Il 23 febbraio, in occasione della giornata inaugurale della V edizione del Master Universitario di II livello in Amministrazione e Governo del Territorio, si è tenuta presso l’Aula Toti della Luiss la lectio magistralis dal titolo “Le prospettive delle autonomie territoriali” di Ugo De Siervo, Presidente emerito della Corte Costituzionale, giurista e accademico.
Il prof. Gian Candido De Martin, Direttore del Master, ha aperto la lezione delineandone brevemente l’oggetto, il quale verte attorno alle prospettive delle autonomie territoriali e alla loro evoluzione a partire dagli anni Novanta. Ci si è concentrati, infatti, sul sistema locale, che include istituzioni territoriali e non territoriali, ma anche le imprese che interagiscono con il settore pubblico. Si tratta di una presenza composita nella dimensione provinciale e sub-provinciale, nella quale emerge la necessità di coordinare le diverse istituzioni. In questo senso, l’art. 5 Cost. valorizza l’istituzione territoriale, primo e principale punto di riferimento sul piano della amministrazione. Il principio autonomistico ha inoltre trovato ampio spazio nella riforma del Titolo V del 2001, sia sul piano amministrativo che, per quanto riguarda le regioni, su quello legislativo, pur con tutte le criticità legate alla formulazione dell’art. 117 Cost.
Nel 2001, l’orientamento generale era a favore del potenziamento delle autonomie territoriali e la riforma costituzionale che ne era scaturita aveva completato un processo iniziato con le riforme degli anni Novanta. Questa spinta autonomista è stata poi per molti versi contraddetta dagli sviluppi successivi, soprattutto a partire dall’avvento della crisi economica. L’emblema dell’arresto di questo processo è rappresentato dalla lettera inviata dalla BCE allo Stato italiano nel 2011, nella quale, in sostanza, si individuava la riduzione dei margini di autonomia delle collettività locali come strumento per tagliare la spesa pubblica. In questa chiave di lettura si inserisce anche la marcia indietro operata con la legge Delrio (l. 56/2014) rispetto alla riforma sul federalismo fiscale, di dubbia costituzionalità, nonostante sia stata legittimata dalla opinabile sentenza 50/2015 della Corte costituzionale. A tale proposito si è sottolineato come l’obiettivo della semplificazione abbia prodotto tutt’altro tipo di effetti.
In coda al suo intervento, De Martin ha evidenziato come il prof. De Siervo si sia impegnato direttamente non soltanto nella campagna referendaria, ma anche dopo la sua conclusione, sostenendo la necessità di non abbandonare l’intento riformatore ma di cambiarne radicalmente l’approccio.
Il Prof. De Siervo ha iniziato il suo intervento avversando l’idea che l’unico effetto dell’esito sia stato quello di ristabilire lo status quo. Pensare che la mancata ratifica popolare della riforma costituzionale abbia riportato “tutto come prima”, incarna una visione semplicistica, perché si è trattato di un tentativo di riforma così penetrante, sostenuto da una campagna così pervasiva, che il dibattito pubblico ne sarà influenzato a lungo. Occorrerà tuttavia superare rapidamente i gli eccessi umorali che hanno caratterizzato lo scontro politico sul voto del 4 dicembre, per riaprire un processo riformatore informato a toni più distesi.
La necessità di tale processo è ulteriormente rimarcata dal fatto che le esigenze da cui muoveva la riforma, proprio in mancanza della sua approvazione, sono rimaste senza una definitiva risposta.
Al più, se si vuole raccogliere il segnale promanato dalla consultazione referendaria, emerge il bisogno di cambiare l’approccio alle riforme dell’ordinamento: non riforme globali ma settoriali, non ampie riforme costituzionali ma precise riforme istituzionali. La stessa riforma del 2001, benché sia stata approvata da referendum, in fase attuativa ha incontrato alcuni ostacoli derivanti da una portata eccessivamente ampia, che comportava alcuni punti di frizione con l’asseto complessivo dell’ordinamento.
In questo senso, De Siervo ha enucleato sinteticamente alcuni punti, per i quali nella riforma del Titolo V potevano essere ravvisati margini di criticità, riguardanti non soltanto lo stile della sua formulazione, ma anche, e soprattutto, i suoi contenuti. Rispetto a questi ultimi, destava perplessità l’assetto dei poteri locali, disciplinati da disposizioni «assolutamente sconvolgenti». In particolare, l’art. 117, alla lettera “g” del secondo comma, attribuiva alla competenza esclusiva dello Stato le norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche – quindi non solo quelle statali – tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale. Il Parlamento, dunque, avrebbe dovuto fissare una legislazione per tutte le amministrazioni pubbliche e soprattutto avrebbe dovuto assicurarne l’uniformità. Una siffatta competenza – ha precisato il professore – costituisce esattamente l’opposto dell’autonomia.
Per contro talune competenze più intimamente collegate all’autonomia locale (assistenza sociale, governo del territorio, valorizzazione del paesaggio), sarebbero state incluse nella competenza esclusiva dello Stato. In definitiva, la riforma avrebbe comportato un forte accentramento del sistema, conseguito non solo mediante l’eliminazione di una categoria di enti locali – le province – ma attraverso il ridimensionamento dell’autonomia stessa.
