L’impatto delle integrazioni socio-sanitarie: il caso della Regione Umbria

08.04.2002

L’impatto delle integrazioni socio-sanitarie: il caso della Regine Umbria

Le profonde trasformazioni, che nel corso dell’ultimo decennio hanno coinvolto il settore sanitario e da ultimo quello sociale, trovano diversi punti di contatto soprattutto in riferimento al principio di integrazione tra politiche sanitarie e politiche socio-assistenziali la cui realizzazione coinvolge, nel rispetto del principio di sussidiarietà verticale ed orizzontale, i diversi livelli di governo e soggetti appartenenti a settori estranei a quello pubblico.

Da qui il proliferare di molteplici modelli organizzativi regionali e di strumenti di programmazione destinati ad individuare strategie di governo, priorità ed azioni che consentano di perseguire l’obiettivo del governo intersettoriale delle politiche sociali.

A ben guardare, dunque, si ha a che fare con un quadro di riferimento abbastanza complesso, difficile da razionalizzare anche in considerazione di tutti quegli effetti diretti ed indiretti che l’integrazione istituzionale, organizzativa e gestionale dei servizi sanitari e socio-assistenziali produce rispetto, sia al reperimento ed alla gestione delle risorse finanziarie, sia alla gestione ed al coordinamento dei diversi profili professionali coinvolti nell’ erogazione delle prestazioni integrate.

La valutazione di impatto sull’ordinamento regionale dell’Umbria del percorso verso la realizzazione dell’integrazione socio-sanitaria evidenzia come l’esigenza di soddisfare tale obiettivo comincia ad essere sentita, in questa Regione, prima ancora della riforma sanitaria del 1978.

Dall’analisi della legislazione regionale di riferimento e dalla ricognizione degli atti di programmazione del governo delle politiche sociali della Regione Umbria emergono, infatti, dati sufficienti almeno per un triplice ordine di considerazioni:


  1. andamento altalenante della tipologia dei piani previsti dalla legislazione regionale (Cfr. l.r. n. 54/1974, art. 9, c. 9; l.r. n. 65/1979, arrt. 12 e 41; l.r. n. 29/1982; l.r. n. 1/1995, art. 8; l.r. n. 3/1997, art. 34; l.r. n. 3/1998, art. 22, c. 2);
  2. previsione di piani di programmazione integrati limitata alle leggi regionali di disciplina dell’esercizio delle funzioni socio-assistenziali (Cfr. l.r. n. 54/1974, art. 9, c. 9; l.r. n. 29/1982.);
  3. previsione di livelli di programmazione ulteriori rispetto a quelli regionali (Cfr. l.r.n. 54/1974, art. 11; l.r. n. 29/1982, art. 24; l.r. n. 1/1995, art. 21; l.r. n. 3/1997, art. 35).

In riferimento al punto sub a) vale la pena sottolineare come, dalle diverse fasi dell’evoluzione normativa regionale, è possibile cogliere il passaggio dalla previsione di atti di programmazione integrati ad atti separati e viceversa: discontinuità che, presumibilmente, è da ricondurre all’andamento della produzione legislativa statale di riferimento che, come è noto, mentre è intervenuta a disciplinare e ridefinire il S.S.N secondo cicli temporali sufficientemente regolari, non ha fatto altrettanto per il settore degli interventi e dei servizi sociali. La mancanza di una cornice normativa unitaria capace di razionalizzare ed omogeneizzare gli interventi socio-assistenziali unitamente alla distribuzione delle relative funzioni di governo tra numerosi Ministeri se, a livello nazionale ha favorito il proliferare di innumerevoli leggi settoriali che si sono limitate a garantire prestazioni assistenziali per singole categorie di destinatari, a livello locale ha dato luogo a sistemi organizzativi e gestionali disarticolati e frammentati tali da generare incertezza, talvolta, anche rispetto alla titolarità delle competenze istituzionali. Una simile situazione ha finito per incidere anche sulla programmazione del settore, programmazione che peraltro a livello nazionale non è stata mai definita attraverso uno specifico strumento di pianificazione, mentre a livello regionale si è provveduto, almeno per quello che riguarda l’Umbria, secondo modalità evidentemente non sempre omogenee.

Le peculiarità dello scenario nazionale sono presumibilmente anche la causa di quanto richiamato nel punto sub b) rispetto al quale si segnala che la previsione dell’adozione di piani integrati è stata sempre e soltanto contenuta nelle leggi regionali che hanno disciplinato l’esercizio delle funzioni socio-assistenziali e mai in quelle di riordino del settore sanitario regionale che, invece, hanno con continuità previsto l’adozione di Piani sanitari regionali non mancando, però, di garantire la loro integrazione con gli strumenti di programmazione del settore socio-assistenziale.

