La flessibilità del lavoro nell’esperienza di quattro Paesi della UE – Resoconto convegno

14.12.2004

Roma, 26 novembre 2004

Luiss Guido Carli

Il 26 novembre si è tenuto, presso la LUISS Guido Carli, il seminario sul tema “La flessibilità del lavoro nell’esperienza di quattro Paesi della UE”, promosso in occasione della presentazione del volume “Il “nuovo” del mercato del lavoro. Analisi comparativa tra Italia, Francia, Germania e Spagna” a cura di A. Cocozza, F. Liso, F. Neri ed A Tursilli.

Il programma si è articolato, con la coordinazione dei lavori di M. Mascini (Il Sole 24 Ore), dopo le introduzioni di R. Morese (Segretario Generale Associazione Nuovi Lavori) e di M. Foschini (Vice rettore della LUISS Guido Carli), in tre sezioni:
– la prima relativa all’analisi degli aspetti economici, dove sono intervenuti: F. Neri (Ordinario di Economia del lavoro, Facoltà di Economia, Luiss Guido Carli. Direttore del Centro per lo Studio delle Relazioni Industriali (CESRI), A. Cocozza (Associato di Sociologia dei processi economici e del lavoro, Facoltà di Scienze Sociali dell’Università degli studi “G. d’Annunzio” di Chieti, Docente di Comunicazione d’Impresa, Facoltà di Scienze Politiche, Luiss Guido Carli), C. Dell’Aringa (Ordinario di Economia Politica, Università Cattolica di Milano);
– la seconda relativa agli aspetti giuridici, dove sono intervenuti: F. Liso (Ordinario di Diritto del Lavoro, Università La Sapienza di Roma), R. Pessi (Ordinario di Diritto del Lavoro, Facoltà di Giurisprudenza, Luiss Guido Carli), G. Santoro Passarelli (Ordinario di Diritto del Lavoro, Università “La Sapienza” di Roma, Docente di Diritto del Lavoro, Facoltà di Giurisprudenza, Luiss Guido Carli);
– la terza relativa al dibattito, dove sono intervenuti: P. Garonna (Direttore Centro Studi Confindustria), P. Carraro (Operatore Confederale CISL), R. Brunetta (Deputato al Parlamento Europeo).

Gli aspetti economici:

Prof. Neri: La ricerca è stata realizzata in una logica interdisciplinare, che ha preso in considerazione gli aspetti economici, quelli giuridici e quelli sociologici, ormai assolutamente necessaria per poter comprendere la complessità del fenomeno. Un approccio che il CESRI intende perseguire costantemente nelle sue future iniziative di studio e di ricerca. La ricerca sulla flessibilità ha avuto come oggetto l’analisi del fenomeno dei lavori atipici, che ha caratterizzato il mondo del lavoro italiano ed europeo, con particolare riferimento all’esperienza, oltre che dell’Italia, della Francia e della Germania, che ci hanno preceduto in questa esperienza e della Spagna, che sebbene sia più indietro rispetto al nostro Paese, ha avuto in breve tempo rapide trasformazioni del mercato del lavoro.
Il sistema italiano presenta, rispetto alla media europea, tassi inferiori di occupazione femminile (13%), nel terziario (5%) e di lavoro a tempo pieno non a full time (13%), mentre elevato si presenta il quadro percentuale del lavoro autonomo, che è del 25% rispetto al 15% della media europea e che introduce una flessibilità molto ampia.
Si presenta in ombra l’analisi degli effetti delle variazioni del rapporto di lavoro sugli aspetti macroeconomici, dove si riscontrano (da parte dei lavoratori) variazioni sui consumi di beni durevoli, sulla propensione al risparmio, nonché, da parte delle aziende, una difficoltà di gestire il dialogo con interlocutori differenziati.
Si sottolinea l’importanza di una azione coordinata e di un interscambio tra economisti, giuristi e sociologi, anche al fine di capire come le scelte fatte dagli uni si riflettano sugli aspetti diversi di un medesimo fenomeno.