Peraltro dalla complessiva architettura del nuovo Titolo V emergevano taluni punti oscuri: uno su tutti quello dei lavori pubblici. Stante il silenzio del 117 in subiecta materia, non annoverata né sotto il comma secondo e nemmeno sotto il terzo, la logica più ferrea avrebbe voluto l’esercizio della potestà legislativa in mano regionale, per via della clausola sulle competenze residuali. Sarebbe dipoi intervenuta la Corte Costituzionale a risolvere la questione in favore della normativa statale, attraverso la chiave interpretativa delle competenze trasversali del legislatore statale.
In definitiva l’invito è quello di cambiare approccio nel riformare l’ordinamento. Il presupposto per farlo è prendere atto che il Titolo V della Costituzione non è stato attuato nella sua interezza e che alcune delle sue parti – ma solo alcune – necessiterebbero di essere ricalibrate. In questa prospettiva occorre sviluppare le potenzialità individuate dal legislatore costituzionale del 2001, ad esempio dando corso all’art. 11 della l. cost. 3/2001, laddove prevede l’integrazione della Commissione Bicamerale per le Questioni Regionali con i rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali.
Un ulteriore profilo critico dell’attuale assetto delle autonomie territoriali riguarda le Regioni a statuto speciale. De Siervo ha sottolineato in particolare come l’attribuzione di margini di autonomia più incisivi in determinati ambiti ad alcune regioni abbia sortito effetti in modo indiretto anche su tutte quelle regioni alle quali tale autonomia non è stata riconosciuta. L’esempio paradigmatico richiamato in questo senso è quello della disciplina delle Ipab, la cui adozione da parte di una regione speciale che ne aveva la competenza finì per condizionare quella di tutte le altre.
Gli aspetti positivi dell’intento riformatore degli ultimi anni possono tuttavia essere raccolti in diverso strumento. Tanto la previsione di una corsia preferenziale in Parlamento per i progetti di legge promossi dal Governo quanto l’introduzione di una disciplina più stringente dei decreti-legge sono obiettivi conseguibili mediante una riforma dei regolamenti parlamentari, fermi invece alla formulazione del 1997. Anche nei casi in cui per migliorare il funzionamento dell’ordinamento si voglia mettere mano alla Costituzione – ad esempio per abolire il CNEL – occorre farlo in modo puntuale, senza stravolgerla. Non a caso, tra l’altro, due delle tre occasioni in cui il corpo elettorale è stato chiamato a confermare riforme costituzionali medio-grandi le ha respinte.
Pertanto, nel concludere il proprio intervento, De Siervo ha ribadito il suo orientamento favorevole a riforme puntuali e mirate al testo della Carta e ad interventi legislativi volti ad attuare quanto previsto dalle norme di rango costituzionale. In questa direzione ha posto l’accento in particolare su riforme istituzionali riguardanti due aspetti: la revisione dei regolamenti parlamentari, soprattutto sul procedimento legislativo e l’adozione delle leggi cornice e delle leggi di trasferimento delle funzioni amministrative, per rendere l’ordinamento all’altezza del disegno autonomista delineato dal Titolo V vigente. In assenza di tali interventi il prof. De Siervo ha evidenziato, facendo appello anche alla propria esperienza diretta, come la Corte abbia dovuto supplire, non senza imbarazzo, alle lacune legislative lasciate dal Parlamento, richiamando, ad esempio, la celebre sentenza 303/2003, che introdusse nell’ordinamento l’istituto della chiamata in sussidiarietà.
Al termine del convegno ha ripreso la parola il prof. De Martin che, sintetizzando il contributo del prof. De Siervo, ha ribadito quanto emerso dalla lectio magistralis: il bisogno di accantonare la prospettiva di nuove riforme sistemiche, per provare ad attuare in modo serio l’equilibrio disegnato dalla riforma del 2001.
A margine della Lectio è intervenuto il prof. Di Gaspare, Direttore del Centro di Ricerca sulle Pubbliche Amministrazioni Vittorio Bachelet, il quale, traendo spunto dal caso dei lavori pubblici e dall’invito a dar corso alle previsioni della riforma del 2001, ha voluto riproporre una chiave interpretativa del riparto di competenze fra Stato e Regioni, già avanzata all’indomani della l. cost. 3/2001. In particolare, proprio perché già di per sé le modifiche hanno riguardato un complesso vasto di disposizioni costituzionali, sarebbe paradossale estendere tali modifiche anche a tutte quelle parti che non sono state incise da detta riforma. Laddove quindi il Costituente prevedeva l’utilizzo della legge, lo faceva avendo di mente l’idea che della legge emerge dal testo del ’48: una legge statale, a meno che non sia espressamente prevista una competenza concorrente delle Regioni. Di Gaspare porta ad esempio il comma terzo dell’Art.41 sulle limitazioni all’attività economica – nel cui alveo possono appunto essere fatti rientrare gli aggravamenti in capo alla pubblica amministrazione nella fase di scelta del contraente – ma in generale il ragionamento può essere esteso a tutte le riserve di legge al di fuori del Titolo V.