione tra funzioni attribuite alle A.A.I. e quelle di spettanza del Governo, tuttavia, hanno creato non pochi problemi e discussioni. Tale distinzione, piuttosto chiara in astratto, non sembra, ad avviso del relatore, funzionare efficacemente in concreto. Ad esempio, in linea teorica, può essere proposta una distinzione tra politiche redistributive del reddito (ovvero decisioni che hanno l’effetto di spostare la ricchezza da una categoria di soggetti ad un’altra) e politiche non redistributive del reddito. Le prime, avendo valenza sostanzialmente politica, dovrebbero essere attribuite al Governo le seconde, invece, dovrebbero essere affidate ad organi non legati all’indirizzo politico-amministrativo.
Il problema sorge, ad avviso del relatore, perché la distinzione tra decisioni politiche e decisioni tecniche spesso non risulta essere chiara nella pratica; e questo stato dei fatti spesso genera problemi e tensioni di non facile soluzione.
Diversamente da quanto accade nei confronti del Governo, le A.A.I. risultano essere collegate per molti aspetti con il Parlamento. Sono le Camere, ad esempio, a definire l’organizzazione e le funzioni delle Autorità mediante la legge istitutiva e spesso esse intervengono anche in relazione alla nomina dei membri delle Autorità. Tali collegamenti naturalmente non compromettono l’indipendenza delle Autorità, che, tra l’altro, trova spesso un ulteriore rafforzamento nella normativa comunitaria (basti pensare all’indipendenza prevista dal diritto comunitario in favore delle banche centrali, tra cui rientra anche la Banca d’Italia).
Secondo il relatore, inoltre, l’indipendenza è un valore che riguarda non solo il versante politico ma anche quello delle imprese. Ovvero, risulta essere di fondamentale importanza garantire l’indipendenza delle Autorità non solo nei confronti degli organi politici ma anche verso i soggetti da esse regolati (imprese).
Una delle funzioni attribuite alle A.A.I. riguarda, in particolare, la risoluzione di conflitti tra le imprese. In questi casi le Autorità si trovano ad operare in una posizione non molto diversa da quella di un giudice (quanto a profili come, ad esempio, quello dell’imparzialità). Questo ruolo di tipo “paragiurisdizionale” svolto dalle A.A.I., potrebbe, ad avviso del relatore, alterare il rapporto intercorrente tra P.A. e potere giudiziario o, comunque, creare delle tensioni difficilmente risolvibili, che tuttavia potrebbero essere evitate con un’azione di coordinamento e collaborazione tra Autorità e giudici nell’intento comune di garantire la risoluzione dei conflitti tra imprese.
In conclusione il relatore ha ribadito nuovamente come attualmente si possa registrare un certo reflusso del modello delle A.A.I., il quale, tuttavia, non potrà mai essere, a suo avviso, un reflusso totale. Si assiste oggi ad un ripensamento del modello generale ma non sembra realistica l’ipotesi di una integrale regressione di tale modello. Se si ritiene che vi possa essere uno spazio di autorità pubblica non coperto dalla politica, come ha sottolineato in conclusione il relatore, si può pensare che tale spazio regolatore possa essere riempito ancora, anche solo in parte, dalle A.A.I.

Al termine delle due relazioni numerose sono state le comunicazioni che hanno animato il successivo dibattito. Tra queste ricordiamo, in particolare, quelle che hanno direttamente richiamato le argomentazioni dei relatori.

Merloni è intervenuto criticando l’approccio, a suo avviso, minimalista del Prof. Gardini e suggerendo ulteriori spunti di riflessione in relazione al ruolo della dirigenza pubblica. Il modello italiano basato sulla distinzione tra politica ed amministrazione è unico in Europa. Negli altri paesi dell’Unione, infatti, prevale il principio rigido della gerarchia.
La separazione tra indirizzo e gestione ha rappresentato la soluzione più adeguata per il nostro sistema amministrativo, essa tuttavia presenta delle difficoltà evidenti. In primo luogo il prof. Merloni ha segnalato una forte resistenza della politica a fronte di tale separazione, tanto a livello locale e regionale che nazionale. Una resistenza che attualmente si sta trasformando in una netta ripresa della politica, vale a dire nel tentativo di quest’ultima di recuperare spazi di gestione sempre maggiori.
In secondo luogo è stata messa in evidenza la mancanza nel nostro paese, a differenza di altri paesi europei come la Francia e la Germania, di una dirigenza adeguatamente “professionalizzata” e capace di fare corpo.
Di fronte a tali difficoltà spesso viene proposto di tornare al modello gerarchico tradizionale abolendo nuovamente il principio di distinzione tra politica ed amministrazione. Nel controbattere, il prof. Gardini si è detto concorde nell’inquadrare la fiduciarietà degli incarichi come elemento fondamentale di equilibrio del nuovo modello dirigenziale. Il prof. Merloni, sostanzialmente d’accordo con questa visione, sottolinea tuttavia come il problema non sia “fiduciarietà” si o “fiduciarietà” no ma, semmai, che è necessario distinguere tra un’area esplicitamente fiduciaria ed una professionalmente autonoma; solo in questo modo, infatti, il raccordo tra indirizzo politico e gestione sarebbe pienamente garantito.
In conclusione il giurista perugino si è soffermato sulla necessità di costruire una classe dirigente dotata di maggiore autonomia. In particolare, l’area della dirigenza professionale andrebbe garantita di più non solo fissando una durata minima degli incarichi, come segnalato dal prof. Gardini, ma anche in relazione alla durata massima che dovrebbe andare oltre la durata della legislatura (per evitare l’influenza da parte degli organi politici). Più in generale bisognerebbe lavorare sulla creazione di uno status complessivo del dirigente, fino ad oggi praticamente inesistente nel nostro paese.