Prof. Cocozza: Gli aspetti sociologici della problematica, rivelano l’affiorare di nuove dinamiche dei mercati del lavoro non standard dovute sostanzialmente a quattro variabili: il grado di opportunità del mercato del lavoro locale, il livello di istruzione e formazione del lavoratore, il grado di occupabilità del lavoratore e la capacità dello stesso di adattarsi rispetto alle nuove prospettive dello scenario lavorativo. Dalla combinazione di queste variabili sono emerse due tipologie di lavoratori, coloro che vedono il lavoro non standard come una “fase di transizione”, quale momento d’esperienza da rivendere in seguito, ma sostanzialmente transitorio, e coloro che vedono il lavoro non standard come una possibile “trappola”, in quanto la combinazione delle variabili di cui sopra non consente loro di fuoriuscire da questa situazione di precarietà.
Alcuni dati significativi sono emersi da una recentissima ricerca qualitativa promossa dall’Associazione Nuovi Lavori e dall’Isfol. I dati inediti rappresentano la fase di scouting di una ricerca più generale che sarà svolta nei prossimi mesi. Si tratta, dunque, di dati provenienti da una pre-ricerca che si è proposta due obiettivi: definire un quadro teorico di riferimento di spiegazione scientifica del fenomeno; testare gli strumenti di indagine, tra i quali i questionari rivolti ai lavoratori, e agli imprenditori, e i colloqui con testimoni privilegiati, sulla base dei quali impiantare la face successiva di analisi quantitativa.
La varietà di tipologie di contratto di lavoro attualmente presenti sono rappresentati da un 27, 2% di contratti a tempo determinato, da un 18, 4% di Co.co.co e da un 16, 7% di lavoro autonomo, a fronte dello 0,6% di associazione in partecipazione, apprendistato, intermittente, lavoro occasionale ed accessorio.
Relativamente alle motivazioni che hanno spinto il lavoratore verso un lavoro non standard, spicca il 51,2% di chi “non ha avuto scelta”, a fronte delle restanti motivazioni di tipo soggettivo (tra le quali: necessità di gestire in modo flessibile il rapporto di lavoro 13,8%, modo di entrare nel mercato del lavoro 16%), dei quali solo il 17,4% prevede un possibile sviluppo in un rapporto di lavoro come contratto di lavoro a tempo indeterminato. I lavoratori in questione avvertono una particolare situazione di svantaggio nell’iscrizione alla gestione separata Inps (54,6%), nella previdenza obbligatoria (48,7%), nella tutela della maternità, delle malattie e per gli assegni familiari (42%), nella Cassa integrazione guadagni (29,4%), nell’assicurazione Inail contro gli infortuni sul lavoro (28,6%). Si avverte però una soddisfazione relativa all’attuale lavoro del 61,3%, che cala relativamente al livello di retribuzione sino al 40%.
Si è sottolineato che occorre favorire la concezione del lavoro non standard come fase di “necessaria transizione” attraverso l’implementazione di servizi di informazione sull’andamento del Mercato del lavoro, di piani di orientamento, di percorsi formativi, al fine di elevare il grado di occupabilità. La politica attiva deve poi intervenire sulla cultura occupazionale, sulla struttura del sistema economico e produttivo locale, favorendo l’integrazione e l’alternanza tra scuola e mondo del lavoro.

Prof. Dell’Aringa: Il nostro Paese si trova in una situazione di saturazione relativamente alla flessibilità. I problemi che oggi emergono sono tanti, innanzitutto le novità normative intimoriscono le aziende di fronte ad un potenziale conflitto sociale, aziende che ad oggi non hanno ancora assestato le loro politiche di assunzione; ma la concorrenza degli altri Paesi cresce e così le problematiche investono l’innovazione tecnologica, la ricerca e la tassazione del welfare per lo sviluppo.

Gli aspetti giuridici:

Prof. Santoro Passarelli: Il temine flessibilità è suscettibile di numerose accezioni, qui ci interessano quelle relative alla flessibilità dell’impresa e del rapporto di lavoro. La flessibilità dell’impresa, nel passaggio dal sistema di produzione fordista a quello post-fordista, coinvolge la normativa sul trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c., che in pochi anni ha subito, sia pur differenti importanti trasformazioni, la prima attraverso il d.lgs. n. 18 del 2001 e la seconda con il d.lgs. n. 276 del 2003.
La flessibilità del rapporto di lavoro prospetta scenari impensabili rispetto a trenta anni fa, dove imperava il rapporto di lavoro a tempo pieno indeterminato, mentre oggi sono numerose tipologie di lavoro atipiche. Ci si sofferma sul Lavoro a progetto (artt. 61 a 69, d.lgs. n. 276/03), che viene inquadrato quale variante delle precedenti collaborazioni coordinate e continuative, la cui espansione era dovuta sia ai contributi previdenziali al 14%, che alla inapplicabilità della normativa sui licenziamenti individuali. Il lavoro a progetto è stato creato con l’intento di far cessare l’abuso con cui si utilizzavano le collaborazioni continuative e coordinate, in quanto dietro di esse spesso si celavano veri e propri rapporti di lavoro subordinato. L’individuazione della fattispecie contrattuale di lavoro a progetto risente di “vizi d’origine”, già da quando nel 1973 si utilizzò quale criterio distintivo dal lavoro subordinato la coordinazione, che invece si presenta quale elemento troppo fragile e troppo labile per aiutare il giudice a discernere quando si sia di fronte all’una o all’altra tipologia contrattuale. Anche l’attuale utilizzo del criterio distintivo del “progetto” non si presenta efficace, perché il legislatore non dona alcun parametro identificativo dello stesso, tanto che potrebbe individuarsi in qualsiasi programma aziendale, occorre dunque individuare dei caratteri più pregnanti, dando spazio al concetto di “dipendenza economica”.