La previsione di cicli di programmazione articolati su più livelli di governo territoriale, è un’altra peculiarità della legislazione regionale dell’Umbria che ha costantemente rinviato alla c.d. programmazione ‘dal basso’ che, pur assumendo nelle fasi dell’evoluzione normativa denominazioni diverse, ha sempre visto i Comuni come soggetti direttamente coinvolti con l’obiettivo di garantire un’offerta di servizi e di interventi socio-sanitari sufficientemente flessibili e adeguati alle caratteristiche dei diversi contesti territoriali.

Obiettivi, strategie ed azioni ribaditi, peraltro, dagli ultimi due atti di programmazione adottati dalla Regione Umbria: Piano sanitario regionale 1999-2001 e Piano sociale regionale 2000-2002.

Il P.S.R 1999-2001, terzo atto di programmazione del settore adottato dal governo regionale ha, infatti, come scenario di riferimento i principi di riforma introdotti dai DD. Lgss n. 502/1992 e n. 517/1993, le ll. rr. n. 3/1997 e n. 3/1998, il P.S.N. 1998-2000, gli orientamenti dell’O.M.S (Carta di Lubiana del 1996) nonché i dati sul funzionamento dei servizi sanitari dei Paesi sviluppati forniti dall’ OCSE.

La combinazione dei dati risultanti da questi atti ha condotto alla individuazione di taluni indirizzi strategici che mirano, prioritariamente, a riorientare i modelli organizzativi ed assistenziali nella direzione della massima integrazione di risorse e di processi qualificando il distretto (Il Piano definisce il distretto come ambito di comunicazione, per i programmi a forte fabbisogno di integrazione, con tutte le realtà del territorio ed in particolare con i Comuni, le organizzazioni non lucrative di attività sociali (ONLUS) comprese le cooperative sociali, gli altri soggetti esterni al Servizio sanitario regionale) come luogo privilegiato di governo della domanda di salute e di gestione ed integrazione di tutte le attività extraospedaliere e di queste ultime con le attività sociali, vale a dire, come struttura operativa che garantisce l’integrazione istituzionale. All’integrazione gestionale il Piano dedica una particolare attenzione partendo dal presupposto che la gestione unitaria degli interventi, all’interno del distretto, è possibile anche se sul versante istituzionale è presente una netta separazione per quanto concerne sia le competenze, sia il finanziamento e i criteri di partecipazione alla spesa tra i comparti della sanità e dell’assistenza.

A tal fine, ed in continuità con quanto previsto dall’art. 31 della l.r. n. 3/1997, il Piano richiama la triplice tipologia degli interventi da organizzare e gestire all’interno del distretto in forma integrata: interventi sanitari, interventi socio-assistenziali e interventi sociali a rilievo sanitario.

Sotto il profilo dell’assetto istituzionale, anche il Piano sociale si muove nel rispetto sia del modello organizzativo e gestionale delineato dalla l.r. n. 3/1997, sia dell’assetto delle competenze risultanti dai conferimenti di funzioni e compiti alle Regioni ed agli Enti locali operati dal D. Lgs. n. 112/1998 (Cfr., in particolare, gli artt. 128, 129, 130, 131 e 132 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli Enti locali, in attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), anticipando, peraltro, alcuni contenuti della legge statale n. 328/2000 che, al momento dell’adozione del Piano, era ancora in discussione nelle aule parlamentari.

In continuità con le indicazioni del P.S.R. l’integrazione socio-sanitaria costituisce uno degli obiettivi primari che il Piano sociale si preoccupa di salvaguardare e garantire anche con specifico riferimento alle problematicità di ordine istituzionale ed organizzativo che, nella fase di transizione, potrebbero derivare dal riassetto delle competenze disposto dalla riforma c.d. Bassanini.

Per quanto concerne la definizione convenzionale degli interventi e le modalità organizzative e gestionali dell’integrazione, il Piano sociale si integra, come richiesto dall’art. 34, c. 5 della l.r. n. 3/1997, con il P.S.R. riproponendo la triplice tipologia degli interventi da organizzare e gestire all’interno del distretto in forma integrata.

Rispetto all’integrazione, la vera novità del Piano sociale sta nell’aver previsto che talune aree progettuali del sociale debbano integrarsi con comparti della Pubblica Amministrazione ulteriori e diversi da quello della sanità, quali la scuola, il lavoro e la formazione (Nell’ottica del Piano, infatti, stabilire rapporti e connessioni del sociale con altri ambiti di governo della Regione significa favorire, attraverso una programmazione e una progettualità intersettoriale, ‘una innovazione di sistema che consiste nel considerare le politiche sociali coessenziali alle politiche di sviluppo, nella convinzione che migliorare la vita dei cittadini costituisce un vantaggio competitivo poiché contribuisce a produrre risorse, risorse fiduciarie e di coesione sociale‘ che, in sinergia, finiscono per avere riflessi positivi sulle relazioni produttive agendo come fattori propulsivi di sviluppo), anticipando, in questo senso, taluni contenuti della L. n. 328/2000.