La parola è passata poi alla Prof. ssa Giovanna De Minico, la quale è intervenuta proponendo ulteriori spunti di riflessione sulla tematica delle Autorità indipendenti affrontata dal prof. Clarich.
Di fronte al cambiamento della forma di governo presente in Italia sorge la necessità di spostarsi verso nuovi versanti e di considerare nuovi aspetti in materia. Qualora si giungesse all’instaurazione di una forma di governo in cui l’Esecutivo (o, meglio, il suo leader) sia predominante, infatti, la funzione delle Autorità Indipendenti diverrebbe centrale e di fondamentale importanza. Tali organismi costituirebbero l’elemento rafforzativo del sistema del check and balance, rappresentando il contrappeso principale al potere dell’esecutivo. Tutto ciò grazie alla funzione regolatoria attribuita a tali Autorità, le quali forniscono una prestazione di garanzia, vale a dire dettano regole di equilibrio tra interessi, le quali non sono dipendenti dalla maggioranza ma obbedienti alle logiche di settore.
Proprio per questa loro caratteristica, secondo la docente dell’Università di Napoli, le Autorità indipendenti potrebbero svolgere una funzione di contropotere di un asse che potrebbe, in un futuro, divenire molto forte: l’asse maggioranza politica- Governo.
Naturalmente perché tale funzione possa essere svolta realmente ed efficacemente è necessario che le A.A.I. siano indipendenti dal Governo.
In conclusione, la Prof.ssa De Minico ha messo in evidenza come il disegno di legge di revisione costituzionale, attualmente in discussione in Parlamento, non faccia alcun riferimento allo statuto ed alle funzioni delle A.A.I. Tale omissione, a suo avviso, consentirà al legislatore di continuare ad assegnare funzioni di regolazione a tali Autorità, con le quali queste ultime continueranno a sottrarre quote di decisioni politiche agli organi competenti.

Ha quindi preso la parola il dott. Marco Piredda, dirigente presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il quale si è soffermato sulla tematica della dirigenza criticando l’eccessiva attenzione dedicata ai problemi connessi all’indirizzo politico ed alla dirigenza apicale che spesso porta a trascurare altri aspetti altrettanto rilevanti. Secondo Marco Piredda è necessario cercare di comprendere cosa sta cambiando dopo la separazione dei ruoli dirigenziali. Per far questo, a suo avviso, sarebbe particolarmente utile affrontare le problematiche in un contesto di diretta applicazione della normativa oltre che disquisendo in maniera accademica, ad esempio, affrontando il tema della scarsità delle risorse a disposizione dei dirigenti per conseguire i propri obiettivi.
Il circuito costituito da indirizzo, direttive, risorse e gestione molto spesso non funziona come dovrebbe nella realtà. In molte amministrazioni si registrano delle notevoli difficoltà nei tempi della politica e della gestione, basti pensare che spesso le direttive, invece di essere elaborate a fine anno (in concomitanza con il bilancio) vengono approvate ed emanate in primavera rendendo difficoltosa la successiva fase della gestione. Fase quest’ultima che viene spesso compromessa da tagli alle spese che vanno ad incidere sulle risorse necessarie per la concreta attuazione dell’indirizzo politico.
In conclusione il dott. Piredda si è soffermato sulla tematica degli incarichi. A suo avviso sebbene ci sia una razionalità nella distinzione tra ruolo fiduciario e ruolo tecnico, tuttavia, egli ritiene necessaria, al fine di rendere il sistema realmente efficace, l’introduzione di altri elementi di fondamentale importanza come ad esempio la trasparenza delle nomine di fronte alle commissioni parlamentari.