Prof. Liso: Questa ricerca conferma che la flessibilità è un problema non solo italiano, dove si è fatto un uso strumentale e sostanzialmente elusivo di tali tipologie contrattuali, ma europeo. Il d.lgs. n. 276/03 è una normativa che mette fortemente in pericolo la certezza giuridica (dove la certificazione è stata una occasione sprecata) e che restringe il campo della contrattazione collettiva. La flessibilità si deve accompagnare alle garanzie, mentre la parte relativa agli ammortizzatori sociali non ha avuto ancora uno sviluppo (inserita nel ddl n. 848bis). Lo schema del rapporto di lavoro subordinato è il più efficiente, ma si assiste spesso ad una fuga a causa degli elevati costi che le imprese si trovano a sostenere rispetto alle tipologie di lavoro flessibili.

Prof. Pessi: Si avverte una mancanza di dialogo tra giuristi ed economisti, si continua infatti a parlare di flessibilità quando il sistema se la è già conquistata da tempo. Il dialogo attuale si incentra sul cambiamento del rapporto di lavoro, mentre non ci si preoccupa di altri importanti questioni quali il ciclo di vita lavorativa dei prestatori di lavoro, dove emergono problemi relativi alla riconversione degli stessi. La flessibilità interessa non tanto il rapporto di lavoro, ma l’assetto organizzativo dell’impresa, per questo bisogna tutelare il lavoratore costruendo un vero ciclo formativo obbligatoriamente previsto nel contratto di lavoro.

Il dibattito:

Dott. Brunetta: Dal Pacchetto Treu in poi l’occupazione è cresciuta di circa tre milioni di unità, oggi abbiamo raggiunto il massimo storico dei lavoratori tipici in Italia, ma vi è anche il formarsi di una componente di flessibilità, che mancava al mercato italiano, permettendoci di convergere verso l’obiettivo occupazionale europeo da cui siamo stati troppo a lungo distanti, anche se ancora l’Italia si presenta con un eccesso di lavoratori autonomi rispetto al resto dei Paesi europei.
La problematica del lavoro sommerso è legata ai costi contributivi differenziati, che spingono gli imprenditori verso comportamenti opportunistici, inquadrando in quei “costi” le qualifiche professionali. Tutta la flessibilità che si è creata è ricaduta sulle spalle dei giovani, con scarsa solidarietà da parte degli insider (e dei sindacati che è a questi ultimi che rivolgono la loro tutela). Chi parla si è trovato solo nel momento in cui ha proposto incentivi per aiutare i giovani (lavoratori atipici) ad accendere un mutuo. Si proponeva di creare un fondo di garanzia per il ritardo dei pagamenti dei ratei, in ragione della prestazione lavorativa discontinua. Il costo di questo ritardo deve essere assorbito dalla collettività, senza grandi sforzi.
La transizione dal fordismo al post-fordismo è ancora lunga, in tale passaggio si deve cercare di separare la funzione solidaristica da quella redistributiva del salario, che avevano ragion d’essere nel fordismo, ma che se continuano a presentarsi congiunte non si riuscirà a risolvere il problema della massima tutela degli insider a scapito degli outsider.

Prof. Garonna: Anche se siamo in un periodo in cui ci sono grandi divari storici, i risultati delle riforme si incominciano a vedere perché c’è un incremento dell’occupazione. La rivoluzione tecnologica e la globalizzazione mettono in crisi la legislazione nazionale, ed è dunque necessario guardare ad una governance globale. In questo scenario cambia sia il volto della P.A., che per il perseguimento dell’efficienza non può contare sul diritto amministrativo, ma ha aperto le porte al diritto civile, che gli stessi presupposti su cui è stato creato il diritto del lavoro. Bisogna credere nella capacità della società di autoregolarsi, facendo crescere il potere di scelta dei cittadini, mutando anche il concetto di Stato cui siamo stati tradizionalmente abituati.

Dott. Carraro: Si vorrebbe perseguire un sogno, quello di vedere il mondo del lavoro diviso in due parti: lavoro subordinato e lavoro autonomo, purtroppo le riforme intervenute (prima il Pacchetto Treu, poi la Riforma Biagi), lo hanno fatto venir meno.
Oggi riscontriamo un grande abuso delle forme di lavoro flessibile, con finalità speculative e che conducono ad una forte precarietà.
Una soluzione potrebbe essere rappresentata dalla equiparazione delle aliquote retributive, impedendo all’impresa di fare concorrenza sleale, e dalla contrattazione quale negoziato continuo in grado di stabilire regole eque, concrete e solidali.

Daniela Bolognino