Sotto il profilo organizzativo, il Piano individua come strumenti di integrazione ed armonizzazione delle politiche regionali di settore con gli aspetti socio-assistenziali: il Programma triennale per le politiche del lavoro e della formazione; gli atti di programmazione comunitaria relativi al Fondo Sociale Europeo; il Piano regionale dei trasporti con particolare riferimento all’accessibilità dei soggetti portatori di handicap fisici; il Programma pluriennale per le politiche abitative pubbliche.

Tali sedi decisionali saranno tanto più idonee a garantire l’integrazione e l’armonizzazione delle politiche regionali quanto maggiore sarà, nella fase di progettazione, il coinvolgimento degli Enti locali in quanto soggetti che dovranno poi garantire sul territorio le politiche intersettoriali, e nella fase di definizione, il coinvolgimento di diverse competenze professionali e l’impegno, per finalità organizzative, delle strutture regionali interessate. Operativamente, dunque, il Piano sociale finisce per affidare al lavoro pluriprofessionale la realizzazione dell’integrazione fra l’area sociale e gli altri comparti affidando le funzioni di coordinamento a quelle figure professionali che afferiscono all’Amministrazione alla quale spetta la competenza istituzionale primaria dell’intervento.

In questo senso, dunque, i contenuti degli atti di programmazione adottati dalla Regione Umbria sembrano porsi in linea di continuità anche con le scelte del legislatore statale che con l’adozione del D. Lgs. n. 229/1999 ha confermato la stretta relazione tra attività programmatoria e individuazione di strategie condivise per obiettivi comuni utili ed indispensabili per il completamento dell’ integrazione delle politiche dei servizi. Riconfigurando le funzioni e l’articolazione del processo di formazione del P.S.R. (Cfr. art. 1, cc. 4 e 5), il D. Lgs n. 229 ha attribuito alla programmazione il ruolo di esclusiva modalità di governo della sanità assegnandogli, peraltro, una serie di competenze che non possono essere esercitate utilizzando strumenti elaborati in sedi decisionali diverse.

La tendenza generale è quella di articolare il sistema programmatorio sanitario su tre livelli – nazionale, regionale (Cfr. art. 1, cc. 11 e 12) e locale (Cfr. art. 2 – quinques) – ristabilendo l’equilibrio tra responsabilità regionali e comunali in virtù degli specifici apporti che i Comuni possono garantire, da un lato, alla programmazione regionale attraverso la Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale e dall’altro, a quella locale con la partecipazione alla redazione sia del Piano attuativo locale, sia del Programma delle attività territoriali.

Rispetto al rapporto tra i diversi livelli di programmazione, comunque, gli obiettivi prioritari del D. Lgs. n. 229 sembrano essere due, vale a dire quello di elevare il Programma delle attività territoriali a strumento di sintesi dell’assistenza distrettuale e quello di migliorare il coordinamento tra i diversi livelli di governo (Cfr. art. 1, c. 13): il perseguimento del primo obiettivo trova la sua ratio nella scelta che ha suggerito di qualificare il distretto come sede in cui devono essere garantiti i servizi primari relativi alle attività sanitarie e socio-sanitarie; per quanto concerne, invece, la garanzia del coordinamento tra i diversi atti di programmazione, le modalità e gli strumenti individuati dal legislatore statale inducono a ritenere che l’orientamento sia quello di raggiungere tale obiettivo attraverso valutazioni di congruenza tra i medesimi atti da eseguire sia in una fase preventiva all’adozione, sia in una fase successiva.

La fase del coordinamento ex ante sembra, infatti, essere garantita dalla previsione di due momenti di confronto tra il Ministro della Sanità e le Regioni finalizzati l’uno, a promuovere ‘forme di collaborazione e linee guida comuni in funzione dell’applicazione coordinata del Piano sanitario nazionale‘ (Cfr. art. 1, c. 13), e l’altro a valutare la coerenza dei P.S.R. con gli indirizzi del P.S.N. attraverso il parere che il Ministro della Sanità deve esprimere, e che le Regioni sono tenute ad acquisire, sugli schemi o progetti di P.S.R. (Cfr. art. 1, c. 12).

Il principio della intersettorialità degli interventi è richiamato anche dal P.S.N. per il triennio 1998-2000 che, addirittura, lo colloca tra le ‘idee forti’, come punto qualificante ‘il percorso delle strade dell’integrazione socio-sanitaria’.