È intervenuto successivamente il prof. Gianfranco D’Alessio il quale ha espresso un giudizio positivo sugli interventi del prof. Gardini e del prof. Merloni, a suo avviso complementari, ed ha proposto ulteriori spunti per un maggior approfondimento della tematica.
A differenza degli altri paesi europei dove è presente una confusione funzionale tra politica ed amministrazione e conseguentemente una compressione della dirigenza da parte del potere politico, in Italia la separazione funzionale tra indirizzo e gestione, introdotta negli anni novanta, risulta essere sempre più evidente. A fronte di questo vi è un sistema con un tasso di fiduciarietà piuttosto ridotto. Il problema in questo contesto non è, ad avviso del prof. D’Alessio, se prevedere o meno la fiduciarietà delle nomine ma piuttosto come ed in che termini.
Nel nostro sistema, per come strutturato, la fiduciarietà è un elemento inevitabile ma è necessario garantirne la funzionalità. In primo luogo è necessario domandarsi per quali figure dirigenziali dovrebbe essere prevista la fiduciarietà. In secondo luogo, anche per tali figure, uno dei problemi più rilevanti riguarda la trasparenza delle procedure di nomina. Ad avviso del professore romano rientrano in questo contesto diversi aspetti rilevanti da tenere in considerazione, quali la necessità di rendere trasparenti le nomine di fronte alle commissioni parlamentari (come già sottolineato da Piredda), la pubblicità preventiva (al fine di evitare automatismi) e la trasparenza delle procedure di recesso. A tal proposito egli ha ricordato come fino ad oggi il meccanismo di valutazione della dirigenza abbia funzionato assai poco a causa di una pluralità di ragioni tra cui la mancata volontà politica e lo scarso interesse dimostrato dalla dirigenza, spesso diffidente verso forme ispettive che riguardano da vicino il suo operato.
L’intervento si è poi incentrato su altre problematiche connesse alla tematica della dirigenza. La prima riguarda la scarsa attenzione riservata alla dirigenza non statale: si parla sempre della dirigenza dello Stato tralasciando quella locale, sanitaria, scolastica etc. spesso sottoposta a vincoli molto forti da parte del vertice politico (in quanto si tratta di amministrazioni non disaggregate ma compatte).
Un secondo problema riguarda la tendenza ad un aumento progressivo degli incarichi dirigenziali attribuiti a soggetti esterni all’amministrazione, dove si ripresenta con forza la necessità della trasparenza delle procedure.
L’ultimo punto affrontato dal prof. D’Alessio riguarda il reclutamento. A tal proposito egli si dice favorevole all’idea del ruolo unico (anche se non condivide le modalità con le quali è stata applicata nella pratica) connessa con la rotazione e la temporaneità degli incarichi. A suo avviso, infatti, questi tre elementi costituiscono tre aspetti fondamentali di un sistema che favorisce la mobilità e la crescita professionale dei dirigenti e, dunque, la creazione di una dirigenza con una identità forte.

La parola è passata poi alla prof.ssa Alessandra Pioggia la quale sulla base dei risultati di due ricerche da lei condotte (ovvero la raccolta e la classificazione di duemila atti amministrativi e l’analisi dell’effettività delle riforme) ha proposto un diverso spunto di riflessione sulla tematica della distinzione tra politica ed amministrazione.
A suo avviso è necessario, anzitutto, distinguere indirizzo e gestione nei due campi tradizionali dell’attività e dell’organizzazione. Questi due ambiti presentano un elemento comune: in entrambi i casi si ha la definizione dell’indirizzo generale e successivamente le singole decisioni gestionali (atti puntuali della P.A. nel primo caso, atti del privato datore di lavoro nel secondo).
Nonostante tale elemento in comune numerose sono le differenze che sono state riscontrate dalla relatrice tra i due campi in questione.
In primo luogo, nell’ambito dell’attività, il percorso che va dall’indirizzo politico alla gestione è regolato dal diritto pubblico. In questo caso la distinzione tra politica ed amministrazione costituisce la regola giuridica di un percorso decisionale pubblico, basato sul principio di imparzialità. Un percorso articolato in due momenti: indirizzo e gestione.
Nel campo dell’organizzazione il percorso si articola ugualmente in due fasi ma manca l’unicità del potere. In questo caso le due fasi non rappresentano due momenti dello stesso momento decisionale; il primo momento non costituisce una scelta generale da attuare durante il secondo ma stabilisce un limite per quest’ultimo.
Il profilo organizzativo della gestione, dunque, non si muove nella sfera della discrezionalità, come nel campo dell’attività, ma dell’autonomia.
Nel campo dell’organizzazione, quindi, non vi è un processo decisionale come avviene nell’attività, dove si cerca di realizzare la composizione di interessi diversi, ma c’è la ricerca della soluzione adeguata al caso concreto (dunque una decisione elastica e non rigida come nel primo caso).

Federica Ialongo