Il richiamo a tale percorso è particolarmente incisivo nella parte del Piano dedicata alla garanzia dei livelli di assistenza, sia sotto il profilo della individuazione ed articolazione del sistema e degli ambiti delle garanzie del SSN, sia sotto il profilo della indicazione degli strumenti per la garanzia dei medesimi livelli: l’integrazione tra assistenza sanitaria e assistenza sociale è addirittura qualificata come condizione necessaria per la concreta attuazione dei livelli di assistenza relativi alle situazioni che interessano le aree del disagio e dell’emarginazione nella consapevolezza, peraltro, che la realizzazione di tale condizione è subordinata alla definizione di adeguati livelli di garanzia anche per l’assistenza sociale.

In ordine agli strumenti per il perseguimento degli obiettivi di tutela, il Piano colloca la ridefinizione del ruolo delle autonomie locali nella programmazione regionale e nell’integrazione socio-sanitaria, tra gli aspetti chiave del processo di riordino del SSN per il quale si rendono necessari specifici documenti di approfondimento e linee giuda di tipo operativo: programmazione regionale, predisposta preferibilmente con Piani unitari dei servizi sanitari e sociali, e programmazione zonale dei servizi e degli interventi concertata con i diversi soggetti istituzionali e sociali impegnati nei settori di riferimento, costituiscono, dunque, le sedi decisionali più adeguate per l’individuazione di priorità strategiche utili alla realizzazione di una delle ‘idee forti‘ del Piano.

A quanto appena detto deve essere aggiunto che, il principio della integrazione delle politiche sociali ha recentemente ricevuto ulteriore valorizzazione e nuovi impulsi da parte della L. 8/11/2000, n. 328 che, nel dettare i principi fondamentali per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, ha elevato tale aspetto a fondamento del sistema di protezione sociale. Presupposto fondamentale del dettato legislativo è che la garanzia delle prestazioni offerte dal sistema di protezione sociale debba necessariamente poggiare sul coordinamento delle politiche assistenziali con quelle di natura non solo sanitaria, ma anche dell’istruzione, della formazione e dell’accesso al lavoro nel duplice profilo dell’avviamento e del reinserimento (Cfr. art. 3, c. 2).

Una ridefinizione, dunque, dell’assetto complessivo delle politiche sociali finalizzata prioritariamente al superamento dei tradizionali fondamenti categoriali del sistema delle prestazioni socio-assistenziali e orientata verso l’accoglimento di un’accezione della protezione sociale in senso attivo, vale a dire, garante e, allo stesso tempo, sede di esercizio dei diritti sociali di cittadinanza complessivamente intesi. Una ridefinizione che offre, quindi, anche una nuova chiave di lettura dell’assetto organizzativo e gestionale dei servizi e delle prestazioni che, proprio per fondarsi sulla più ampia integrazione delle politiche sociali e, conseguentemente, su un modello di Welfare universale, necessita sia dell’opera di molteplici protagonisti istituzionali e non, sia della individuazione di sedi idonee ad attivare processi decisionali finalizzati alla produzione di atti di programmazione debitamente concertati e coordinati (Il Capo IV (artt. 18 e 19) della legge n. 328/2000 è dedicato alla individuazione degli strumenti per favorire il riordino del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Gli atti programmatori previsti sono il Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali, il Piano regionale degli interventi e dei servizi sociali e i Piani di zona definiti dai Comuni associati d’intesa con le Aziende unità sanitarie locali).

Quanto appena detto è sufficiente a dare conto del duplice significato che la legge n. 328 attribuisce al termine integrazione da intendere presumibilmente, sia nel senso di riunificazione degli strumenti di politica assistenziale e di promozione sociale, sia nel senso di instaurazione di nuovi modelli relazionali tra le istituzioni appartenenti ai diversi livelli di governo.

Duplicità di significati ricavabili dal dettato legislativo ed in particolare da talune espressioni lessicali ricorrenti in diversi parti del testo della legge quali ‘coordinamento delle politiche sociali’, ‘integrazione dei servizi alla persona’, ‘definizione di percorsi attivi volti ad ottimizzare l’efficacia delle risorse ‘: si tratta, in sintesi, di espressioni-chiave che esprimono principi, presupposti e condizioni per la programmazione degli interventi e delle risorse del sistema integrato, programmazione che lo stesso legislatore ha affidato agli Enti locali, alle Regioni, allo Stato insieme ai soggetti appartenenti al terzo settore (Cfr. art. 22, c. 1).

In questi termini, dunque, è evidente come il legislatore statale ha finito per elevare il coordinamento delle politiche sociali a strumento di raccordo della complessità sociale che caratterizza il Welfare State, vale a dire, a strumento di compensazione del pluralismo affidandogli il compito di organizzare i processi decisionali, ruolo che come è noto, contraddistingue i processi di policy making.


di Letizia Pietrolata